Considera le lettere dell’alfabeto, aveva scritto su un foglio bianco, in bella grafia. Alcune sono toccate dalla grazia di un senso a venire, e corrono per questo a raggrupparsi. Altre se ne stanno in un angolo, attendono il passaggio di un senso nomade, così potranno essere accolte nella tenda di una parola. Altre ancora soffrono la solitudine, scrutano in lontananza le proprie compagne, che sono anch’esse isolate su una roccia impervia o sulla riva del mare, vorrebbero raggiungerle ma sono obbligate intanto a star lì, nel recinto dell’inerzia, dell’insignificanza. Infine ci sono quelle che per loro natura sono disposte al canto, perché sono abitate dal vento, sono voce, e musica nella voce: le chiamiamo vocali. Sono le più vicine a quel prima della lingua che è respiro e silenzio della natura, o dolore della natura, dolore per la privazione della lingua. Vestono di bianco, queste vocali, perché possano poi prendere sul loro corpo tutti i colori possibili, unendosi alle altre lettere. Sanno essere l’anima della lingua, essenziali come il sangue che scorre nelle arterie e nelle vene, ma non se ne gloriano, perché sanno anche che nessuna di loro è stata scelta per dare inizio alla parola dell’inizio, anzi un tempo non erano neppure lettere, ma solo soffio, solo voce. Tutte queste lettere vanno a comporre nomi, seguono strade dolci o scoscese per trovare nomi, per nascondere nomi, per sfiorare nomi, per rivelare nomi. Ma lungo questo andare e cercare, lungo questo perdersi e ritrovarsi, esse sognano quel nome che non è dato comporre, un nome-luce che nessun alfabeto può contenere, e abita l’aria, l’acqua, la terra, il fuoco, l’etere. O forse quel nome non abita più neppure questi elementi, è solo cenere, passaggio di vento, polvere interstellare. O persino riverbero che viene dal nulla. Le lettere muoiono, una ad una, per non poter dire quel nome. Nella lingua che rinasce, nella lingua che usiamo, c’è il soffio di quella sconfinata mancanza.Questo aveva scritto su un foglio bianco, in bella grafia.