Mosca, 21 luglio 1916
«Caro Petja, sono molto contenta che vi siate ricordato di me. La conversazione umana è uno dei piaceri profondi e sottili della vita: dai la cosa migliore ‑ l’anima ‑ e prendi la stessa cosa in cambio, e tutto avviene con leggerezza, senza le difficoltà e le pretese dell’amore. A lungo, a lungo – fin dall’infanzia, fin da quando ho ricordo di me stessa ‑ mi è sembrato di voler essere amata. Adesso io so che ‑ e lo dico a tutti ‑ non mi serve l’amore, mi serve la comprensione. E quello che Voi chiamate amore (sacrificio, fedeltà, gelosia) tenetelo in serbo per gli altri, per un’altra, ‑ io non ne ho bisogno. Io posso amare solo la persona che in una giornata di primavera a me preferirà la betulla. Ecco la mia formula.
Non dimenticherò mai come mi abbia fatto infuriare, questa primavera, una persona ‑ un poeta, una creatura incantevole, io gli volevo molto bene! ‑ che, camminando insieme con me per il Cremlino, senza guardare la Moscova e le cattedrali, mi parlava incessantemente di me. Io gli ho detto: “Come potete non capire che il cielo ‑ alzate la testa e guardate! ‑ è mille volte più grande di me, come potete pensare che in una simile giornata io possa pensare al Vostro amore, all’amore di chicchessia. Non penso neanche a me stessa, eppure credo di volermi bene!”.
E ancora altre amarezze mi danno i miei interlocutori. Io entro con tanta irruenza nella vita del primo che passa e che per qualche motivo mi è caro, a tal punto voglio aiutarlo, “compatirlo”, che quello si spaventa ‑ o del mio amore, o perché pensa che si innamorerà di me e il suo ménage andrà in malora. Questo non lo dicono, ma io ho sempre voglia di urlare: “Signore Iddio! Ma non voglio nulla da Voi. Potete andarvene e poi tornare, andarvene e non tornare mai, ‑ per me è lo stesso, io sono forte, non ho bisogno di nulla fuorché della mia anima!”.
Le persone sono attratte da me: alcune hanno l’impressione che io sappia ancora amare, altre che le amerò, splendidamente e immancabilmente, ad altre piacciono i miei capelli corti, ad altre, infine, il fatto che li farò crescere per loro, tutti si immaginano qualcosa ‑ sempre qualcos’altro ‑ dimenticando che tutto è cominciato da me, e che se non mi fossi avvicinata io, a loro, vedendo la mia giovinezza, non gli sarebbe neanche passato per la testa. E io invece voglio leggerezza, libertà, comprensione, ‑ non trattenere nessuno, e che nessuno mi trattenga. Tutta la mia vita è una storia d’amore, con la mia anima, con la città in cui vivo, con l’albero al bordo della sarda, ‑ con l’aria. E sono infinitamente felice.»
Marina Cvetaeva, da “Il paese dell’anima. Lettere (1909- 1925)”
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Nell’immagine: Salvatore Fiume: “A Susette”, 1956