Affabulazioni

La casa del povero

11.02.2025
Forse si chiamava Ramón, o Roberto, o Juan. Poco importava, dato che quasi nessuno gli rivolgeva la parola.
Viveva tra le scarpate vicino al fiume Cosquín, a pochi metri dal ponte ferroviario, quasi alla foce del lago San Roque.
La sua dimora era più che modesta, precaria direi, costruita con legni di recupero provenienti da vecchi pallet. Con una certa abilità, però, le aveva dato la forma di una casa, piccola, minuscola, ma con tutto il necessario per sopravvivere. Il tutto immerso in un’evidente umiltà, o meglio, in una povertà estrema.
Indossava abiti logori ma puliti, con scarpe chiaramente troppo grandi per i suoi piedi e senza calze. Il suo fisico era quello di un uomo robusto, ma l’età avanzata – forse settant’anni o più – si faceva notare. I capelli grigi e lunghi, un po’ arruffati, contrastavano con i suoi occhi azzurri, limpidi come il cielo, che emanavano una dolcezza particolare. Barba e baffi, ingialliti dal fumo del tabacco, gli davano l’aspetto di uno spaventapasseri, completato da un cappello di paglia logoro, consumato dal tempo e dagli stenti.
Le sue mani, grandi e callose, con vene prominenti, parlavano da sole dei lavori duri che ancora svolgeva: tagliare legna, pulire erbacce e occuparsi di piccoli lavori nei lussuosi chalet di famiglie benestanti, che lo pagavano una miseria. Ma lui non si lamentava.
La sua canna da pesca e l’abilità lo aiutavano a procurarsi il cibo due o tre volte a settimana. Coltivava qualche verdura in cassette per la frutta, e in una vecchia ruota usata come vaso, un limone generoso gli offriva i suoi frutti tutto l’anno.
Io lo chiamavo Don Carlos, perché non mi aveva mai detto il suo vero nome. A volte andavamo a pescare insieme: io gli regalavo ami e lenze nuove, e lui, generoso, mi offriva vermi grassi come piccole bisce e gamberetti grandi che allevava lui stesso sulle rive del fiume.
La domenica portavo dei panini con la mortadella, e passavamo ore in silenzio, pescando. Lui, con le sue sigarette, soffiava nubi di fumo come batuffoli di cotone, che sembrava voler trattenere. Quando il sole si abbassava sull’orizzonte, la pesca era finita, e spesso condividevamo una carpa o una tararìa arrostita su una griglia improvvisata, fatta con vecchi scheletri di cassette per il vino. Nulla era mai stato così buono come quei pasti condivisi, mentre ascoltavo le sue meraviglie. Quando parlava, era come una enciclopedia. Raccontava storie, leggende e aneddoti straordinari. Descriveva il mondo con dettagli così vividi da sembrare un viaggiatore esperto. Sapeva di storia, tutta, direi. Era come una biblioteca vivente.
Una fredda mattina di giugno, mi recai alla sua modesta casa per pescare, dato che era domenica. La brina copriva le piante, rendendole pungenti di gelo.
La porta era chiusa. Bussai con vigore, pensando fosse ancora a letto, dato che erano le otto passate. Nessuna risposta.
Sospettando qualcosa, spinsi la porta, che non aveva serratura, e questa si aprì facilmente. Don Carlos era sdraiato, coperto fino al collo. Lo chiamai, ma non rispose. Lo toccai e mi accorsi che era morto, forse per il monossido di carbonio di una stufa ancora accesa o per una malattia che non conoscevo.
Prima di avvisare la polizia, cercai tra i suoi effetti personali un documento. In una vecchia sacca militare trovai un libretto universitario del 1973 dell’Università Nazionale di Córdoba. Era iscritto alla Facoltà di Filosofia e Lettere. La foto lo ritraeva giovane, con il suo vero nome: Alejandro Ramón Marciani.
In fondo alla sacca c’era un album di foto. Tutte antiche. Una donna bellissima, due bambini e i loro nomi: sua moglie e i figli. Nell’ultima pagina c’era la foto di una lapide con inciso il nome della moglie, Rosa María Argañaraz, e la data della sua morte.
Non serviva sapere altro per capire la solitudine del mio maestro, Don Carlos, colui che, senza volerlo, mi ha insegnato a scrivere queste righe.
© Raúl Lelli

Lascia un commento