“Turbinavano nella loro testa idee veramente strane: poteva accadere, ad esempio, che una ragazza riflettesse, mentre passeggiava per le vie di una città sorta intorno a una fabbrica, sul fatto che non aveva diritto di mettere al mondo un figlio se questo doveva essere costretto a vivere in una fabbrica. Poteva accadere che una frase casuale letta in un libro accendesse la sua immaginazione, facendole sognare città future dove ci fossero bagni, cucine, lavanderie, gallerie d’arte, musei e parchi. La mente delle donne proletarie era in fermento, la loro immaginazione si era messa in moto. Ma in che modo potevano realizzare i loro ideali ed esprimere i loro bisogni? Era già difficile per le donne borghesi, che avevano alle spalle una certa quantità di denaro e un certo livello di istruzione. Ma in che modo potevano riuscire a cambiare il mondo in base alle idee delle proletarie, donne con le mani piene di lavoro e di cucina densa di vapore, prive di istruzione, di incoraggiamenti e di tempo libero? Fu allora, presumo, in un qualche momento degli anni Ottanta, che nacque in modo modesto e sperimentale la Lega delle donne. Per un certo periodo occupò sul giornale “Co-operative News” uno spazio di uno o due pollici, che si chiamava L’angolo della donna. Fu là che la signora Acland chiese: “Perché non potremmo tenere delle riunioni di madri della cooperativa portandoci il lavoro e mettendoci a sedere vicine, con una di noi che legge ad alta voce qualche testo della cooperativa che poi tutte discutiamo?”.
E il 18 aprile del 1883 annunciò che la Lega delle donne contava sette socie.
Da allora in poi fu la Lega a catalizzare quel flusso incessante di desideri e di sogni, fu la Lega a costituire un punto centrale di incontro in cui potesse prendere forma e consistenza tutto ciò che altrimenti sarebbe rimasto sparpagliato e privo di un significato complessivo. La Lega deve essere riuscita a dare alle donne più anziane, con marito e figli, quello che la “terra pulita” aveva dato alla ragazzina di Bethnal Green o che la vista del sole che sorgeva dietro le colline aveva dato alle operaie giovani della fabbrica di cappelli. Aveva dato loro innanzi tutto il bene più raro fra tutti: una stanza dove poter stare sedute a pensare lontano dalle pentole che bollivano e dai bambini che piangevano. E in seguito quella stanza era diventata non solo un salotto e un luogo d’incontro, ma un’officina in cui, mettendo insieme le loro intelligenze, quelle donne riuscivano a trasformare la loro casa e la loro vita e a progettare le più svariate riforme. E, man mano che il numero delle socie cresceva, e venti o trenta donne acquisivano la pratica di una riunione settimanale, le loro idee diventavano più ricche e i loro interessi più ampi. Invece di discutere solo dei loro rubinetti e lavandini, dei loro lunghi orari e bassi salari, cominciarono a discutere dell’istruzione, del sistema fiscale e delle condizioni di lavoro a livello nazionale.
Virginia Woolf, da “La vita come noi l’abbiamo conosciuta – Autobiografie di donne proletarie inglesi”, lettera introduttiva di Virginia Woolf – traduzione di Anna Rossi-Doria, 1980