“La fame è terribile. Ma io, per fortuna, non so più cosa sia. Non perché non abbia più fame. Al contrario. Ho fame come tutti. Ma quando ho fame, mangio. Almeno ora. Che ho riscoperto l’equilibrio tra fame e sazietà. Che riesco a sapere se ho voglia di dolce o di salato. Che posso di nuovo nutrirmi senza sentirmi in colpa. Che posso mangiare due porzioni di torta al cioccolato senza fare il calcolo delle calorie ingurgitate o del numero di vasche in piscina che dovrei eventualmente fare per smaltirle tutte.
Anche se l’anoressia è solo un sintomo, e in quanto sintomo è solo la punta dell’iceberg, il mio sintomo non c’è più. E non è poco. Visto che è proprio nel sintomo che mi sono incastrata per anni. Anni persi a non fare altro che lottare con la fame. Parlare della fame. Convivere con la fame. Anni passati a punirmi per ogni caloria di troppo che avevo la debolezza di ingoiare. Anni persi a mangiare e vomitare tutto…Perché tra il «niente» e il «tutto» non c’era più alcuna differenza.
(…) Il dottor F. […] cercava, con le migliori intenzioni del mondo, di rintracciare l’origine del mio malessere. Ma forse il problema era proprio lì, nel cercare a tutti i costi di spiegare, di analizzare, di capire. Perché a forza di scardinare tutte le certezze che mi portavo dietro, si era rotto l’argine che mi separava dalle tenebre. Talvolta il sintomo è anche questo. Protegge da qualcosa di talmente profondo e pericoloso che non si può rischiare di portarlo allo scoperto troppo presto. Può sembrare assurdo, ma il rituale del «mangiare e vomitare» dà l’illusione di «controllare» la situazione: è meglio restare prigionieri della dipendenza dal cibo, che lasciarsi andare all’angoscia terribile dell’assenza irreparabile…
«Non riesco a far altro che mangiare e vomitare.»
Mi sedevo in poltrona di fronte all’analista. Ed era sempre la stessa storia. Il cibo. Ormai onnipresente. Come se nella vita non ci fosse nient’altro. nient’altro. «Perché? Che cos’ha di tanto affascinante questo rituale ossessivo?»
Ogni volta le stesse domande. Perché il dottor F. voleva delle risposte. Dei perché. Anche solo una parola cui potersi aggrappare.
«Quando mangio e vomito, tutto finisce lì. Non c’è né prima né dopo. Non c’è nemmeno bisogno di impegno…»
«Ma allora potrebbe mangiare e basta. Solo quando ha fame.»
«Se dopo non avessi i sensi di colpa lo farei. Il vomito li annulla. Solo così mi sento tranquilla.»
«Lei utilizza il rituale del vomito per non soddisfare le aspettative di chi la circonda senza dover però, nello stesso tempo, mettere in discussione la dipendenza che ha con suo padre. Proprio mentre avrebbe bisogno di luce e chiarezza per fare delle scelte, prendere delle decisioni.»
Chissà! Forse si sono tutti passati la parola. Come se il problema delle anoressiche fosse sempre lo stesso: utilizzare il cibo come un diversivo, per non darsi la possibilità di «scegliere», per evitare di «costruire il rapporto con l’altro nell’ambito di un’organizzazione più realistica e costruttiva della propria identità», come si legge in uno dei tanti libri dedicati alla questione…
Intendiamoci bene. Non sto dicendo che sia falso. È senz’altro vero. Ma detto così, non vuol dire nulla. Chi è veramente capace di costruire un rapporto con gli altri a partire da una concezione costruttiva della propria identità? E poi che cos’è l’identità? Che cosa significa che la si deve «organizzare» in modo costruttivo?Mangiare tutto, subito, sbriciolando il presente. Vomitare tutto, subito, annullando il passato. Non più controllo, ma paralisi. Il fascino discreto della morte. Del nulla… Per punirsi di qualcosa. Vendicarsi. Ingoiare le proprie incertezze. Vomitare rabbia a fiotti. Finché il corpo, esausto, non ne può più…E ogni volta che finisce tutto, ritrovarsi in frantumi… Altro che identità!
(…) Mi ci sono voluti più di dieci anni di psicanalisi per imparare a districarmi all’interno del paesaggio familiare. Quando sono arrivata in Francia. Appoggiandomi proprio su quello che avevo imparato a fare. Ricominciando a lavorare come prima. Mettendo tra parentesi la decostruzione progressiva del passato e del mio essere.
Mi sono dovuta riagganciare al «dovere» che conoscevo a memoria. E adagio adagio, senza rendermene conto, sono slittata da un piano all’altro. Non più il cibo. Non più il peso. Non più l’ideale… La realtà.Sì, la realtà. Proprio quella! Quella che «sporca», «tinge», «fa ingrassare». Quella fatta di frustrazioni e impotenza. D’imperfezioni e fragilità…Quando ti accorgi che fare l’amore può essere deludente… che amarlo può farti soffrire… che smettere di amarlo è possibile…
Non si trattava di accettare il mondo esterno, perché quello lo avevo sempre accettato. Fin troppo. La vera difficoltà era accettare me stessa… anche se non ero la più brava… anche se papà non era d’accordo con me… anche se sbagliavo, perdevo, cadevo, piangevo…
Basta allora con tutti questi luoghi comuni che dicono che «le anoressiche» rifiutano il mondo, mentre «le bulimiche» si lascerebbero andare al magma delle pulsioni! Non esistono le anoressiche e le bulimiche. Esistono solo tante persone che utilizzano il cibo per dire qualcosa. Che non sanno più bene come e quando «aprirsi» o «chiudersi» al mondo. Che cercano solo di proteggersi… perché perdono il controllo… perché gli altri le invadono… perché non sanno quello che desiderano… perché vorrebbero essere felici… perché…«Controllare» mi tranquillizzava. Avevo la sensazione di proteggermi dalla certezza di dissolvermi perché, prima o poi, tutto sarebbe crollato e mi sarei ritrovata di nuovo sola. Piccola. Indifesa. Allora «controllavo» tutto. Soprattutto l’amore. Nonostante il bisogno di essere amata. Perché la paura di non esserlo era troppo forte. E allora era meglio far finta di nulla…”