Il suo ritratto è ovunque, come una volta il ritratto dello Scià. Ti insegue nelle strade, nei negozi, negli alberghi, negli uffici, nei cortei, alla televisione, al bazar: da qualsiasi parte tu cerchi riparo non sfuggi all’incubo di quel volto severo ed iroso, quei terribili occhi che vegliano ghiacci sull’osservanza di leggi copiate o ispirate da un libro di millequattrocento anni fa. E l’effetto è indiscutibile, ovvio.
Niente bevande alcoliche, per incominciare. Che tu sia straniero o iraniano, non esiste un ristorante che ceda alla richiesta di un bicchiere di birra o di vino; la risposta è che a infrangere il comandamento si buscano trenta frustate e del resto ogni bottiglia di alcool venne distrutta appena lui lo ordinò. Whisky, vodka e champagne per milioni di dollari.
Niente musica che ecciti o intenerisca, per continuare. Alle undici di sera la città tace, deserta, e non rimane aperto neanche un caffè; ballare è proibito, visto che per ballare bisogna più o meno abbracciarsi.
È proibito anche nuotare, visto che per nuotare bisogna più o meno spogliarsi. E così le piscine son vuote, sono vuote le spiagge dove le coppie devono star separate e le donne possono bagnarsi soltanto vestite dalla testa ai piedi. Se sei donna infatti è peccato mostrare il collo e i capelli perché (chi lo avrebbe mai detto?) il collo e i capelli sono gli attributi femminili da cui un uomo si sente maggiormente adescato. Per coprire quelle vergogne è doveroso portare un foulard a mo’ di soggolo monacale, però meglio il chador cioè il funereo lenzuolo che nasconde l’intero corpo. Lo adoperano tutte, e sembrano sciami di pipistrelli umiliati. Lo sai che non possono andare dal parrucchiere se è maschio? Farsi pettinare o lavare la testa da un parrucchiere maschio equivale quasi ad un coito: cinquantamila coiffeurs pour dames stanno per finire sul lastrico. «Se mi scoprono son rovinato» sussurra il mio parrucchiere che sfida la legge perché è di religione cristiana. Poi a scanso di equivoci aggiunge che lui non sente nulla a massaggiarmi la cute: «Per me è come se fossi un dottore».
Anche stringersi la mano è scorretto, tra persone di sesso diverso. «Allah non vuole» esclama un giovane funzionario del governo quando faccio il gesto di salutarlo così. E ritrae la destra tutto inorridito, se la posa sul cuore come una verginella. Le libertà sessuali, inutile dirlo, sono crimini da punire col plotone di esecuzione: non passa giorno senza che la stampa dia la notizia di qualche adultera fucilata. (Gli adulteri se la cavano invece con due o trecento frustate che gli riducono la schiena a una mostruosa polpetta.) Si fucilano anche gli omosessuali, le prostitute, i lenoni. Lo ammette anche lui nell’intervista che pubblico in terza pagina. (La prima che Khomeini abbia dato in molti mesi, cioè dopo il suo ritorno in Iran, e l’unica che abbia mai concesso a una donna.)
«Le cose che portano corruzione a un popolo vanno sradicate come erbe cattive che infestano un campo di grano. Lo so, vi sono società che permettono alle donne di regalarsi in godimento a uomini che non sono i loro mariti, e agli uomini di regalarsi in godimento ad altri uomini; ma la società che noi vogliamo costruire non lo permette.» Però un uomo può avere quattro mogli; la legge è ancora valida, come egli ci spiega. E può avere un numero indefinito di concubine provvisorie purché firmi un contratto a scadenza. Inoltre può fumare l’oppio che ha il timbro governativo.
Il suo nome è sulla bocca di tutti, ossessivamente, sia che venga pronunciato con amore sia che venga sibilato con odio: è ormai ciò che in Vietnam era il nome di Ho Ci-min, in Cina il nome di Mao Tse-tung, e nei comizi scatena un tale fanatismo che ieri il primo ministro Bazargan ha perso le staffe. «Se dico Maometto applaudite una volta, se dico Khomeini applaudite tre volte. Al posto del profeta io me ne offenderei.» Non dimentichiamo che a decine di migliaia son morti per ubbidirgli, viene il vomito a guardare il cimitero in cui li hanno sepolti, magari in fosse comuni, e in sostanza non è cambiato nulla dai giorni in cui con quel nome sulle labbra si gettavano inermi contro i carri armati per esser falciati dalle mitragliatrici. Se lui lo esigesse, rifarebbero altrettanto.
Il 18 agosto, quando si autoproclamò Capo Supremo delle Forze Armate e invitò il paese a punire i curdi ribelli (questi poveri curdi traditi da tutti, massacrati da tutti), una valanga di militari a riposo raggiunse con mezzi improvvisati i centri di Kermanshah, Sanandaj, Mahabad: per combattere. «Indietro» urlavano gli ufficiali dell’esercito regolare. «Indietro, imbecilli, chi vi ha mandato, tornate a casa, provocate disordine!» E loro fermi, a ripetere che avevano risposto a un ordine di Khomeini, non c’è generale che possa annullare un ordine di Khomeini.
«A me sembra fanatismo del genere più pericoloso, Imam. E cioè quello fascista. Infatti non sono pochi coloro che oggi vedono in Iran una minaccia fascista.» E lui: «No, il fanatismo non c’entra, il fascismo non c’entra. Gridano così perché mi amano. E mi amano perché sentono che voglio il loro bene, che agisco per il loro bene, cioè per applicare i comandamenti dell’Islam».
Chi lo contesta o lo critica o lo maledice viene considerato un nemico della Rivoluzione, un traditore dell’Islam, una spia degli americani, un provocatore sionista, un agente della Savak, ed ha solo due scelte: arrendersi o fuggire all’estero. Al mattino centinaia di iraniani gremiscono l’aeroporto di Teheran per mendicare un posto sui voli strapieni, non importa dove siano diretti; altri se ne vanno via terra passando dalla Turchia, oppure via mare passando dal Golfo Persico. E sebbene non sia facile ottenere il visto d’uscita, l’esodo ha assunto tali proporzioni da rischiare di svilupparsi come quello dei vietnamiti. Vi concorrono troppi elementi: l’inflazione che galoppa al cinquanta per cento, la mancanza di un potere giuridico e di un tessuto amministrativo cioè di un apparato statale che la repentinità della vittoria ha disfatto; la polizia è inesistente, l’esercito è disperso, la scuola non funziona, ciascuno fa cosa vuole e nessuno obbedisce al governo che implora tornate-al-lavoro. Dei quindici giorni che ho trascorso a Teheran almeno dieci sono stati paralizzati dalle cerimonie commemorative, dai comizi, dai cortei, dai funerali dell’ayatollah Talegani morto di fatica e di crepacuore. Locali pubblici chiusi, telefoni muti, fabbriche a spasso. L’Italia, al paragone, diventa un paese stakanovista.
Eppure è troppo presto per dire che si tratta di una rivoluzione fallita, esplosa per sostituire un despota con un altro despota. Ed è addirittura azzardato concludere che non si tratta di una rivoluzione bensì di una involuzione, quindi tante creature son crepate per nulla, al-tempo-dello-Scià-era-meglio.
I grandi capovolgimenti conducono sempre ad eccessi, estremismi fanatici, interregni caotici: la Francia non ci dette forse il Terrore? E una rivoluzione è avvenuta: religiosa, non libertaria. Per questo non la riconosciamo, e ce ne inorridiamo. Per questo ne siamo delusi. Bisogna tentar di capire. Bisogna ascoltare chi risponde con le lacrime in gola che sì, al tempo dello Scià si poteva bere il vino e la birra e la vodka e lo whisky, però si torturavano gli arrestati con sevizie da Medioevo; si poteva ballare e nuotare in costume da bagno e lavarsi i capelli dal parrucchiere, però dagli elicotteri si gettavano i prigionieri politici nel lago Salato; non si fucilavano gli omosessuali, le prostitute, le adultere, però si massacrava la gente nelle piazze e si viveva solo per vendere il petrolio agli europei. Soprattutto bisogna prestare orecchio a chi ci ricorda che esistono realtà diverse dalle nostre, e vie diverse dalle nostre per correggere quelle realtà.
«Voi occidentali non ve ne rendete conto perché siete obnubilati dagli schemi ideologici e morali delle vostre scelte, dal culto del raziocinio, della libertà individuale, del laicismo», mi dice l’amico persiano che mi accompagnerà da Khomeini.
Il settanta per cento della popolazione iraniana è analfabeta. Vegeta nella miseria materiale e culturale in cui l’ha mantenuta un monarca avido e pazzo che si riteneva l’erede di Serse e sprecava miliardi per incoronarsi a Persepoli. E crede in Dio, nel Corano, nel chador. Non ha mai avuto rispetto per gli intellettuali e i politici che hanno sposato le nostre idee, non ne ha mai seguito gli insegnamenti, forse non ha mai nemmeno saputo che lottavano per un mondo migliore e venivano trucidati dalla Savak.
I suoi rapporti sono sempre stati coi mullah e con gli ayatollah, cioè coi gerarchi di un clero uso a sfruttar l’ignoranza e a manipolarla nelle moschee: «Allah è grande e Maometto è il suo profeta. Se Maometto ti chiede di coprire il collo e i capelli, li devi coprire. E chi lo nega è un cane infedele». Insomma, ad avviare e condurre la rivolta al regime imperiale non sono stati uomini moderni, proiettati verso il futuro: sono stati i mullah e gli ayatollah che predicano l’Islam come il paradiso in terra. E, a dirigerla, il gran personaggio il cui nome è sulla bocca di tutti e il cui ritratto ora sostituisce il ritratto dello Scià. Ostinatamente, irriducibilmente, per sedici lunghissimi anni, dalla Turchia, dall’Iraq, dalla Francia, l’esilio con cui aveva evitato la pena capitale. Un po’ ingenuo sperare che dopo le cose cambiassero, che la religione cedesse il passo alla ragione. Infatti il novantotto per cento dei deputati eletti sono mullah e ayatollah, la sola rappresentante del sesso femminile è una bacchettona talmente intabarrata dentro il chador che alcuni sospettano sia un prete coi baffi. E pei laici, pei progressisti, non c’è il minimo spazio. Così pei nostri concetti di bene e di male, di bello e di brutto, di giusto e di ingiusto, di democrazia pluralista che protegge le minoranze. E di gratitudine per coloro che sono morti senza che il clero glielo chiedesse.
«Scusi, Imam, voglio esser certa d’aver capito bene. Lei afferma che la sinistra non ha avuto niente a che fare con la cacciata dello Scià. Neanche la sinistra che ha dato tanti arrestati, tanti torturati, tanti assassinati. Né i vivi né i morti a sinistra contano nulla.» E lui:«Non hanno contribuito a nulla. Non hanno servito in nessun senso la Rivoluzione. Alcuni hanno lottato, sì, ma per le loro idee e basta, i loro scopi e basta, i loro interessi e basta. Non hanno pesato per niente sulla vittoria. Non vi hanno portato niente. Non hanno avuto nessun rapporto col nostro movimento, non hanno esercitato nessuna influenza su di esso. No, le sinistre non hanno mai collaborato con noi: ci hanno messo i bastoni tra le ruote e basta. Durante il regime dello Scià erano contro di noi quanto e come lo sono ora, e a tal punto che la loro ostilità nei nostri confronti superava quella dello Scià: era molto più profonda. Il nostro è sempre stato un movimento islamico, e le sinistre sono sempre state contro di esso: non a caso l’attuale complotto ci viene da loro. E il mio punto di vista è che non si tratti nemmeno di una sinistra vera, ma di una sinistra artificiale, voluta dagli americani».
«Una sinistra made in USA, Imam?» E lui: «Sì, partorita e sostenuta dagli americani per lanciare calunnie contro di noi e sabotarci e distruggerci». «Dunque quando lei parla del popolo, Imam, si riferisce a un popolo legato esclusivamente al movimento islamico. Ma secondo lei questa gente che si è fatta ammazzare a decine di migliaia è morta per la libertà o per l’Islam?» E lui: «Per l’Islam. Il popolo si è battuto per l’Islam. E Islam significa tutto. L’Islam ingloba tutto. L’Islam è tutto».
È un pomeriggio assolato a Qom, la città santa dove Khomeini ha scelto di abitare, e le strade scoppiano di pellegrini giunti da ogni parte del paese per vederlo un attimo da lontano, esserne benedetti. Hanno viaggiato giorni e giorni con quella speranza, a piedi oppure in carovane di automobili, autobus. Stanotte non troveranno un letto, una branda su cui riposarsi: gli alberghi son colmi. E le locande, le bettole che affittano i materassi. Ma non se ne curano. Insensibili alla stanchezza, alla fame, alla sete, allo spettacolo di chi sviene, vanno a ingrossare la folla che circonda il quartiere dov’è la sua casa e un boato scuote l’aria: «Zendeh bad, Imam! Payandeh bad! Che tu viva, Imam, che tu sia eterno!». Imam significa santo, guida, duce. Si può solcare quel magma di corpi solo con l’aiuto dei militari che controllano il vicolo per cui si accede alla casa, e prima di arrivare alla casa ci sono tre posti di blocco, dopo l’ultimo posto di blocco le guardie stanno anche sui tetti: pupille inquiete, mitra pronto a sparare.
È dunque tanto il timore che egli venga ucciso? La porta è sbarrata da un catenaccio. Si schiude con sospetto, lentissimamente, e l’attesa si svolge in un’anticamera gonfia di silenzioso imbarazzo, tra uomini che bevono il tè. Mi hanno riconosciuto. Sono la straniera che nel 1973 intervistò lo Scià e senza timidezze gli chiese conto dei suoi misfatti: a tal punto che egli replicò: «Lei non sarà mica sulla lista nera? ». Durante la Rivoluzione ciò che avevo scritto contro di lui divenne un libretto clandestino da agitare come un manifesto, per questo Khomeini ora mi riceve.
Gli uomini imbarazzati lo sanno ma questa donna seduta per terra coi maschi gli sembra ugualmente una presenza sacrilega. Mi esaminano: eppure il mio abbigliamento è in regola: più che a un essere umano assomiglio a un fagotto. Sui pantaloni neri e la camicetta nera indosso un mantello nero, il collo e i capelli sono ben nascosti da un foulard nero annodato al mento, e sopra tutto questo ho il chador. Nero, s’intende. Bagher Nassir Salamì, l’amico persiano che mi accompagna insieme al fotografo e che mi farà da interprete con Abolhassan Bani Sadr del Comitato Rivoluzionario, me l’ha aggiunto per sicurezza: il mantello rivelava un po’ di forme e il foulard scopriva un po’ la fronte. Mi ha fatto anche togliere lo smalto dalle unghie delle mani e dei piedi, e il rossetto dalle labbra, mi ha consentito soltanto un lieve colpo di matita marrone alle palpebre. Ma ora si sente morso dal dubbio: non sarò troppo audace, non mi giudicherà troppo truccata, l’Imam? Bagher è molto emozionato. Suda. Anche Bani Sadr, incredibile a dirsi, è molto emozionato. Suda. Hanno entrambi vissuto e studiato per anni in Europa, il primo a Firenze, il secondo a Parigi, non sono due uomini qualsiasi, conoscono bene l’Imam, e tuttavia sono emozionati. Quando ci introducono scalzi nella stanza dove avverrà l’intervista (quattro pareti, una moquette per accovacciarsi e nient’altro) li vedo accartocciarsi come sacerdoti dinanzi al Santissimo. E quando lui entra, col suo turbante e il suo camicione, si chinano a baciargli la mano.
È un vecchio molto vecchio. Da vicino non incute affatto la paura che distribuisce dalle fotografie. Forse perché appare così stanco e una misteriosa tristezza gli torce i lineamenti. O un misterioso scontento? Quasi con simpatia puoi indugiare a osservargli la candida barba lanosa, le labbra umide e sensuali, da uomo che soffre a reprimere le tentazioni della carne, e il gran naso imperioso, i terribili occhi nei quali condensa la sua fede priva di dubbi, la forza spietata di chi manda la gente a morire senza piangerci su. Occhi che non si degnano mai di posarsi su di me. Li terrà sempre abbassati a fissarsi le bellissime dita e non li alzerà che una volta: quando gli rinfaccerò che non si può nuotare con il chador e mi darà una risposta inaspettatamente cattiva. Lui che ha tollerato senza battere ciglio le mie accuse di dittatura, despotismo, fascismo. «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non la riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene.» (Allora, indignata, getterò via il chador e aprirò il mantello e sposterò il foulard chiedendogli se una donna che ha sempre vissuto senza quei cenci da medioevo gli sembra una vecchiaccia poco perbene. E lui mi avvolgerà in un lungo sguardo indagatore da cui mi sentirò spogliata.)
Lo ringrazio d’avermi ricevuto. Lo avverto che le mie domande non gli piaceranno e dovrà rispondermi con molta pazienza: sono qui per capire. Mi risponde distaccato e benevolo, centellinando una voce così bassa da suonare un sussurro. E ciò dura per quasi due ore, cioè finché scoppia l’incidente che ho detto. L’indomani, tenendo un discorso sulle calunnie dell’Occidente, parlerà del nostro incontro e mi definirà «quella donna».
ORIANA FALLACI. Imam Khomeini, l’intero paese è nelle sue mani: ogni sua decisione è un ordine. Così sono molti coloro che ormai dicono: in Iran non c’è libertà, la rivoluzione non ha portato la libertà.
RUHOLLAH KHOMEINI. L’Iran non è nelle mie mani, l’Iran è nelle mani del popolo perché è stato il popolo a consegnare il paese a chi è suo servitore e vuole il suo bene. Lei ha ben visto che dopo la morte dell’ayatollah Talegani la gente si è riversata nelle strade a milioni senza la minaccia delle baionette. Questo significa che c’è libertà. Significa anche che il popolo segue soltanto gli uomini di Dio. E questa è libertà.
Mi permetta di insistere, Imam Khomeini, di spiegarmi meglio. Intendo dire che oggi in Persia molti la definiscono un dittatore. Anzi il nuovo dittatore, il nuovo padrone. Cosa mi risponde: che ciò le dispiace o che la lascia indifferente?
Da una parte mi dispiace, sì, mi dà dolore, perché è ingiusto e disumano chiamarmi dittatore. Dall’altra invece non me ne importa nulla perché so che certe cattiverie rientrano nel comportamento umano e vengono dai nostri nemici. Con la via che abbiamo intrapreso, una via che va contro gli interessi delle superpotenze, è normale che i servi dello straniero mi pungano col loro veleno e mi lancino addosso ogni sorta di calunnie. Né mi illudo che i paesi abituati a saccheggiarci e a mangiarci si mettano lì zitti e tranquilli. Oh, i mercenari dello Scià dicono tante cose: anche che Khomeini ha ordinato di tagliare i seni alle donne. Dica, lei che è qui: le risulta che Khomeini abbia commesso una simile mostruosità, che abbia tagliato i seni alle donne?
È un vecchio molto vecchio. Da vicino non incute affatto la paura che distribuisce dalle fotografie. Forse perché appare così stanco e una misteriosa tristezza gli torce i lineamenti. O un misterioso scontento? Quasi con simpatia puoi indugiare a osservargli la candida barba lanosa, le labbra umide e sensuali, da uomo che soffre a reprimere le tentazioni della carne, e il gran naso imperioso, i terribili occhi nei quali condensa la sua fede priva di dubbi, la forza spietata di chi manda la gente a morire senza piangerci su. Occhi che non si degnano mai di posarsi su di me. Li terrà sempre abbassati a fissarsi le bellissime dita e non li alzerà che una volta: quando gli rinfaccerò che non si può nuotare con il chador e mi darà una risposta inaspettatamente cattiva. Lui che ha tollerato senza battere ciglio le mie accuse di dittatura, despotismo, fascismo. «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non la riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene.» (Allora, indignata, getterò via il chador e aprirò il mantello e sposterò il foulard chiedendogli se una donna che ha sempre vissuto senza quei cenci da medioevo gli sembra una vecchiaccia poco perbene. E lui mi avvolgerà in un lungo sguardo indagatore da cui mi sentirò spogliata.)
Lo ringrazio d’avermi ricevuto. Lo avverto che le mie domande non gli piaceranno e dovrà rispondermi con molta pazienza: sono qui per capire. Mi risponde distaccato e benevolo, centellinando una voce così bassa da suonare un sussurro. E ciò dura per quasi due ore, cioè finché scoppia l’incidente che ho detto. L’indomani, tenendo un discorso sulle calunnie dell’Occidente, parlerà del nostro incontro e mi definirà «quella donna».
ORIANA FALLACI. Imam Khomeini, l’intero paese è nelle sue mani: ogni sua decisione è un ordine. Così sono molti coloro che ormai dicono: in Iran non c’è libertà, la rivoluzione non ha portato la libertà.
RUHOLLAH KHOMEINI. L’Iran non è nelle mie mani, l’Iran è nelle mani del popolo perché è stato il popolo a consegnare il paese a chi è suo servitore e vuole il suo bene. Lei ha ben visto che dopo la morte dell’ayatollah Talegani la gente si è riversata nelle strade a milioni senza la minaccia delle baionette. Questo significa che c’è libertà. Significa anche che il popolo segue soltanto gli uomini di Dio. E questa è libertà.
Mi permetta di insistere, Imam Khomeini, di spiegarmi meglio. Intendo dire che oggi in Persia molti la definiscono un dittatore. Anzi il nuovo dittatore, il nuovo padrone. Cosa mi risponde: che ciò le dispiace o che la lascia indifferente?
Da una parte mi dispiace, sì, mi dà dolore, perché è ingiusto e disumano chiamarmi dittatore. Dall’altra invece non me ne importa nulla perché so che certe cattiverie rientrano nel comportamento umano e vengono dai nostri nemici. Con la via che abbiamo intrapreso, una via che va contro gli interessi delle superpotenze, è normale che i servi dello straniero mi pungano col loro veleno e mi lancino addosso ogni sorta di calunnie. Né mi illudo che i paesi abituati a saccheggiarci e a mangiarci si mettano lì zitti e tranquilli. Oh, i mercenari dello Scià dicono tante cose: anche che Khomeini ha ordinato di tagliare i seni alle donne. Dica, lei che è qui: le risulta che Khomeini abbia commesso una simile mostruosità, che abbia tagliato i seni alle donne?
No, questo non mi risulta, Imam. Però lei fa paura alla gente. E anche questa folla che la invoca fa paura. Ma cosa prova a sentirli gridare così, giorno e notte, sapere che se ne stanno lì in piedi per ore a farsi pestare, a soffrire, per vederla un istante e inneggiarla?
Ne godo. Io godo quando li ascolto e li vedo. Perché sono gli stessi che si sono sollevati per cacciare i nemici interni ed esterni, perché il loro applauso è la continuazione del grido con cui cacciarono l’usurpatore, perché è bene che continuino a bollire così. I nemici non sono scomparsi. Finché il paese non si assesta bisogna che restino accesi, pronti a marciare e attaccare di nuovo. E poi il loro è amore, amore intelligente. Non si può non goderne.
Amore o fanatismo, Imam? A me sembra fanatismo e del genere più pericoloso, cioè quello fascista. Infatti non sono pochi coloro che oggi vedono in Iran una minaccia fascista e addirittura sostengono che si sta già consolidando un fascismo in Iran.
No, il fascismo non c’entra, il fanatismo non c’entra. Io ripeto che gridano così perché mi amano. E mi amano perché sentono che voglio il loro bene, che agisco per il loro bene, cioè per applicare i comandamenti dell’Islam. L’Islam è giustizia, nell’Islam la dittatura è il più grande dei peccati: fascismo e islamismo sono due contraddizioni inconciliabili. Il fascismo si verifica da voi in Occidente, non tra i popoli di cultura islamica.
Forse non ci comprendiamo sul significato della parola fascismo, Imam. Io parlo del fascismo come fenomeno popolare, cioè come lo avevamo noi in Italia quando le folle applaudivano Mussolini come qui applaudono lei. E gli obbedivano come qui obbediscono a lei.
No. Perché la nostra massa è una massa musulmana, educata dal clero, cioè da uomini che predicano la spiritualità e la bontà. Il fascismo qui sarebbe possibile solo se tornasse lo Scià, cosa da escludere, oppure se venisse il comunismo. Sì, quello che dice lei potrebbe verificarsi soltanto se venisse il comunismo. Gridare per me significa amare la libertà e la democrazia.
Allora parliamo di libertà e di democrazia, Imam. E facciamolo così. In uno dei suoi primi discorsi a Qom lei disse che il nuovo governo islamico avrebbe garantito libertà di pensiero e di espressione a tutti, compresi i comunisti e le minoranze etniche. Ma questa promessa non è stata mantenuta e ora lei definisce i comunisti «Figli di Satana», i capi delle minoranze etniche in rivolta «Male sulla Terra».
Lei prima afferma e poi pretende che io spieghi le sue affermazioni. Addirittura pretenderebbe che io permettessi le congiure di chi vorrebbe portare il paese all’anarchia e alla corruzione: come se la libertà di pensare e di esprimersi fosse libertà di complottare e corrompere. Quindi rispondo: per più di cinque mesi ho tollerato, abbiamo tollerato, coloro che non la pensavano come noi. Ed essi sono stati liberi, assolutamente liberi, di fare tutto ciò che volevano, godersi in pieno le libertà che gli concedevamo. Attraverso il signor Bani Sadr, qui presente, ho perfino invitato i comunisti a dialogare con noi. Ma in risposta essi hanno bruciato i raccolti di grano, hanno dato fuoco alle urne degli uffici elettorali, e con armi e fucili hanno reagito alla nostra offerta di dialogare. Infatti sono stati loro a riesumare il problema dei curdi. Così abbiamo capito che approfittavano della nostra tolleranza per sabotarci, che non volevano la libertà ma la licenza di sovvertire, e abbiamo deciso di impedirglielo. E quando abbiamo scoperto che ispirati dall’ex regime e da forze straniere essi miravano alla nostra distruzione anche con altri complotti e altri mezzi, li abbiamo messi a tacere per prevenire altri guai.
Chiudendo i giornali di opposizione, ad esempio. In quel discorso di Qom lei aveva anche detto che essere moderni significa formare uomini che abbiano diritto di scegliere e di criticare. Però il giornale «Ajadegan», liberale, è stato chiuso. E così tutti i giornali di sinistra.
Il giornale «Ajadegan» faceva parte della congiura di cui parlavo. Aveva rapporti coi sionisti, da loro prendeva suggerimenti per colpire la patria e il paese. Lo stesso tutti i giornali che il Procuratore generale della Rivoluzione ha giudicato sovversivi ed ha chiuso. Giornali che attraverso una falsa opposizione miravano a restaurare l’antico regime e a servire lo straniero. Li abbiamo zittiti perché si sapesse chi erano e a che cosa miravano. E questo non è contro la libertà. Si fa ovunque.
No, Imam. E, in ogni caso, come può definire «nostalgici dello Scià» coloro che contro lo Scià si sono battuti, che da lui sono stati perseguitati e arrestati e torturati? Come può definirli nemici, come può negare spazio e diritto di esistere a una sinistra che ha tanto combattuto e sofferto?
Nessuno di loro ha combattuto e sofferto. Semmai hanno sfruttato per i loro scopi il dolore del popolo che combatteva e soffriva. Lei non è bene informata: buona parte della sinistra cui allude era all’estero durante il regime imperiale, ed è tornata soltanto dopo che il popolo aveva cacciato lo Scià. Un altro gruppo stava qui, è vero, nascosto nei suoi covi clandestini e nelle sue case, e soltanto dopo che il popolo ha dato il suo sangue sono usciti per servirsi di quel sangue. Ma finora non è successo nulla che limitasse la loro libertà.
Scusi, Imam: voglio essere certa d’aver capito bene. Lei afferma che la sinistra non ha avuto niente a che fare con la cacciata dello Scià. Neanche la sinistra che ha dato tanti arrestati, tanti torturati, tanti assassinati. Né i vivi né i morti, a sinistra, contano nulla.
Non hanno contribuito a nulla. Non hanno servito in nessun senso la Rivoluzione. Alcuni hanno lottato, sì, ma per le loro idee e basta, i loro scopi e basta, i loro interessi e basta. Non hanno pesato per niente sulla vittoria, non vi hanno portato niente. Non hanno avuto nessun rapporto col nostro movimento, non hanno esercitato nessuna influenza su di esso. No, le sinistre non hanno mai collaborato con noi: ci hanno messo i bastoni fra le ruote e basta. Durante il regime dello Scià erano contro di noi quanto e come lo sono ora, e a tal punto che la loro ostilità nei nostri confronti superava quella dello Scià: era molto più profonda. Il nostro è sempre stato un movimento islamico, e le sinistre sono sempre state contro di esso: non a caso l’attuale complotto ci viene da loro. E il mio punto di vista è che non si tratti nemmeno di una sinistra vera ma di una sinistra artificiale, voluta dagli americani.
Una sinistra made in Usa, Imam?!
Sì, partorita e sostenuta dagli americani per lanciare calunnie contro di noi e sabotarci e distruggerci.
Dunque quando lei parla del popolo, Imam, si riferisce a un popolo legato esclusivamente al movimento islamico. Ma secondo lei questa gente che si è fatta ammazzare a migliaia, decine di migliaia, è morta per la libertà o per l’Islam?
Per l’Islam. Il popolo si è battuto per l’Islam. E l’Islam significa tutto: anche ciò che nel suo mondo viene definito libertà, democrazia. Sì, l’Islam contiene tutto. L’Islam ingloba tutto. L’Islam è tutto.
A questo punto, Imam, devo chiederle che cosa intende per libertà.
La libertà… Non è facile definire questo concetto. Diciamo che la libertà è quando si può scegliere le proprie idee e pensarle quanto si vuole, senza essere costretti a pensarne altre, e alloggiare dove si vuole, ed esercitare il mestiere che si vuole.
Capisco… Pensare, dunque, non esprimere e materializzare quello che si pensa. E per democrazia cosa intende, Imam? Pongo questa domanda con particolare curiosità perché nel referendum repubblica o monarchia lei ha proibito l’espressione Repubblica Democratica Islamica. Ha cancellato la parola «democratica» e ha detto: «Non una parola di più, non una parola di meno». Risultato, le masse che credono in lei pronunciano lo parola democrazia come se fosse una parolaccia. Cos’è che non va in questo vocabolo che a noi occidentali sembra tanto bello?
Per incominciare, la parola Islam non ha bisogno di aggettivi come l’aggettivo democratico. Proprio perché l’Islam è tutto, vuol dire tutto. Per noi è triste mettere un’altra parola accanto alla parola Islam che è perfetta. Se vogliamo l’Islam, che bisogno c’è di specificare che vogliamo la democrazia? Sarebbe come dire che vogliamo l’Islam e che bisogna credere in Dio. Poi questa democrazia a lei tanto cara e secondo lei tanto preziosa non ha un significato preciso. La democrazia di Aristotele è una cosa, quella dei sovietici è un’altra, quella dei capitalisti un’altra ancora. Non possiamo quindi permetterci di infilare nella nostra costituzione un concetto così equivoco. Infine ecco quello che intendo per democrazia: le do un esempio storico. Quando Alì divenne successore del Profeta e capo dello Stato Islamico, e il suo regno andava dall’Arabia Saudita all’Egitto, e comprendeva gran parte dell’Asia e anche dell’Europa, e questa confederazione aveva tutto il potere, gli accadde di avere una divergenza con un ebreo. E l’ebreo lo fece chiamare dal giudice. E Alì accettò la chiamata del giudice. E andò. E vedendolo entrare il giudice si alzò in piedi, ma Alì gli disse adirato: «Perché ti alzi quando entro io e non quando entra l’ebreo? Davanti al giudice i due contendenti devono esser trattati nell’identico modo!». Poi si sottomise alla sentenza che gli fu contraria. Chiedo a lei che ha viaggiato e conosce ogni tipo di governo e la storia: può fornirmi un esempio di democrazia migliore?
Imam, democrazia significa molto di più. E questo lo dicono anche i persiani che come noi stranieri non capiscono dove vada a parare la sua Repubblica Islamica.
Se voi stranieri non capite, peggio per voi. Tanto la faccenda non vi riguarda: non avete nulla a che fare con le nostre scelte. Se non lo capiscono certi iraniani, peggio per loro. Significa che non hanno capito l’Islam.
Però hanno capito il dispotismo che oggi viene esercitato dal clero, Imam. Nella stesura della nuova Costituzione l’Assemblea degli Esperti ha passato un articolo, il Quinto Principio, secondo cui il capo del paese dovrà essere la suprema autorità religiosa, cioè lei, e le decisioni definitive dovranno essere prese soltanto da coloro che conoscono bene il Corano, cioè dal clero. Ciò non significa che, per Costituzione, la politica continuerà ad essere fatta dai preti e basta?
Questa legge che il popolo ratificherà non è affatto in contraddizione con la democrazia. Poiché il popolo ama il clero, ha fiducia nel clero, vuol essere guidato dal clero, è giusto che la massima autorità religiosa sovrintenda l’operato del primo ministro o del presidente della Repubblica per impedire che sbaglino e che vadano contro la legge cioè contro il Corano. O la massima autorità religiosa o un gruppo rappresentativo del clero. Ad esempio cinque Saggi dell’Islam, capaci di amministrare la giustizia secondo l’Islam.
Allora occupiamoci della giustizia amministrata dal clero. Parliamo delle cinquecento fucilazioni che dopo la vittoria sono state eseguite in Iran. Lei approva il modo sommario in cui vengono celebrati questi processi senza avvocato e senza appello?
Evidentemente voi occidentali ignorate chi erano coloro che sono stati fucilati, o fingete di ignorarlo. Si trattava di persone che avevano partecipato ai massacri nelle strade e nelle piazze, oppure di persone che avevano ordinato massacri, oppure di persone che avevano bruciato case, torturato, segato gambe e braccia durante gli interrogatori. Sì, gente che segava da vivi i nostri giovani, oppure li friggeva su griglie di ferro. Che cosa avremmo dovuto fare di costoro: perdonarli, lasciarli andare? Il permesso di difendersi, rispondere alle accuse, noi glielo abbiamo dato: potevano replicare quel che volevano. Ma una volta accertata la loro colpevolezza, che bisogno c’era o c’è dell’appello? Scriva il contrario, se vuole, la penna ce l’ha in mano lei. Però il mio popolo non si pone le sue domande. E aggiungo: se noi non fossimo intervenuti con le fucilazioni, la vendetta popolare si sarebbe scatenata senza controllo: qualsiasi funzionario del regime sarebbe stato giustiziato. Allora altro che cinquecento: i morti sarebbero stati migliaia.
D’accordo, però io non alludevo necessariamente ai torturatori e agli assassini della Savak. Mi riferivo ai fucilati che con le colpe del regime non avevano nulla a che fare, alle persone che ancora oggi vengono giustiziate per adulterio o prostituzione od omosessualità. È giustizia, secondo lei, fucilare una povera prostituta o una donna che tradisce il marito o un uomo che ama un altro uomo?
Se un dito va in cancrena, cosa si deve fare? Lasciare che vada in cancrena tutta la mano e poi tutto il corpo oppure tagliare il dito? Le cose che portano corruzione a un popolo intero devono essere sradicate come erbe cattive che infestano un campo di grano. Lo so, vi sono società che permettono alle donne di regalarsi in godimento a uomini che non sono loro mariti, e agli uomini di regalarsi in godimento ad altri uomini: ma la società che noi vogliamo costruire non lo permette. Nell’Islam noi vogliamo condurre una politica che purifichi la società, e perché questo avvenga è necessario punire coloro che portano il male corrompendo la nostra gioventù. Che a voi piaccia o non piaccia, non possiamo sopportare che i cattivi diffondano la loro cattiveria. Del resto, voi non fate lo stesso? Quando un ladro è ladro, non lo mettete in prigione? In molti paesi, non giustiziate forse gli assassini? Non usate quel sistema perché, se restano liberi e vivi, infettano gli altri ed allargano la macchia della malvagità? Sì, i malvagi vanno eliminati, estirpati come erbacce. Solo estirpandoli il paese si purificherà.
Imam, ma come è possibile mettere sullo stesso piano una belva della Savak e un cittadino che esercita la sua libertà sessuale? Prenda il caso del giovanotto che ieri è stato fucilato per sodomia…
Corruzione, corruzione. Bisogna eliminare la corruzione.
Prenda il caso della diciottenne incinta che poche settimane fa è stata fucilata a Beshar per adulterio.
Incinta? Bugie. Bugie come quelle del seni tagliati alle donne. Nell’Islam non accadono queste cose. Non si fucilano le donne incinte.
Non sono bugie, Imam. Tutti i giornali persiani ne hanno parlato e alla televisione c’è stato anche dibattito perché al suo amante avevano dato solo cento frustate.
Se è così vuol dire che meritava la pena. Io che ne so. La donna avrà fatto qualcos’altro di grave, lo chieda al tribuna le che l’ha condannata. E poi basta parlare di queste cose. Mi stanca. Non sono cose importanti.
Allora parliamo dei curdi che vengono fucilati perché vogliono l’autonomia.
Questi curdi che vengono fucilati non sono il popolo curdo. Sono sovversivi che agiscono contro il popolo e la Rivoluzione come quello che è stato fucilato ieri e che aveva ammazzato tredici persone. Io preferirei che nessuno venisse fucilato ma quando catturano un tipo come quello e lo fucilano, ecco: ne provo grande piacere.
E quando vengono arrestati, come i cinque di stamani, perché distribuiscono manifestini comunisti?
Se li hanno arrestati vuol dire che se lo meritavano, che erano comunisti al servizio dello straniero come i falsi comunisti che agiscono per l’America e per lo Scià. Basta. Ho detto basta parlare di queste cose.
Va bene, parliamo dello Scià. È stato lei, Imam, a ordinare che lo Scià venisse giustiziato all’estero e a dire che chiunque lo avesse fatto sarebbe stato considerato un eroe sicché se fosse rimasto ucciso nell’azione sarebbe andato in Paradiso?
No! Io no. Perché io voglio che sia portato in Iran e processato pubblicamente per cinquant’anni di reati contro il popolo persiano, incluso il reato di tradimento e di furto di capitali. Se viene ucciso all’estero, quel denaro va perduto; se lo processiamo qui, invece, quel denaro ce lo riprendiamo. No, no, io non voglio che venga ucciso all’estero. Io lo voglio qui, qui. E perché ciò avvenga prego per la sua salute come l’ayatollah Modarrés pregava per la salute di Reza Pahlavi, il padre di questo Pahlavi, che era fuggito anche lui portandosi via un mucchio di soldi. E va da sé che eran meno di quelli che s’è portato via suo figlio.
Ma se lo Scià restituisse il denaro, la smettereste di dargli la caccia?
Per il denaro, se davvero lo restituisse, sì: in quel senso il conto sarebbe saldato. Per il tradimento del suo paese e dell’Islam, invece no. Come si può perdonargli il massacro del 15 Khordad, il massacro di sedici anni fa, e il massacro del Venerdì Nero, un anno fa, come si può perdonargli tutti i morti che ha lasciato dietro di sé? Soltanto se i morti resuscitassero io potrei perdonarlo accontentandomi di riavere il denaro rubato al popolo da lui e dalla sua famiglia.
E l’ordine di riportarlo in Iran, attraverso l’azione di un commando simile a quello che catturò Eichman in Argentina, suppongo, vale solo per lo Scià o anche per la sua famiglia?
Colpevole è colui che ha commesso il reato. Se la famiglia non ha partecipato a nessun reato, non vedo perché dovrebbe essere condannata. Appartenere alla famiglia dello Scià non è mica un crimine. Suo figlio Reza, ad esempio, non mi risulta che si sia macchiato di crimini. Quindi non ho nulla contro di lui: può rientrare in Persia quando vuole e viverci come un normale cittadino. Che venga.
Io dico che non viene. E Farah Diba?
Per lei deciderà il tribunale.
E Ashraf?
Ashraf è la gemellaccia dello Scià, una traditrice come lui. E per i crimini che ha commesso deve essere processata, condannata come lui.
E l’ex ministro Bakhtiar? Bakhtiar dice che tornerà al suo posto, che ha già pronto un governo con cui sostituire questo governo.
Se Baktiar dev’essere fucilato o no, ancora non posso dirlo. Però so che dev’essere processato. Che torni, che torni: magari insieme al suo nuovo governo. Che torni, che torni: magari a braccetto del suo Scià. Così in tribunale ci finiscono insieme. Sì, devo ammettere che mi piacerebbe molto vedermi riportare Bakhtiar insieme allo Scià, mano nella mano. Lo aspetto.
A morte anche Bakhtiar, dunque. Imam Khomeini, ma lei ha mai perdonato nessuno? Ha mai provato pietà, comprensione per qualcuno? E, visto che ci siamo, ha mai pianto?
Io piango, rido, soffro: pensa che non sia un essere umano? Quanto al perdonare, ho perdonato la maggior parte di coloro che ci hanno fatto del male: ho concesso l’amnistia ai poliziotti, ai gendarmi, a una quantità di gente. Purché, beninteso, non avessero torturato o commesso infamie troppo gravi. Ora ho concesso perfino l’amnistia ai curdi ribelli, e con questo penso di aver mostrato pietà. Ma per coloro di cui abbiamo discusso non c’è perdono, non c’è pietà. Ora basta. Sono stanco, basta.
La prego, Imam: devo chiederle ancora molte cose. Di questo “chador” a esempio, che mi hanno messo addosso per venire da lei e che lei impone alle donne, mi dica: perché le costringe a nascondersi come fagotti sotto un indumento scomodo e assurdo con cui non si può lavorare né muoversi? Eppure anche qui le donne hanno dimostrato d’essere uguali agli uomini. Come gli uomini si sono battute, sono state imprigionate, torturate, come gli uomini hanno fatto la Rivoluzione…
Le donne che hanno fatto la Rivoluzione erano e sono donne con la veste islamica, non donne eleganti e truccate come lei che se ne vanno in giro tutte scoperte trascinandosi dietro un codazzo di uomini. Le civette che si truccano ed escono per strada mostrando il collo, i capelli, le forme, non hanno combattuto lo Scià. Non hanno mai fatto nulla di buono quelle. Non sanno mai rendersi utili: né socialmente, né politicamente, né professionalmente. E questo perché, scoprendosi, distraggono gli uomini e li turbano. Poi distraggono e turbano anche le altre donne.
Non è vero, Imam. E comunque non mi riferisco soltanto a un indumento ma a ciò che esso rappresenta: cioè la segregazione in cui le donne sono state rigettate dopo la Rivoluzione. Il fatto stesso che non possano studiare all’università con gli uomini, ad esempio, né lavorare con gli uomini, né fare il bagno in mare o in piscina con gli uomini. Devono tuffarsi a parte con il “chador”. A proposito, come si fa a nuotare con il “chador”?
Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non vi riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene.
Molto gentile. E, visto che mi dice così, mi tolgo subito questo stupido cencio da medioevo. Ecco fatto. Però mi dica: una donna che come me ha sempre vissuto tra gli uomini mostrando il collo e i capelli e gli orecchi, che è stata alla guerra e ha dormito al fronte con i soldati, è secondo lei una donna immorale, una vecchiaccia poco perbene?
Questo lo sa la sua coscienza. Io non giudico i casi personali, non posso sapere se la sua vita è morale o immorale, se si è comportata bene o no coi soldati alla guerra. Però so che nella mia lunga vita ho sempre avuto conferma di quello che ho detto. Se non esistesse questo indumento, le donne non potrebbero lavorare in modo utile e sano. E nemmeno gli uomini. Le nostre leggi, sono valide leggi.
Compresa la legge che consente a un uomo di prendersi quattro mogli, Imam?
La legge delle quattro mogli è una legge molto progressista ed è stata scritta per il bene delle donne in quanto le donne sono più numerose degli uomini: nascono più donne che uomini, le guerre uccidono più uomini che donne. Una donna ha bisogno di un uomo, e cosa dobbiamo fare visto che al mondo vi sono più donne che uomini? Preferisce che le donne in avanzo diventino puttane oppure che sposino un uomo con più mogli? Non mi sembra giusto che le donne sole diventino puttane perché mancano gli uomini. E dico: anche nelle condizioni difficili che l’Islam impone a un uomo con due o tre o quattro mogli, uguale trattamento e uguale affetto e uguale tempo, questa legge è migliore della monogamia.
Ma si tratta di leggi o usanze che risalgono a millequattrocento anni fa, Imam Khomeini! Non le pare che il mondo, nel frattempo, sia andato avanti? In osservanza a quelle leggi, lei ha riesumato perfino il divieto della musica e dell’alcool. Mi spieghi: perché bere un bicchiere di vino o di birra quando si ha sete o si mangia è peccato? E perché ascoltare la musica è peccato? I nostri preti bevono e cantano. Anche il Papa. Ciò significa che il Papa è un peccatore?
Le regole dei vostri preti non mi interessano. L’Islam proibisce le bevande alcoliche e basta. Le proibisce in modo assoluto perché fanno perdere la testa e impediscono di pensare in modo sano. Anche la musica appanna la mente, perché porta in sé godimenti ed estasi uguali alla droga. La vostra musica, intendo. Di solito essa non esalta lo spirito: lo addormenta. E distrae i nostri giovani che ne risultano avvelenati e non si preoccupano più del loro paese.
Anche la musica di Bach, Beethoven, Verdi?
Chi sono questi nomi io non lo so. Se non appannano la mente non saranno vietati. Alcune delle vostre musiche non sono vietate: ad esempio le marce e gli inni per marciare. Noi vogliamo musiche che ci esaltino come le marce, che facciano muovere i giovani anziché paralizzarli, che li inducano a preoccuparsi del loro paese. Sì, le vostre marce sono permesse.
Imam Khomeini, lei si esprime sempre in termini molto duri verso l’Occidente. Da ogni suo giudizio su noi si conclude che lei ci vede come campioni di ogni bruttezza, di ogni perversità. Eppure l’Occidente l’ha accolta in esilio e molti dei suoi collaboratori hanno studiato in Occidente. Non le pare che ci sia anche qualcosa di buono in noi?
Qualcosa c’è, c’è. Ma quando siamo stati morsi dal serpente temiamo anche uno spago che assomigli da lontano a un serpente. E voi ci avete morso troppo. E troppo a lungo. In noi avete sempre visto un mercato e basta, a noi avete sempre esportato le cose cattive e basta. Le cose buone, come il progresso materiale, ve le siete tenute per voi. Sì, abbiamo ricevuto tanto male dall’Occidente, tante sofferenze, e ora abbiamo tutti i motivi per temere l’Occidente, impedire ai nostri giovani di avvicinarsi all’Occidente e farsi ulteriormente influenzare dall’Occidente. No, non mi piace che i nostri giovani vadano a studiare in Occidente dove vengono corrotti dall’alcool, dalla musica che impedisce di pensare, dalla droga, e dalle donne scoperte. Senza contare che i nostri giovani non li trattate come i vostri in Occidente. Perché gli regalate subito un diploma anche se sono ignoranti.
Sì, Imam, però anche l’aereo sul quale è tornato in patria è un prodotto dell’Occidente. Anche il telefono con cui comunica da Qom, anche la televisione con cui si rivolge al paese così spesso, anche questo condizionatore d’aria che le permette di starsene al fresco nella calura del deserto. Se siamo così corrotti e così corruttori, perché usa i nostri strumenti di male?
Perché queste sono le cose buone dell’Occidente. E non ne abbiamo paura e le usiamo. Noi non temiamo la vostra scienza e la vostra tecnologia, temiamo le vostre idee e i vostri costumi. Il che significa che vi temiamo politicamente, socialmente. E vogliamo che il paese sia nostro, vogliamo che non interferiate più nella nostra politica e nella nostra economia e nelle nostre usanze e nelle nostre faccende. Ed’ora in avanti andremo contro chiunque ci proverà, a destra e a sinistra, di qua e di là. E ora basta. Via, via.
Un’ultima domanda, Imam. In questi giorni che ho trascorso in Iran io ho visto molto scontento, molto disordine, molto caos. La Rivoluzione non ha portato i buoni frutti che aveva promesso. Il paese naviga in acque oscure e c’è chi vede molto buio per l’Iran. C’è addirittura chi vede maturare, sia pure in un futuro non immediato, i presupposti d’una guerra civile o d’un colpo di Stato. Che cosa mi risponde?
Questo le rispondo: noi siamo un bambino di sei mesi. La nostra rivoluzione ha soltanto sei mesi. Ed è una rivoluzione che è avvenuta in un paese mangiato dalle disgrazie come un campo di grano infestato dalle cavallette: siamo all’inizio della nostra strada. E cosa volete da un bambino di sei mesi che nasce in un campo di grano infestato dalle cavallette, dopo duemilacinquecento anni di cattivo raccolto e cinquanta anni di raccolto velenoso? Quel passato non si può cancellare in pochi mesi, e neanche in pochi anni. Abbiamo bisogno di tempo. Chiediamo tempo. E lo chiediamo soprattutto a coloro che si definiscono comunisti o democratici o diosacché. Sono loro che non ci danno tempo. Sono loro che ci attaccano e mettono in giro chiacchiere su guerre civili e colpi di stato che non accadranno perché il popolo è unito. Sono loro che alimentano il caos. Loro, ripeto, che si definiscono comunisti o democratici o diosacché. E con ciò la saluto.
Addio. Insciallah.
Oriana Fallaci, L’intervista a Khomeini, da «Corriere della Sera», 26 settembre 1979