Anche la mia testa, quando è messa in disparte dal corpo che sta facendo un lavoro, se ne va dietro a una musica. La testa nelle ore di cantiere se ne stava staccata dal tronco, un palloncino a gas attaccato al polso di un bambino.
In fabbrica, sui cantieri, quando il corpo esegue e basta, si piega a uno sforzo meccanico, ripete, mi accorgo che la testa non è il comando, ma il cane del corpo, che tiene compagnia e gli fa da guardia. Nel fracasso di un cantiere edile il tronco spala, impasta materia opaca, bianco di calce, grigio di cemento, rimesta a secco, aggiunge acqua, la pala va a spinta di schiena e di braccia, il polso la guida a rigirare e non si ferma, va così per le sue ore prigioniere e sembra così saggio, il corpo, che mai potrò abituarmi ad abitare dentro uno scheletro così sapiente di fatica.
Non è nostro il corpo, Nives, appartiene invece a un’antichità che ce lo ha prestato dopo averlo perfezionato in millenni di usura, sforzo, resistenza. Una catena innumerevole di antenati ci consegna una macchina rifinita da abitare, metà casa metà officina. E riusciamo a conoscerla solo quando la sottoponiamo al carico di lavoro. Tu conosci il tuo corpo qua sopra, lo sperimenti nelle opere spietate e leali che gli imponi. E qui sai chi è, cosa riesce a fare. Qui sai che ti appartiene, è il corpo assegnato dentro il quale tu sei l’ultimo degli inquilini, che ti hanno preceduto, senza numero.
Alla parola “progresso” riconosco il solo valore di risparmiare energia. L’aratro, la ruota, gli utensili, questo hanno ottenuto. La cosa strepitosa della nostra specie è che le macchine del progresso, del risparmio di sforzo, non sono state usate per avere poi più tempo libero, anzi per aumentare il prodotto del lavoro. Aumentavano gli arnesi del progresso e non diminuiva il tempo del lavoro. La nostra specie accumula progresso, ma non sollievo.