Affabulazioni

Shiroi hana (Il fiore bianco)

10.07.2024
I matrimoni tra consanguinei s’erano succeduti generazione dopo generazione. La sua famiglia era andata man mano estinguendosi per la tubercolosi.
Anche lei ha spalle troppo strette. Un uomo che le abbracciasse avrebbe un moto di stupore.
Una donna premurosa le aveva detto:
«Stai attenta a chi sposi. Non deve essere una persona robusta. Che sia una persona di carnagione chiara, anche debole all’apparenza, ma senza malattie, e che con la tubercolosi almeno, non abbia niente da spartire. Una persona che stia sempre seduta composta, che non beva, e col sorriso sulle labbra…»
A lei, invece, piace fantasticare di forti braccia maschili. Forti da farle scricchiolare le costole nel cingergliele.
Nonostante il volto trasparente poi, ha certi modi d’un fatalismo disperato. Da sospingersi a occhi chiusi, leggera nel mare della vita. Da lasciarsi correre con la corrente. È questo che la fa seducente.
Le giunse una lettera da un cugino: «Infine mi sono ammalato di petto. È semplicemente arrivato il fatale momento che m’attendeva dall’infanzia. Sono sereno. Però c’è una cosa, una sola cosa, che rimpiango: perché quand’ero sano mai una volta t’ho pregato di lasciarti baciare? Che almeno le tue labbra non siano contaminate dal bacillo della tubercolosi!»
Lei volò dal cugino. Subito dopo fu mandata in un sanatorio sulla costa.
Un giovane medico se ne prese cura quasi fosse l’unica degente. Le portava ogni giorno fin sulla punta del promontorio una sdraio di tela come una culla. Un bosco di bambù lontano scintillava sempre dei riverberi del sole.
Spunta il giorno:
«Ah, ti sei ormai rimessa alla perfezione. Proprio alla perfezione. Quanto ho atteso questo giorno».
Detto ciò, il medico la sollevò senza sforzo dalla sdraio sugli scogli.
«Come quel sole, anche la tua vita è sorta nuova. Perché tutte le navi del mare non dispiegano per noi le loro vele rosa? Mi perdonerai, vero, se ho atteso questo giorno con due cuori, come medico che ti guariva e con un’altra parte di me. Con quanta trepidazione ho atteso questo giorno. Quanto è stato duro non accantonare la coscienza professionale. Tu ormai sei perfettamente a posto. Così perfettamente a posto da poterti lasciare andare al sentimento. Perché il mare non si tinge di rosa per noi?»
Lei levò al medico occhi pieni di gratitudine, poi volse lo sguardo al mare e attese.
Ma in quell’istante fu folgorata, suo malgrado, dall’assenza in lei d’ogni pensiero di verginità. Dall’infanzia ha davanti agli occhi la propria morte. Perciò non crede al tempo. Non crede allo svolgersi del tempo. E dunque neppure alla verginità.
«Con quanto trasporto osservavo il tuo corpo. Ma con quanta razionalità anche ne studiavo ogni centimetro. Per un medico, il tuo corpo è stato un laboratorio».
«Come?»
«Un così bel laboratorio… Non avessi avuto la vocazione del medico, la mia passione a quest’ora t’avrebbe uccisa».
E così questo medico le divenne antipatico. Si mise a far toeletta in modo da scansare il suo sguardo.
Un giovane romanziere ch’era nella stessa clinica le disse: «Auguri a noi! Facciamoci dimettere lo stesso giorno».
Al cancello i due salirono sulla stessa auto e corsero per pinete.
Il romanziere fece come per posare un trepido braccio sulle sue piccole spalle. Lei s’abbandonò all’uomo come un oggetto debole e leggero che franasse.
I due si misero in viaggio.
«È l’alba rosa della vita. Quale meraviglia che nel mondo cadano assieme due mattini, il tuo mattino e il mio mattino. Due mattini diventano uno. Ecco, questo è bello. Scriverò un romanzo intitolato I due mattini».
Lei levò al romanziere occhi pieni di gioia.
«Guarda questo. È un tuo ritratto al tempo dell’ospedale. Anche se tu fossi morta e io fossi morto, tutti e due forse saremmo vissuti dentro questo romanzo. Ma ora siamo due mattini: bellezza trasparente di caratteri senza carattere. Come polline che olezza nei campi a primavera, tu fai fluttuare sul mondo una bellezza simile a un profumo, invisibile all’occhio. Il mio romanzo ha scoperto un’anima bella. Come potrò scriverne? Mettimi la tua anima sul palmo della mano. Come un grano di quarzo. Io ne farò un ritratto a parole».
«Come?»
«Un così bell’ingrediente… Non fossi stato uno scrittore, neppure la mia passione avrebbe potuto tenerti in vita fino a un lontano futuro».
E così questo romanziere le divenne antipatico. Si drizzò sulla sedia in modo da scansare il suo sguardo.
Ora è seduta in camera sua. Il cugino è morto tempo fa.
«Rosa, rosa».
Spia la sua pelle bianca che si fa pian piano trasparente e intanto sorride ripensando alla parola «rosa». Sorride pensando di assentire quando qualche uomo la desidererà.
Yasunari Kawabata, (premio Nobel per la letteratura del 1968), da “Racconti in un palmo di mano”, 2006 – Traduzione di Ornella Civardi

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