“Abitavo nella stessa casa di campagna, alle porte di Roma, da sempre, prima con i miei genitori, poi con una serie di coinquilini, poi con l’uomo che sarebbe diventato mio marito. Ero sposata da dieci anni, da otto tenevo una rubrica per un settimanale, “Pranzi della domenica”, che mi portava per una settimana, da domenica a domenica, a pranzare con una famiglia normalissima o assurda, comunque uguale solo a se stessa, e a raccontarla.
In meno di un anno, dall’ottobre del 2011 al settembre del 2012, mio marito aveva insistito per traslocare in città, poi era partito per fare un master a Dublino e il giorno prima di tornare mi aveva telefonato per annunciarmi che no, non sarebbe tornato, ma sì, stava bene, e se per un po’ non l’avessi più sentito non dovevo preoccuparmi: anzi, il punto era proprio che forse aveva scoperto di stare meglio senza di me. Insomma, aveva bisogno di mettersi in aspettativa dal suo lavoro e dal nostro matrimonio, e pensare. Da solo. In Irlanda.
Il direttore del settimanale, intanto, non era stato altrettanto sensibile e senza dirmi una parola aveva sostituito la mia rubrica con la posta del cuore di una certa Tania Melodia, vincitrice morale dell’ultima edizione del “Grande Fratello”.
Mio padre, mia madre, mio fratello e gli amici, che mentre tutto mi franava attorno e dentro restavano fermi al loro posto, nei primi tempi si erano dati il turno per dormire con me, mi avevano trascinata al cinema, al parco, al karaoke, allo stadio, in vacanza, non si sottraevano alle telefonate inutilmente lunghe senza “tu” (come stai? cosa pensi? che fai? ti permetti forse di esistere, nel frattempo?) e piene solo di “io” (non esisto più, sto male, voglio morire, e ora che faccio?) con cui li torturavo.
Però giustamente, chiuso il telefono, avevano una loro vita a cui tornare.
L’unica a non avercela più, una vita, ero io.
Al suo posto una massa informe, sfilacciata, ferita, che come unico perno su cui girare aveva lo smarrimento.
[…] “E allora, se non c’è più da scrivere, se non c’è più da vivere, se non c’è più una famiglia che, ogni settimana, quantomeno mi dia l’illusione di essere la mia, che ci sto a fare io, al mondo?” ripetevo in continuazione ogni lunedì alla mia analista, la dottoressa T.
Che un giorno di dicembre – ispirata da Rudolf Steiner ed esasperata da me -, alla fine di una seduta, mi ha buttato lì, intensa ed anche un po’ magica com’è: “Le va di fare un gioco?”.
“…”
“Per un mese, a partire da subito, per dieci minuti al giorno, faccia una cosa che non ha mai fatto.”
“Cioè?”
“Una cosa qualunque. Basta che l’abbia mai fatta in trentacinque anni.”
“Quasi trentasei.”
“Quasi trentasei. Una cosa qualunque. Nuova.”
“Per un mese.”
“Sì.”
“Per dieci minuti.”
“Per dieci minuti.”
“Ma… è sicura che funzioni?”
“Dipende da lei. I giochi sono per persone serie. Se decide di cominciare il percorso, non deve saltare nemmeno un giorno.”
“E poi?”
“Poi che?”
“Alla fine cosa si vince? Riavrò indietro la mia vita?”
“Ne riparliamo fra un mese, Chiara. Intanto giochi, si impegni e non bari, mi raccomando. Arrivederci.”
“Arrivederci.”
Non avevo niente da perdere: era proprio quello il mio problema.
È diventata l’occasione per provarci.
Cominciare il gioco dei dieci minuti.”
Chiara Gamberale, “Per dieci minuti”, 2013
*****
Immagine presa da Pinterest