Te lo ricordi. No, l’hai sognato. Nel sogno si soffocava e si affondava e c’era un senso di vuoto. Ti sei svegliato dal tuo incubo ed era già successo. Era tutto sparito. Tutto e tutti-padri, madri, fratelli, sorelle, i cugini, i tavoli e le sedie, i giocattoli e i letti – tutto spazzato via. Non ne rimane nulla. Non resta nulla tranne la spiaggia devastata e il silenzio.
Ci sono i relitti. Non li hai visti, nel tuo sogno. Un’accozzaglia di anni frantumati, un cumulo di storie infrante. Storie che sembrano legno e blocchi di cemento e metallo contorto. E sabbia, tanta sabbia. Perchè si dice “la sabbia del tempo”? Ieri non lo sapevi, ma adesso sì. Sai troppe cose per parlare. Cosa si può dire? Nella tua gola il linguaggio si trasforma in pietrisco.
Ma guarda – c’è un bambino piccolo abbandonato nella chioma di un albero, proprio come in quegli altri sogni, quelli in cui puoi sollevarti da terra e volare, e sfuggire allo strepito e al fracasso alle tue spalle. Un bambino vivo, avviluppato in una culla verde; ed è stato salvato, dopotutto. Ma il suo nome è andato perduto, insieme al suo minuscolo passato.
Che nome daranno a questo bambino? Quello che è scappato dal tuo incubo ed è fluttuato leggero su un albero e ora si guarda intorno con lo stupore normale in un bambino? Adesso il tempo riparte, adesso c’è qualcosa che si può dire: bisogna dare una parola al bambino. Una password, un talismano d’aria, per aiutarlo a superare i tanti passaggi difficili e le soglie d’ombra che lo aspettano.
Bisogna dargli un nome, di nuovo.
Lo chiameranno Disastro, lo chiameranno Relitto, lo chiameranno Dolore?
Lo chiameranno Senza-Famiglia, lo chiameranno Negletto, lo chiameranno Bambino-di-un-Albero? O lo chiameranno Stupore, o Nonostante o Contentino?
O lo chiameranno Inizio?
Margaret Atwood, da “Microfiction”, 2006