Pensieri

Il libro dev’essere vento e aprire le tende

17.06.2024
Il libro dev’essere vento e aprire le tende”, dice un verso di Nazim Hikmet.
Parto da questa frase per una conversazione sull’attività della scrittura letteraria. Non posso chiamarla lavoro nel mio caso. Quello è stato eseguito dal corpo che ha venduto il suo servizio in cambio di salario. Ho del verbo lavorare una notizia ristretta e manuale. Non le ho lasciate in pace, le mie mani, non le ho tenute in tasca o nel fodero dei guanti. Quando le uso per tenere aperto un quaderno sopra le ginocchia e scriverci qualcosa, stanno riposando. Per me scrivere è tempo festivo, opposto al verbo lavorare. Il 1900 è stato il secolo degli operai e del riscatto del lavoro manuale. Scaduto quel tempo, dal riscatto si torna al ricatto del lavoro manuale: o si piega servile, senza dignità e diritti o viene espulso. Chi scrive oggi ha perfino smesso di impugnare una penna, invece sfiora con i polpastrelli una tastiera. Spolvera anziché imprimere. Lo schermetto illuminato risponde da soldatino, con righe impettite, ben allineate. Lo scrittore di tastiera agisce da sergente, quello su quaderno è ancora uno scolaro.
Dylan Thomas conclude una sua pagina con il verso: “Le mani non versano lacrime” (“Hands have no tears to flow“). Non possono, è vero, ma quelle giuste sono capaci di asciugarle.
Il 1900 si è dedicato alle scritture brevi. Le sue esperienze più numerose sono state le emigrazioni, le prigionie, le guerre di sterminio. Perciò il necessario della scrittura si è dovuto concentrare in poco spazio. Non c’ era tempo né inchiostro e così il 1900 si è espresso meglio con le lettere e con le poesie.
Da quando faccio l’attività di scrittore una gran parte del mio scrivere si è sparpagliato in lettere. Non ne conservo copia né rileggo prima di spedire, non devo correggere. Le lettere appartengono a chi le riceve.Qui di seguito rispondo alla richiesta di una persona giovane che mi chiede notizie circa la sua spinta a scrivere per il desiderio di vedere in stampa le sue pagine. Rispondo con il tu che si deve a chi sta alla stessa tavola, una sera di pochi clienti all’osteria.Non spedire le tue pagine a uno scrittore. Non si mandano scarpe fatte da sé ai calzolai, non si spedisce al pasticciere un dolce cotto in casa perché lo assaggi. Darsi per compito la scrittura non passa per la sponda di un altro scrittore. Serve una casa editrice: se la tua spedizione viene respinta, ignorata, perduta, non ricorrere alla lusinga di chi ti offre di pubblicarla ma a tue vive spese. Non farà ufficio stampa né la distribuzione promessa e nel giro di un anno ti chiederà di acquistare l’invenduto, altrimenti dovrà mandarlo al macero. Meglio se ti procuri una tipografia o se stampi da solo, oggi si può. Ne tiri un centinaio di copie e le distribuisci a chi ti vorrà leggere. Forse trovi il libraio che tiene per un po’ il tuo libro in vetrina, se gli vai a genio. Darsi alla scrittura non è un percorso tratteggiato da puntini: riuniscili con la matita e apparirà l’immagine. Come in altre faccende nostre, si tratta di accettare lo zigzag, la divagazione, la permanenza nel deserto. Se ti metti a seguire le quarantadue tappe di Israele nel Sinai, scopri lo sbandare insistito di chi ha perso la via di casa. Gli Ebrei avevano fede in un’assistenza, confermata dal rifornimento della manna. Uno che invece ficca il suo bagaglio nel cartoccio della scrittura, deve incamminarsi senza nessun segnale di assistenza. Più che di solitudine, dev’essere capace di isolamento, una disciplina di silenzio pure dentro una folla. Chi scrive ha davanti a sé la modica vastità di un vuoto. Non lo deve riempire, lo deve abitare.
Non avere capomastri. Puoi ammirare un’altra scrittura, ma poi devi scrollartela di dosso. Leggi le opere degli scrittori da lettore e non da collega dell’autore. Altrimenti può succederti quello che racconta Robert Walser dopo la sua lettura di Dickens: la disperazione di mettersi a scrivere dopo di lui. Si dispera perché ha letto Dickens da scrittore, sapendo di non poter mai scrivere quelle pagine come ha fatto lui. E’ logico, Dickens sta nel campo della sua storia e chi ci entra deve farlo da visitatore, è un ospite, non un socio d’impresa.
Leggi un camion di libri ma da lettore, senza pensiero di paragone tra quello che sfogli e le tue pagine.
Il bravo allievo di un hasìd, titolo di sapienti ebrei dell’Europa orientale, veniva allontanato dal suo maestro che lo spediva a compiere il suo “oprichten goles”, l’esilio volontario. Nel vagabondaggio lontano da biblioteche e scuole, nel rischio di cedere e smarrirsi, avviene il perfezionamento o la disfatta. Scrivere è un modesto sbaraglio da accettare senza condizioni. Per mare non ci stanno taverne.
Impara una seconda lingua. Ne ho studiate alcune per inseguire i poeti dentro la loro tana. Mi spingeva l’ammirazione, un sentimento intransitivo. Si ammira senza il minimo pensiero di essere come, stabilire anche un minimo comparativo di minoranza tra la persona o l’opera ammirata e me stesso. L’ammirazione è opposta all’invidia, che è transitiva, ha desiderio di essere come, essere al posto di. L’invidia è un errore ottico, ignora la distanza, fa credere di trovarsi a portata di mano. Ho ammirato dei poeti, li ho seguiti nelle loro lingue e mi sono applicato a tradurre qualche loro verso. Ho forzato il mio vocabolario nella tensione di raggiungere la precisione. Anche se già tradotti e meglio, mi sono accanito in una mia fedeltà all’originale. Questa pratica dell’ammirazione ha migliorato la mia lingua. Non lo sapevo prima, lo riconosco adesso e perciò raccomando l’esperienza della traduzione.
Il poeta tedesco Heinrich Heine racconta un suo episodio di giovane scolaro della lingua francese. Il professore gli chiede come si traduce “Glaube”, fede. Lui non ricorda, ci pensa e infine al posto di “Foi”, risponde “Credit”, credito. La classe scoppia a ridere, il maestro lo rimprovera. Da quel momento, conclude Heine, si guastò irreparabilmente il suo rapporto con la religione. A me il suo errore spiega qualcosa in più. La fede, che ho visto in quelli che l’abitano, è una continua richiesta alla divinità di essere nella sua vita quotidiana. Il credente, in obbedienza al participio presente del verbo, è chi continua a credere, rinnovando il suo atto di fede. La fede è così una ribadita apertura di credito nei confronti della divinità. L’errore di Heine mi ha aiutato a saperlo. Nelle traduzioni l’urto e
l’accostamento tra le parole di due lingue aumentano la loro energia.
Marcos Ana ha passato ventidue anni della sua vita in prigione, al tempo della dittatura di Franco, dopo la guerra civile spagnola. Torturato, condannato a morte, pena poi commutata in carcere a vita, alla morte del dittatore è uscito dalle celle. In prigione ha imparato a scrivere versi. E’ stato uno degli innumerevoli poeti del 1900 che hanno vissuto dietro le sbarre. Riabituarsi all’aria aperta è stato difficile, specialmente guardare l’orizzonte. Lo spazio spalancato davanti gli procurava vomito e vertigini. Da uomo libero ha incontrato il celebre poeta spagnolo, premio Nobel, Miguel Angel Asturias. Hanno parlato di poesia e Marcos Ana riferisce un passaggio della loro conversazione. Asturias gli disse che quando in un verso gli veniva un aggettivo troppo semplice, lui cercava nel vocabolario quello più prezioso. Marcos rispose che lui faceva il contrario. Quando gli sembrava che la sua parola non fosse la più semplice, cercava nel vocabolario il termine più corrente.
Auguro a te di non sfogliare il dizionario per nessuna delle due ragioni. Aprilo invece per la sua bellezza, per il deposito di storie contenute in ogni vocabolo. Se ne leggi una pagina vedrai spuntare pensieri, storie, ricordi. Le parole di un dizionario sono conchiglie, sembrano vuote ma dentro ci puoi sentire il mare. Non frugare quel solenne elenco come il cercatore dentro una miniera, per estrarne una cosa sola, ma come uno che percorre un campo e legge il brulichìo delle specie viventi.
Considera la tua pagina una sequenza di passi in montagna, dove è rischioso a morte il margine di errore. Le sillabe sono passi su piccoli appoggi, devi posarci il peso della frase, della voce. Usa la virgola, il punto, l’accapo. Il 1800 ha usato molto il punto esclamativo, il 1900 poco, io faccio senza, ma non è una regola, solo un’astinenza. Mi devono bastare le parole scritte a suscitare il punto esclamativo in chi le sta leggendo. Altrimenti è un effetto artificiale, come il cartello “applausi” in una trasmissione televisiva. Fai che la tua scrittura risenta il callo del dialetto di origine. L’Italiano più che dal latino proviene da un’Amazzonia di dialetti, un bacino alluvionale di parlate locali arroccate in centinaia di borghi, suddivise in millesimi di sfumature, dialetti rimasti inespugnabili per secoli. L’italiano sta a valle di innumerevoli affluenti, indipendenti e fieri del loro vocabolario, dell’accento irripetibile da chi non ci è nato. La migliore poesia prodotta dentro il nostro territorio è stata dialettale, dalla Divina Commedia fino a Salvatore Di Giacomo. La tua scrittura in italiano dichiari la provenienza. Deve risentirsene come una patria lasciata, senza compiacimento. Si deve sentire la distanza di chi, nato in madrelingua dialettale, si è fatto emigrante in italiano. Sia debitrice di una marcata origine la tua scrittura, figlia di mamma cafona, ospite in italiano. Si deve sentire le decima parte di una rinuncia e di un adattamento.
Non c’è niente di sacro nello scrivere. Se mai ti piglia la tentazione, scuotila e spazza via l’aureola dalla tua pagina. Nelle miniere di carbone l’aureola intorno alla lampada frontale segnalava la presenza di grisù, gas che per accumulo esplode. Se ti accorgi sulla tua pagina dell’alone blu, scappatene via. Quella intorno alla testa dei santi era per Michelangelo un’emicrania e non ne trovi una appesa al soffitto della Sistina. Spiaceva anche a Leonardo: quando i frati gli impongono per contratto di metterla, lui disegna un filo esile d’olio intorno alle spalle della ragazza snella tra le rocce.Ti racconto la manifattura di una scrittura sacra, secondo qualche regola dello scrivano incaricato della ricopiatura. Non deve capire quello che sta scrivendo, per concentrarsi sul singolo carattere da riprodurre. Perciò è tenuto a scrivere la parola in senso contrario. Mentre esegue deve contare il numero delle lettere. Lo scrivano di scrittura sacra è un contabile. Il più piccolo errore invalida la pagina. Non va accapo spezzando la parola, piuttosto allunga molto la lettera finale, perché non ci devono essere spazi vuoti. Nessuna punta metallica è consentita: solo la canna o la penna di uccello. Non scrive su carta ma su pergamena, che è pelle conciata. Scrive sul lato carne, non sul lato pelle. Prima di mettersi all’opera fa il bagno e recita preghiere. Questa è la fattura di una scrittura sacra e si capisce che non è il caso nostro. Ho tradotto il verso di un salmo in maniera differente dalle versioni in circolazione. Riferito al cammino degli Ebrei nel deserto, la divinità: “Stese una nuvola come tappeto” (Salmo 105,39). Le traduzioni leggono che stese una nuvola per copertura. Ma quella nuvola tra la terra e il sole non è lì a fare da ombrellone contro l’insolazione. E’ a forma allungata e stende a terra l’ombra di un tappeto, da camminarci sopra. Nella vastità uniforme del deserto è urgente sapere la direzione: a segnaletica celeste, la nuvola serve a indicarla. Così fa quella scrittura: fornisce un verso al viaggio. Non offre alcun riparo, anzi espone allo sbaraglio in terre desolate. Non protegge ma orienta i viandanti.
La scrittura letteraria invece può offrire un riparo.
Lo scrittore russo Israil Metter è autore del racconto “Il quinto angolo”. Nelle percosse subìte in una cella, i gendarmi lo sbattevano in terra gridandogli di cercare il quinto angolo della stanza. Lì non c’era, però esiste un punto di riparo in cui non si sentono più le percosse. E’ la letteratura. Non è opera sacra, non indica la direzione, è sporgenza sotto la quale proteggere la propria vita dalla grandine dei colpi. In una prigione, in una malattia, in un amore andato a male, in un assedio, dentro una perdita: un libro può essere vento. Non sono sacre le cose che scriverai, ma devi sapere che potranno servire a qualcuno, tenergli compagnia dentro un affanno. Non ha niente di sacro la letteratura, ma può avere una responsabilità civile.
Chiedono allo scrittore di pronunciarsi su faccende solenni oppure futili, di prendere una posizione pubblica. Non è questo il suo compito accessorio. Sua responsabilità principale è scrivere meglio che può le sue storie. Oltre a questo impegno resta un solo ambito di sua competenza: il diritto di parola. Difenderlo dove manca, dove indietreggia. Difendere non quello di colleghi scrittori, ma quello di tutti gli altri, muti e analfabeti inclusi. Difendere il diritto di parola di un prigioniero, di un avversario, di un vinto, questo è l’ambito accessorio di uno scrittore.
Invece ho sentito scrittori intimare a qualcuno a loro sgradito di tacere. Questa è bestemmia contro la parola. Negarla a qualcuno è rinnegarla. Chi vuole mettere a tacere fa opera di silenziatore, che è strumento avvitato sull’arma da fuoco. L’impegno civile di un calzolaio, oltre a far bene le sue scarpe, consiste nel chiedere per tutti il diritto di cammino sulla pubblica via con un paio di calzature ai piedi. Fa disgusto se intima al suo avversario di camminare scalzo. Comunque vada con la tua scrittura, che sia gradita o ignota, difendi il diritto di parola di chiunque. E se ti costerà una perdita, pagane allegro il prezzo, sei scrittore e porti responsabilità della libera parola altrui. Non far passare liscia la frase che intima di tacere. Contrasta ovunque la censura, fai il bravo calzolaio e difendi il diritto di cammino. Questo è il nostro ambito laico, la libera parola scritta, detta, cantata, recitata, in ogni luogo pubblico.
Uno scrittore deve piantare almeno un albero. I suoi libri costano legno, polpa per la carta. Ogni storia pubblicata ha la prefazione di una motosega. Le pagine sono state foglie. Prima che da un’ispirazione, provengono dalla sintesi di clorofilla e luce. Uno scrittore deve rimborsare il mondo con gli alberi. Ho la comodità vantaggiosa di abitare in campagna, ho piantato tutti gli alberi del campo che ho intorno. Crescono e allargano in terra la circonferenza dei rami. Procurano ombra. Questo potrò rispondere di me, il migliore fatturato del tempo a me assegnato sarà di avere procurato ombra. “Carmina non dant panem”, di poesia non si mangia. Qualche volta è successo nell’antichità greca e romana, in Russia e a Napoli tra 1800 e 1900. A Napoli però i poeti dovevano associarsi ai musicisti, producendo un repertorio di canzoni resistenti all’usura. E’ buono il tempo in cui “carmina dant panem”. Non è il caso di oggi, perciò dispera allegramente di campare a spese dei libri. Non fare caso alla manciata che ci riesce. Non vergognarti di nessun mestiere fatto per sussistere, se hai per rimborso e redenzione l’ora di scrittura.
La gran parte del giorno è da lasciare correre dietro alle faccende, ma non è sprecata se ha per riscatto la pagina agguantata in fine di forze e di giornata. Non essere petulante con la fortuna, viene o non viene secondo i fatti suoi e non si lascia convincere da suppliche e impazienze. Fallirai molte volte, dispererai di consistere in una tua scrittura. Se sarà così, sarai nella disposizione giusta. Borges la fissa nel verso: “di chi viene da così lontano che non spera di giungere”.
Da quanto lontano viene la scrittura? Dalla serpentina della tua spina dorsale, da ali possedute e perdute, da una coda mozzata, dai bivacchi di antenati intorno ai fuochi, arriva la scrittura che infine spunta dalle tue dita dopo avere attraversato nel tuo corpo le stazioni della storia umana. Viene dall’ascolto di chi a sera barcolla per l’alcol e per nessun’ altra sazietà, da voci arrivate alle ultime stanze. Viene da notti bianche e giorni da servo, da un biglietto di sola andata e da un foglio di via. La scrittura è lo sfregamento della distanza sopra un foglio di carta. Infine considera un insulto chi ti attribuisce del talento. E’ falso luccichìo che abbaglia il piccolo narciso che ognuno porta a bordo. Il talento t’illude di fornirti la scorciatoia di un dono, invece fa da intralcio o peggio è botola spalancata sotto i piedi. Il talento disprezza l’ostinazione, unica disciplina necessaria. L’ostinazione è una sottomarca della costanza, virtù che non ho posseduto, facendomi bastare la supplenza di una caparbietà.
Stròncati in corpo a ogni stagione la ricrescita infestante del talento, gramigna. E’ il prepuzio da circoncidere ogni volta, perché rispunta, presuntuoso e baro. Ti trucca le carte, ti compiace e ti fa credere. E’ moneta falsa. Il primo talento di Francesco di Assisi furono le armi.
Questa lettera non fornisce direzione né equipaggiamento. Potrà dissuadere l’incerto o ribadire il testardo, essere di consiglio o di scoraggiamento. I due effetti rientrano nelle mie intenzioni.
Il libro dev’ essere vento, aprire le tende. Ma noi non abbiamo le chiavi del vento. E non possiamo sapere se dalle nostre pagine si leva un principio di brezza. Il vento che gonfia le nuvole e fischia alle onde, non si lascia addomesticare. E’ bello per me sapere che nell’ebraico antico delle scritture sacre è di genere femminile, come le lettere dell’alfabeto.
Erri De Luca, su “la Repubblica”, 3 giugno 2012
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Nell’immagne: opera di Vladimir Kush

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