Affabulazioni

Il ritorno del figlio nel sonno

01.07.2022

“Io ero entrato nel sogno quando il mio figliuolo era ancora per via, ed ecco, stava davanti alla nostra casa, ma s’era poi fermato in una vasta piazza perché la casa non c’era. Io vedevo infatti la madre in cucina e altri in altri posti, come in separate stanze scoperte, dalle mura certo di vetro, trasparenti: non erano stanze.
Egli veniva incontro a me.
Insolitamente chiuso quel suo volto ch’era stato sempre chiaro e aperto al sorriso: solo una viva fiamma d’oro, come non mai solare: erano i capelli mossi dal vento o forse da una carezza di dita invisibili.
Aveva le mani in tasca, mi sembrava meno alto e camminava lento quasi strisciava sul pavimento i piedi, ch’erano coperti dagli ampi pantaloni marinari che si afflosciavano in basso, oltre le ginocchia, come sacchi. Sul bavero della giubba da un solo lato due stellette.
Ci abbracciammo, stretti. Egli non diceva nulla, io gli carezzavo il volto e le mie mani erano trepide o agitate, come volessi fissare i tratti riplasmare nella memoria i particolari.
Gli dissi – e lo guardavo per un momento distaccandomi da lui – “Stai bene, caro, ma è strano, mi sembri più piccolo, meno alto».
Egli non rispose, ma sollevò le ampie campane dei pantaloni, dispiegandone le pieghe, poco, e li fece ricadere subito, con un gesto di pudore.
Erano apparse per un attimo due scarpe di riposo, mal ridotte, quasi due pantofole di pelle sciupata e irrigidita dalla salsedine.
Poi disse: “Non ho più i piedi per navigare, papà“.
Ma non lo disse con parole, ma io tuttavia intesi.
Lo abbracciai ancora e lo stordivo, che dentro di me risuonavano, come in un auditorium capace, vibrazioni metalliche, le sillabe appena pronunciate.
«Faremo degli arti nuovi, né alcuno si accorgerà di nulla. Tanto tu devi forse correre? Andrai piano. Riprenderai la tua statura, sei bello figlio, come prima sei bello e sei sano, stai tanto bene con la divisa fuori ordinanza».
Egli mi guardò serio poi mostrava il volto più aperto e sorrideva e gli si illuminavano gli occhi leonati.
Disse: «A Taranto i marinai d’una tradotta si divertivano e sogghignavano perché io andavo piano e strisciavo i piedi sul marciapiede della Stazione. E cantavano una canzoncina di scherno. Sono salito nel vagone. Non capivano ch’io ero un ufficiale, vestito così come sono, in malo arnese veramente. Tirai fuori il mio cronometro», fece l’atto: io rividi il cronometro infrangibile e impermeabile che gli avevo regalato al suo primo imbarco avventuroso nel grande sottomarino, e mi era apparso felice del dono inatteso, m’aveva baciato, figlio mio. Poi continuò: «Se fra dieci secondi non mi avete chiesto scusa dell’offesa. Come mi avessero riconosciuto per una improvvisa illuminazione, due o tre per tutti biascicarono: ci perdoni, signor Tenente».
«Erano bravi ragazzi, sono tutti bravi ragazzi i marinai, e volevano aiutarmi a ridiscendere. Io non volli perché dovevo mostrare di essere in gamba. E sai, papà, quando fummo speronati, uno dei miei ragazzi, ricordo che stette ad ascoltare i palpiti del mio cuore, fino all’ultimo istante della mia morte».
Io gli chiesi ancora, e lo carezzavo e lo toccavo, e la mamma sfaccendava e le sorelle andavano per le stanze trasparenti, ma senza nulla vedere: «Dove avvenne, figlio mio?» Come in una sequenza cinematografìca io assistevo alla favolosa straordinaria avventura rievocata dalle sue parole. Vidi un edificio tempestato di borchie d’argento e di bronzo, ch’io non avevo mai notato.
Disse:  «Vedi quell’argento   e   quel   bronzo?   Quelle borchie son fatte delle nostre medaglie».
Io non capivo.
Mi guardava arguto e stupiva della mia meraviglia. E intanto la facciata del palazzo prendeva l’aspetto d’un sarcofago imponente, immane, interrotto da colonne di scheletri umani che non davano alcun ribrezzo, ma dolci e pietosi alla vista, candidissimi come le immagini inconsistenti delle allucinazioni, quasi ostie intatte.
Ruppe la soffice atmosfera incantata una voce di bimbo.
«Mamma, mamma, è ritornato il figlio della signora: è ritornato Ardengo».
Io dissi, fra me, e poi volli dire forte: «La Madonna ti ha fatto la suprema grazia che tu hai invocato, ma l’ha voluta pagata la grazia, cara».
Lei infatti doveva avere udito di là dal mondo il mio richiamo.
Sotto le dita, che passarono ancora tra i capelli di mio figlio, sensibilmente, sentivo il calore del suo capo nella carezza.
Così mi svegliai e nelle palme è rimasta viva la sensazione morbida dei capelli biondi.”

Gesualdo Manzella Frontini, “Il ritorno del figlio nel sonno”
(Poeta, giornalista, scrittore, antesignano del futurismo: il suo manifesto, pubblicato nel 1907, anticipò di due anni il “Manifesto del futurismo” di Marinetti, amico  e collaboratore del giornale che Frontini aveva fondato, “Critica ed Arte”)

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Nell’immagine: Massi Dew Crespi, “Mare di Bering”

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