La casa è di un uomo che lavora la terra, la scava, la piega, la concima. Odora di mele messe a maturare in cassette di plastica, o su un lenzuolo steso sul pavimento. L’odore ha una vena di aroma mieloso, che un po’ stordisce. L’uomo ha mani gonfie, ruvide, tagliate da piccole ferite, le unghie nere. Ora sta raccogliendo le olive, per l’olio buono.
Il cielo è di un rosazzurroviola immacolato e terso. Lo solca solo la scia, bianca e dritta, di un aereo che sale verso la sua rotta, altissimo. Piano la scia si gonfia, si decompone, si sfrangia in fiocchi, ciuffi, sflilacci.
Provo a guardare, nel suo nucleo, il silenzio, quasi visibile essenza nel riflesso lucente del paesaggio.Tutto, qui, è possibile, su questo colle umbro di Canneto, vero e dipinto, dove tutto è fermo. E il solo guardare mi fa sentire utile, per un poco, a me stesso, e al mondo che ancora mi contiene.
Ma ignoro le labili polveri sommerse che gli astri lasciano tra i brividi che affollano le vie dell’universo. Né so se l’armonia mi sfiori ancora, o se tutto stia per finire, o mi sia avverso.
Sono in trincea. Penso alle cose, alle più diverse, che non meritiamo perché non le amiamo. Penso alle stelle, ai fiori, al mare. E ancora scrivo. Se questo avesse un senso, direi che sono vivo.
(2001 – 2005)