Magazzino Memoria

Iole Mancini: partigiana

17.02.2025
Iole Mancini: partigiana. Capace di resistere perfino alle torture che nel carcere di Via Tasso le furono inflitte da Erich Priebke, criminale nazista.
Nessuno riuscì a farla cedere e a costringerla a rivelare dove si erano rifugiati suo marito, Ernesto Borghesi, e gli altri compagni.
“Nell’ora più buia di Roma, Iole ed Ernesto si sposarono. Era il 5 marzo 1944. Lei aveva ventiquattro anni, lui ventisei. Una foto dei due sposini è appesa in salotto. Il fotografo, Franzelletti, li aveva messi in posa nel cortile della chiesa di Sant’Andrea delle Fratte. Iole indossava un cappottino chiaro ed esibiva il solito sorriso trattenuto. Con la mano destra teneva un mazzo di fiori mentre con la sinistra si aggrappava al braccio di Ernesto, che fissava l’obiettivo con malcelata tensione.
“Rivedo il parroco che ci aspetta sul sagrato. È nervoso, come agitato,” dice Iole.
“E perché mai?” le domando.
“Eravamo in piena guerra, la città era pattugliata dai tedeschi. Prevaleva la paura, anche nel prete”.
Perché celebrare il matrimonio proprio in quel momento livido, con gli Alleati sbarcati ad Anzio da due mesi ma incapaci di avanzare verso la Capitale? I nazisti, sempre più efferati, davano la caccia agli oppositori con rastrellamenti a tutte le ore.
“Proprio per questo!” risponde. “Per essere almeno marito e moglie nel caso fosse avvenuto l’irreparabile.” Glielo chiese lei, durante le feste di Natale. Lui esitava, forse?
“’Ernesto, stiamo insieme da sette anni, non trovi sia venuto il momento di sposarci?’ Lo interpellai, seduti nel salotto, dopo il pranzo. ‘Hai ragione,’ mi rispose. Andai da mio padre ed ebbi il suo assenso, guadagnavo già qualche soldino come sarta ed Ernesto prendeva due lire dall’ospedale militare. Non era abbastanza, ma in qualche modo ce la saremmo cavata.
C’erano due intoppi. Ernesto non era battezzato. Mia madre lo costrinse allora a frequentare un rapido corso in parrocchia.
L’altro ostacolo erano i suoi genitori, che preferivano che Ernesto finisse prima gli studi, giudicando la nostra scelta avventata. Sette anni di fidanzamento e non era ancora venuto il momento!”
Si siede. Quel ricordo la fa tremare. Percepisco un fitto groviglio di rancori mai sopiti che le ribolle dentro. È una spina indimenticata.
“Sua madre non mi riteneva all’altezza. Me lo disse chiaramente, quando la data delle nozze era già stata fissata: ‘Avevamo altri piani per mio figlio’. Disse proprio così. I miei suoceri perciò non vennero al nostro matrimonio. Mamma e papà ci rimasero malissimo. Da parte di Ernesto c’era quindi un solo invitato, il suo testimone di nozze: Mario Fiorentini, il partigiano matematico. Che facesse anche lui parte dei Gap in quel momento non lo sapevo ancora, lo scoprii solo dopo la guerra. Della mia famiglia erano presenti i miei genitori, le mie nonne, la mia testimone di nozze, Virginia Serini con il marito – il cui figlio in quel momento era soldato in Grecia –, mia sorella Vittoria con il marito Romolo (si erano sposati nel dicembre del 1942) e mio fratello Ostilio con la moglie Mira. Renzo, l’altro mio fratello, era al fronte e non ottenne la licenza per tornare a Roma.”
Fu una cerimonia semplice. Rapida la messa. “Tutto veloce,” ricorda Iole. “Il prete si mangiava le parole, come inseguito da chissà chi. Posammo per le foto di rito nel chiostro e poi ci trasferimmo a casa mia, per il pranzo. Cucinò mamma, un piatto di pasta che ci parve un gran lusso. Ebbi un solo regalo: un’insalatiera d’argento. La uso ancora adesso. Come viaggio di nozze una passeggiata in piazza Mignanelli prima che scattasse il coprifuoco.” Iole ne ride.
Si alza, scompare in cucina. Dopo qualche secondo torna con l’insalatiera. “Eccola!” e me la porge. Ha quasi ottant’anni, quell’oggetto, e ogni volta che la tira fuori, riempiendola per i suoi ospiti, non può fare a meno di pensare a quella mattina d’inverno, quando lei ed Ernesto divennero marito e moglie mentre i nazisti terrorizzavano Roma. Il padre di Iole le procurò una stanza ammobiliata, in piazza di Spagna, al civico 66, e li aiutò a pagare l’affitto. La proprietaria gestiva vari appartamenti e una pensione. Nella camera accanto erano alloggiate le due nonne, sfollate dopo i bombardamenti. Una stanza con il bagno e il cucinino, questo era l’appartamento. “Però dalla finestra ci potevamo affacciare e ammirare la scalinata di Trinità dei Monti ed era bello svegliarsi la mattina nello stesso letto,” sospira. “Il giorno dopo la cerimonia tornammo al lavoro. Ernesto al Celio, io al tavolo a cucire vestiti. I tedeschi, dopo gli ultimi attentati, avevano imposto il divieto di circolazione. In casa non si poteva tenere la luce accesa, le finestre erano oscurate, abbassavamo le tende o le coprivamo con fogli di giornale. Si gelava. Era un inverno interminabile. Non trovavo pace. Nemmeno la felicità che mi procurava Ernesto riusciva a placarmi. Le notizie dei combattimenti non incoraggiavano l’ottimismo. Pregavamo sempre per l’arrivo degli Alleati. La ricerca di cibo ci angustiava. Alla borsa nera i prezzi salivano ogni giorno di più. C’erano file lunghissime al Monte di Pietà. Vi si portava di tutto: corredi da sposa, gioielli, fedi, quadri, e con i pochi soldi rimediati si compravano a prezzi da capogiro farina, patate, fagioli. Occorreva ingegnarsi. Le strade erano percorse da sfollati che reclamavano un tozzo di pane. Chi viveva in campagna, o disponeva di un orto, se la passava un po’ meglio.”
Cerco nel diario di Franco Calamandrei tracce di Ernesto. Il libro si chiama ‘La vita indivisibile’. Lo scovo un giorno di ottobre nella libreria Tara, dietro Campo de’ Fiori. Subito lì, attorniato dai turisti, corro a leggere quel che Calamandrei scrive alla data del 6 marzo 1944: “Ernesto mi comunica che si è sposato. Si è sposato ieri, ma non ne ha detto nulla, un poco per pudore generico, un poco perché si vergognava particolarmente di avere fatto il matrimonio religioso, accontentando i familiari della moglie. ‘Ma ho pensato,’ mi dice, ‘che l’ufficiale di stato civile, funzionario fascista, non avrebbe valso più del prete: anche lui avrebbe rappresentato una menzogna. E questo mi ha confortato a decidermi.’
E va bene! L’importante è che è felice, con una luce di libertà sulla faccia, e una sicurezza insolita. Deve avere significato molto per lui l’abbandono della casa paterna”.
È stato il giorno più felice per Iole? Mi piace pensare di sì. Cerco su Google “Mario Fiorentini” e scopro con un certo stupore che è ancora vivo. Ha centotré anni. Iole recupera dalla sua agendina vintage il recapito di casa e me lo detta. Digito il numero, che risulta inesistente. Recupero il cellulare, lo chiamo impaziente. Mi risponde il nipote, Suriel Capodacqua. Il nonno è ancora in salute, anche se preferisce, a causa della pandemia, evitare incontri in presenza. Quindi me lo passa al telefono. Gli chiedo se ricorda qualcosa del matrimonio di Ernesto e Iole. Ci pensa a lungo. “Non so se andai o se gli feci avere un bigliettino, sa, è trascorso quasi un secolo,” dice. “Lei fece da testimone, andò sicuramente,” lo incalzo. Per quanti sforzi faccia, per quanto lo solleciti, Mario Fiorentini non ricorda. Sarebbe così importante che tirasse fuori anche solo un frammento, un minuscolo dettaglio. Invece non rammenta nulla.
Del resto, cosa mi aspetto? Una memoria immacolata e nitida quando tutti noi, anche per ricordi recenti, operiamo a volte una imperscrutabile rimozione? Niente è più ingannevole della memoria. “Ernesto,” dice Fiorentini a un certo punto, “è stato un fratello, un partigiano determinato, dopo la guerra andò a lavorare in un ufficio vicino al Colosseo, una sorta di esattoria se ricordo bene.”
“È così,” rispondo trionfante. “Che tipo di uomo era?” insisto di slancio.
“Capiva la gente. Lucido politicamente. E con un animo da poeta.” Ernesto poeta, anche questo è giusto.
“E fisicamente?” “Alto il doppio di me, spalle larghe, un giovanottone.” La descrizione coincide con il racconto di Iole. Solo del matrimonio Fiorentini si è dimenticato. La sua voce si fa incerta, lontana, deve essersi perso in una nuvolaglia di pensieri. “Pronto?” dico. “Pronto?” “Ricordare Ernesto Borghesi mi costa molto dolore,” ammette Fiorentini.
Iole Mancini e Concetto Vecchio, da “Un amore partigiano”, 2022

Lascia un commento