Affabulazioni

City

14.06.2024
“Sarebbe tutto più semplice se non ti avessero inculcato questa storia del finire da qualche parte, se solo ti avessero insegnato, piuttosto, a essere felice rimanendo immobile. Tutte quelle storie sulla tua strada. Trovare la tua strada. Andare per la tua strada. Magari invece siamo fatti per vivere in una piazza, o in un giardino pubblico, fermi lì, a far passare la vita, magari siamo un crocicchio, il mondo ha bisogno che stiamo fermi, sarebbe un disastro se solo ce ne andassimo, a un certo punto, per la nostra strada, quale strada? Sono gli altri le strade, io sono una piazza, non porto in nessun posto, io sono un posto.”

“Ci ho pensato, ci ho pensato a lungo, Gould, e con tutta la durezza di cui sono stato capace, ma alla fine ho capito che per quanto osceno sia il modo con cui gli uomini abbandonano la verità dedicandosi alla maniacale cura di idee artificiali con cui sbranarsi a vicenda, per quanto mi faccia schifo ormai qualsiasi cosa che puzza di idee, e per quanto io non riesca obbiettivamente a non vomitare di fronte alla quotidiana esibizione di questa lotta primitiva travestita da onesta ricerca della verità – per quanto sconfinato sia il mio disgusto io devo dire: è giusto così, è schifosamente giusto così, è semplicemente umano, è quello che deve essere, è la merda che ci spetta, l’unica merda di cui siamo all’altezza. L’ho capito guardando i migliori. Da vicino, Gould, bisogna avere il coraggio di guardarli da vicino. Li ho visti: erano disgustosi e giusti, lo capisci cosa voglio dire?, disgustosi ma inesorabilmente innocenti, volevano solo esistere, puoi togliergli questo diritto?, volevano esistere. Prendi quelli degli alti ideali, quelli con le idee nobili, quelli che delle loro idee hanno fatto una missione, quelli al di sopra di ogni sospetto. Il prete. Prendi il prete. Non quello qualunque. L’altro, quello che sta dalla parte dei poveri, o dei deboli, o degli esclusi, quello con il maglione e le Reebok, quello lì, avrà iniziato con una qualche accecante apparizione caotica di infinito, qualcosa che nella penombra della sua giovinezza gli avrà dettato vagamente l’imperativo di prendere posizione, e il suggerimento della parte in cui stare, tutto sarà iniziato come deve iniziare, in un modo onesto, ma poi, santo Iddio, quando te lo ritrovi adulto e famoso, cristo, famoso, fa senso già a dirlo, famoso, con il nome sui giornali e le foto, con il telefono che squilla in continuazione perché i giornalisti gli devono chiedere la sua, su questo e quello, e lui risponde, porca troia, risponde, e partecipa, e sfila in testa ai cortei, il telefono dei preti non squilla, Gould, voglio dirtelo con tutta la crudeltà necessaria, tu non lo puoi sapere ma il telefono dei preti non squilla perché la loro vita è un deserto, è programmaticamente un deserto, una specie di parco naturale protetto, dove la gente può guardare ma da lontano, loro sono animali da parco naturale, nessuno li può toccare, puoi immaginare questo, Gould?, per i preti è un problema anche solo farsi toccare, l’hai mai visto un prete che bacia un ragazzino o una signora, solo per salutarli, mica per altro, una cosa da nulla, normale, ma lui non lo può fare, la gente intorno immediatamente avrebbe come un senso di disagio e di imminente violenza, e questa è la quotidiana durissima condizione del prete in questo mondo, lui che pure sarebbe un uomo come gli altri, e invece si è scelto quella solitudine vertiginosa, che non avrebbe via d’uscita, nulla, se non fosse che un’idea, un’idea perfino giusta, cade da fuori a mutare quel panorama, a restituirgli un tepore di umanità, un’idea che, usata per bene, raffinata, revisionata, tenuta al riparo da rischiosi confronti con la verità, conduce il prete fuori dalla sua solitudine, semplicemente, e poco a poco fa di lui quell’uomo che è adesso, circondato di ammirazione, e voglia di avvicinarsi, e perfino desiderio allo stato puro, un uomo con il maglione e le Reebok, mai solo, si muove imbacuccato di figli e fratelli, mai disperso perché costantemente collegato a qualche terminale dei media, ogni tanto tra la folla acchiappa al volo gli occhi di una donna carichi di desiderio, pensa cosa può significare questo per lui, quella vertiginosa solitudine e questa vita esplosa, c’è da stupirsi se è disposto a morire per la sua idea?, lui esiste in quell’idea, cosa significa morire per quell’idea?, lui sarebbe comunque morto se gliela togliessero, lui si salva in quell’idea, e il fatto che in essa salvi centinaia e magari migliaia di suoi simili non cambia di una virgola la faccenda, e cioè che lui salva innanzitutto se stesso, con l’alibi accessorio di salvare gli altri, rapinando al suo destino quella necessaria dose di riconoscimento e ammirazione e desiderio che lo rende vivo, vivo, Gould, capisci bene questa parola, vivo, vogliono solo essere vivi, anche i migliori, quelli che costruiscono giustizia, progresso, libertà, futuro, anche per loro è tutta una faccenda di sopravvivenza, vagli più vicino che puoi, se non ci credi, guarda come si muovono, chi hanno intorno, guardali e prova a immaginare cosa sarebbe di loro se per caso un giorno si svegliassero e cambiassero idea, semplicemente, cosa rimarrebbe di loro, prova a estorcergli una risposta una che non sia una istintiva autolegittimazione, vedi se riesci anche una sola volta a sentirli pronunciare la loro idea con lo stupore e l’esitazione di uno che la scopre in quel momento e non con la sicurezza di uno che ti sta mostrando orgoglioso la devastante efficacia dell’arma che impugna, non farti fregare dall’apparente mitezza del tono, dalle parole che scelgono, astutamente miti, stanno lottando, Gould, lottano con i denti per la sopravvivenza, per il cibo, la femmina, la tana, sono animali, e sono i migliori, capisci?, cosa puoi aspettarti di diverso dagli altri, dai piccoli mercenari dell’intelligenza, dalle comparse della grande lotta collettiva, dai piccoli guerrieri vili che sgraffignano detriti di vita ai margini del grande campo di battaglia, commoventi spazzini di salvezze irrisorie, ognuno con la sua ideina artificiale, il primario a caccia di finanziamenti per pagare il college del figlio, il vecchio critico a lenire l’abbandono della sua vecchiaia con quaranta righe a settimana scagliate dove facciano un po’ rumore, lo scienziato e il suo purè di Vancouver con cui cibare di orgoglio moglie figli amanti, le penose comparsate in televisione dello scrittore che ha paura di scomparire tra un libro e l’altro, il giornalista che pugnala a casaccio in prima pagina per essere sicuro di esistere almeno per 24 ore ancora, stanno solo lottando, lo capisci?, lo fanno con le idee perché non sanno usare altro, ma la sostanza non cambia, è lotta, e sono armi le loro idee, e per quanto faccia schifo ammetterlo, è nel loro diritto, la loro disonestà è una logica deduzione da un bisogno primario, e dunque necessario, il loro schifoso quotidiano tradimento della verità è la naturale conseguenza di uno stato naturale di indigenza che va accettato, non si chiede a un cieco di andare al cinema, non si può chiedere a un intellettuale di essere onesto, non credo, veramente, che glielo si possa chiedere, per quanto sia deprimente ammetterlo, ma il concetto stesso di onestà intellettuale è un ossimoro.”

 

“Rivede Pat Cobhan che scende da cavallo, dopo giorni di viaggio, raccoglie una manciata di polvere, la lascia scivolare piano tra le dita e pensa: niente vento, qui. E lì finalmente si concede la morte.

Non c’era vento dove lo sceriffo Wister si arrese a Bear. Deserto, sole. Niente vento.

Wittacher pensa.

Sono sei giorni che è in quel paese, e il vento non ha smesso di tirare un attimo, come una furia. Polvere dappertutto.

– Perché? -, chiede Phil Wittacher.

– Il vento è la maledizione -, dice Melissa Dolphin.

– Il vento è una ferita del tempo -, dice Julie Dolphin. – quello che pensano gli indiani, lo sapevate? Loro dicono che quando si alza il vento significa che si è strappato il grande manto del tempo. Allora tutti gli uomini perdono la propria pista, e finché tira il vento non la ritroveranno mai. Restano senza destino, sperduti in una tempesta di polvere. Gli indiani dicono che solo alcuni uomini conoscono l’arte di strappare il tempo. Li temono, e li chiamano “assassini del tempo”. Uno di loro ha strappato il tempo di Closingtown: è successo trentaquattro anni, due mesi e sedici giorni fa. Quel giorno, mister Wittacher, ognuno di noi ha smarrito il suo destino in un vento improvvisamente alzatosi, nel cielo della città, e mai più finito.

Bisognava sentirla, Shatzy, quando spiegava quella faccenda. Diceva che bisognava immaginarsi Closingtown come un uomo sporto fuori dal finestrino di una diligenza, con tutto il vento in faccia. La diligenza era il Mondo, che faceva il suo bel viaggio nel Tempo: andava avanti macinando giorni e chilometri, e se tu ci rimanevi dentro, bene al riparo, neanche sentivi l’aria e la velocità. Ma se per una qualunque ragione ti sporgevi fuori dal finestrino, zac, finivi in un altro Tempo, e allora era polvere e vento fino a farti perdere il senno. Diceva proprio “perdere il senno”: e da queste parti non è un’espressione qualunque. Diceva che Closingtown era una città sporta fuori dal finestrino del Mondo, col Tempo che le soffiava in faccia, e la polvere dritta negli occhi a complicare tutto in testa. Era un’immagine che non era semplicissima da capire, ma piaceva molto a tutti, aveva fatto il giro dell’ospedale, credo che in qualche modo tutti ci trovassero una storia che vagamente conoscevano, o una cosa del genere. Lo stesso prof. Parmentier, una volta, mi disse che, se questo mi aiutava, potevo immaginare quello che mi succedeva in testa come qualcosa di non molto diverso da Closingtown. Succede che qualcosa strappa il Tempo, mi disse, e non si è più puntuali con niente. Si è sempre un po’ altrove. Un po’ prima o un po’ dopo. Hai un sacco di appuntamenti, con le emozioni, o con le cose, e tu stai sempre a inseguirli o arrivare stupidamente prima. Diceva che quella era la mia malattia, volendo. Julie Dolphin la chiamava: smarrire il proprio destino. Ma quello era il West: si potevano ancora dire, certe cose. Lei le diceva.

– Trentaquattro anni, due mesi e sedici giorni fa, mister Wittacher, ognuno di noi ha smarrito il suo destino in un vento improvvisamente alzatosi, nel cielo della città, e mai più finito. Pat Cobhan era giovane e i giovani non sanno vivere senza destino. Salì a cavallo e non si fermò fino alla terra dove il suo lo stava aspettando. Bear era un indiano: lui sapeva. Portò lontano lo sceriffo Wister fino ai margini del vento, e lì lo consegnò al destino che si meritava. Bird è un vecchio che non vuole morire. Bestemmia ma se ne sta acquattato in questo vento dove il suo destino di pistolero non lo troverà mai. Questa è una città a cui qualcuno ha rubato a tempo, e il destino. Volevate una spiegazione: vi basta?”

Alessandro Baricco, da “City”, 1999

 

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In evidenza: Foto di Sonia Simbolo

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