Magazzino Memoria

Finimmo ad Auschwitz…

05.02.2025
(Abitavamo) All’ estremo Est dell’ Ungheria, quasi al confine con la Slovacchia, in un villaggio di cinquemila abitanti. Le famiglie ebree erano in tutto una quindicina, quindi una netta minoranza. Ma già alla fine degli anni Trenta si percepiva l’antisemitismo. Abitavamo in una casa di due stanze. Il tetto era di paglia. Con mia sorella e uno zingaro riuscimmo a sostituire la paglia con le tegole. Finalmente avevamo un riparo come tutti gli altri. (Il villaggio si chiamava) Tiszakarád. Prendeva il nome dal fiume Tibisco. Ricordo che nella parte vecchia delle anse andavamo d’estate a nuotare.
I gendarmi – ungheresi che collaboravano con i tedeschi – arrivarono. nel 1944. Era l’ inizio di aprile, subito dopo la Pasqua ebraica. Bussarono all’alba. Ci trascinarono fuori. Ci fecero salire su un camion e ci portarono nel ghetto del capoluogo. Quasi immediatamente si creò una strana atmosfera nel ghetto. I più poveri al villaggio erano discriminati, anche dagli ebrei ricchi. Ma trovarsi improvvisamente nello stesso spazio coatto produsse una insolita forma di democrazia, di solidarietà. Non c’ erano più i ricchi e i poveri. Non c’ erano più privilegi. Eravamo tutti gettati nello stesso destino. Mi stupì che potessi per esempio giocare con il figlio del dottore. Ma è ciò che in quel momento avvenne.
Finimmo ad Auschwitz. Avevo quasi tredici anni. Ci divisero tra donne e uomini, e poi tra coloro che erano in grado di affrontare i lavori forzati e quelli che direttamente erano destinati alla camera a gas. Si sentiva un puzzo asfissiante. Molte volte sono stata sul punto di essere eliminata. Mi sono salvata per miracolo. Una volta dissero a un gruppo di noi ragazze che ci avrebbero dato una razione doppia di cibo se avessimo portato dei giubbotti ai soldati che stavano alla stazione in partenza per il fronte. Dovevamo percorrere otto chilometri a piedi. Non ce la feci a sostenere il peso dei giubbotti. Mia sorella si offrì di portarne una parte e un’ altra parte la gettai nella neve. Anche le altre a quel punto cominciarono ad alleggerirsi del carico. Un tedesco se ne accorse e ci fece fermare. Chiese chi era stato il primo a buttare quegli indumenti. Nessuno rispose. Gridò ancora. Poi, non ottenendo risultato, minacciò che avrebbe ucciso una di noi ogni minuto trascorso. A quel punto feci un passo avanti. Lui venne verso di me e cominciò a picchiarmi. Mia sorella gli si gettò contro, gridando basta, basta. Il soldato cadde nella neve. Si alzò a fatica. E pulendosi i pantaloni avanzò minaccioso verso di me. E mia sorella. Eravamo a terra. Ci abbracciammo, convinte di essere ormai morte. Il soldato si fermò davanti a noi e disse: “Se oggi due puzzolenti e schifose ebree hanno il coraggio di mettere le mani addosso a un tedesco, allora solo per questo coraggio meritano di sopravvivere”. Mi allungò la mano e mi fece alzare.
Passai sei mesi a Dachau. In quel periodo lavorai nelle cucine di un castello dove si erano insediati gli ufficiali richiamati. Pelavo rape e patate. Era proibito mettersi qualunque cibo in bocca e se provavi a nascondere qualcosa si vedeva immediatamente. Sotto un rozzo pastrano eravamo nude. Non avevamo calze e portavamo zoccoli. Un giorno il cuoco mi chiese come mi chiamavo. Lo guardai sorpresa. Risposi con il numero che avevo inciso sul polso: 11152. No, il tuo nome voglio sapere. Edith, risposi. E mi sembrò che quella voce fosse la stessa di un Dio che ti dona una nuova esistenza. Aggiunse che aveva una bambina della mia età. Mi regalò un pettinino. In quel momento compresi che quel gesto mi restituiva tra gli umani. Era la luce che si faceva strada dentro il buio.
(Fui liberata) il 15 aprile del 1945 a Bergen- Belsen dagli americani. Pesavo venticinque chili. Faticosamente ripresi a vivere.
Edith Bruck, da un’intervista di Antonio Gnoli per “Robinson- la Repubblica”, 4 maggio 2017
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In evidenza: Illustrazione digitale di Giusy Gallizia

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