Pensieri

I taccuini di Marina Cvetaeva

08.09.2022
“A Dio io chiedo
una stanza – qualunque –
un buco – da sola! –
un posto – per me! –
quattro pareti per
il silenzio”
Mosca 1917-1919
“Cosa crede, che mi sia dondolata in una culla? Avevo ventiquattro-ventisei anni, avevo occhi, orecchie, piedi, mani: con questi occhi ho visto, con queste orecchie ho sentito, e con queste mani ho spaccato legna (e scritto i diari!), con queste gambe da mattina a sera sono andata per mercati e posti di blocco – dovunque mi portassero!… Nel libro non c’è politica: c’è la cocente verità, la cocentissima verità del gelo, della fame, della rabbia, dell’Anno! Ah! Esteti! Che non si vogliono sporcare le manine!… Non è un libro politico, neanche per un attimo. E’ un’anima vera: in un cappio mortale – eppure viva. Lo sfondo è tetro, eppure non sono stata certo io a inventarlo…
Scrivere per qualsiasi cosa che non sia l’opera stessa è condannare l’opera a un giorno e basta. Così si scrivono, e così devono essere scritti, gli articoli di fondo. Gloria, denaro, trionfo, questa o quell’idea – qualsiasi obiettivo estraneo all’opera è la sua fine. Dopo avere scritto delle poesie posso leggerle da un palcoscenico e acquistare la gloria o la morte. Ma se è a questo che penso mentre mi metto al lavoro, non le scriverò, oppure le scriverò in un modo tale che non meriteranno né gloria né morte. La condizione creativa è quella dell’ossessione. Finché non cominci – obsession, finché non finisci – possession. Qualcosa, qualcuno, si insedia in te, la tua mano è solo strumento – non di te, di un altro. Di chi si tratta? Di ciò che attraverso te vuole essere. Ogni manoscritto è indifeso. E io sono tutta – un manoscritto.
La mia vacanza è proprio il mio lavoro. Quando non scrivo sono semplicemente infelice, e nessun mare può darmi sollievo. Senza scrivere sono una miserabile, piccola sartina che non farà mai niente di bello, che sa solamente far guasti e ferirsi e che, lasciando là tutto: forbici, pezze, rocchetti – si mette a cantare. Davanti a una finestra dove piove per sempre.
I soldi sono la mia possibilità di continuare a scrivere. I soldi sono le mie poesie di domani. I soldi sono il mio riscatto da editori, redattori, padroni di casa, bottegai, mecenati: la mia libertà e il mio tavolo di lavoro. La gloria. Ma cosa c’è di bello nella gloria? Il suono della parola.
Do ascolto a qualcosa che risuona in me in modo costante ma non uniforme, ora dandomi indicazioni, ora dandomi ordini. Quando indica – discuto, quando ingiunge – ubbidisco.
Mi vergogno: di essere ancora viva. Ma se esiste l’Ultimo Giudizio della parola – davanti ad esso sono pura.”
Marina Cvetaeva, dai taccuini degli anni 1917-1919

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