“Adesso, invece, potrebbe parlare con Palita. Sapeva molto di più. Capiva quelle che allora chiamava «cose da uomini», il partito, l’amore per il partito, e che ci si potesse anche fare ammazzare per sostenere un’idea bella, nascosta, una forza istintiva, per risolvere tutti gli oscuri perché, che cominciano nei bambini e finiscono nei vecchi quando muoiono. — Perché non posso avere una bambola? — Perché le ragazze dei signori vanno a ballare con un vestito nuovo e io non posso andarci a causa del vestito vecchio? — Perché il mio bambino porta le scarpe solo la domenica? — Perché mio figlio va a morire in Africa e quello del podestà resta a casa? — Perché non potrò avere un funerale lungo, con i fiori e le candele? — Lei adesso lo sapeva, lo capiva. I ricchi vogliono essere sempre più ricchi e fare i poveri sempre più poveri, e ignoranti, e umiliati. I ricchi guadagnano nella guerra, e i poveri ci lasciano la pelle. Lei, quando andava per il bucato, i signori del paese la salutavano appena, la lasciavano sulla porta. E non ci si azzardava a dir niente, per paura di sbagliare, di far ridere, di perdere anche il pane di tutti i giorni. C’era però chi diceva qualche cosa: il partito, i compagni, tanti uomini, tante donne, che non avevano paura di niente. Dicevano che così non poteva andare, che bisognava cambiare il mondo, che è ora di farla finita con la guerra, che tutti devono avere il pane, e non solo il pane, ma anche il resto, e il modo di divertirsi, di essere contenti, di levarsi qualche voglia. I fascisti non volevano, e loro ci si buttavano contro malgrado la prigione e la morte. I fascisti avevano fatto venire in Italia i tedeschi, avevano scelto per amici i più cattivi del mondo, e loro si buttavano anche contro i tedeschi. Ed era tutta gente come Magòn, come Walter, come Tarzan, come il Comandante, gente istruita, che capisce e vuol bene a tutti, non chiede niente per sé e lavora per gli altri quando ne potrebbe fare a meno, e va verso la morte mentre potrebbe avere molto denaro e vivere in pace fino alla vecchiaia. E appena si arriva, dice: — Hai mangiato? Hai bisogno di qualche cosa? — e prima di andar via dice: — Buona notte e buon Natale, mamma Agnese. Questo era il partito, e valeva la pena di farsi ammazzare L’Agnese mise giù la calza, e s’affacciò a vedere fuori della porta. Era già notte, e nevicava ancora.”
“Una sera di settembre l’Agnese tornando a casa dal lavatoio col mucchio di panni bagnati sulla carriola, incontrò un soldato nella cavedagna. Era un soldato giovane, piccolo e stracciato. Aveva le scarpe rotte, e si vedevano le dita dei piedi, sporche, color di fango. Guardandolo, l’Agnese si sentì stanca. Si fermò, abbassò le stanghe. La carriola era pesante. Ma il soldato aveva gli occhi chiari e lieti, e le fece il saluto militare. Disse: – La guerra è finita. Io vado a casa. Sono tanti giorni che cammino -.
L’Agnese si slegò il fazzoletto sotto il mento, ne rovesciò le punte sulla testa, si sventolò con la mano: – Fa ancora molto caldo. – Aggiunse, come se si ricordasse: – La guerra è finita. Lo so. Si sono tutti ubriacati l’altra sera, quando la radio ha dato la notizia. – Guardò il viso del soldato e sorrise, un sorriso rozzo e inatteso sulla sua faccia bruciata dall’aria. – Io credo che i guai peggiori siano ancora da passare, – disse improvvisamente, con la rassegnata incredulità dei poveri. – C’è stata la guerra e la gente ha visto crollare tante casa e adesso non si sente più sicura nella sua casa com’era quieta e sicura una volta. C’è qualcosa di cui non si guarisce e passeranno gli anni ma non guariremo mai.[…] Una volta sofferta, l’esperienza del male non si dimentica più.”
Renata Viganò, da “L’Agnese va a morire”, 1946