“Chi sa se tornerà ancora al mondo il suicidio ottimistico?
Bisogna aver sentito la smania dell’autodistruzione.
Non parlo del suicidio: gente come noi innamorata della vita, dell’imprevisto, del piacere di «raccontarla», non può arrivare al suicidio se non per imprudenza.
E poi, il suicidio appare ormai come uno di quegli eroismi mitici, di quelle favolose affermazioni di una dignità dell’uomo davanti al destino, che interessano statuariamente, ma ci lasciano a noi.
L’autodistruttore è un tipo, insieme più disperato e utilitario. L’autodistruttore si sforza di scoprire entro di sé ogni magagna, ogni viltà, e di favorire queste disposizioni all’annullamento, ricercandole, inebriandosene, godendole.
L’autodistruttore è in definitiva più sicuro di sé di ogni vincitore del passato; egli sa che il filo dell’attaccamento all’indomani, al possibile, al prodigioso futuro, è un cavo più robusto , trattandosi dell’ultimo strattone, che non so quale fede o integrità.
L’autodistruttore è soprattutto un commediante e un padrone di sé.
Egli non lascia nessuna opportunità di sentirsi e di provarsi.
E’ un ottimista.
Spera ogni cosa dalla vita, e si va accordando a rendere sotto le mani del caso futuro i suoni più acuti o significativi.
L’autodistruttore non può sopportare la solitudine.
Ma vive in un pericolo continuo; che lo sorprenda una smania di costruzione, di sistemazione, un imperativo morale.
Allora soffre senza remissione, e potrebbe anche uccidersi.
Bisogna osservare bene questo: ai nostri tempi il suicidio è un modo di sparire, viene commesso timidamente, silenziosamente, schiacciatamente.
Non è più un agire, è un patire.
Chi sa se tornerà ancora al mondo il suicidio ottimistico?”
“Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte.”
“La cosa più segretamente temuta accade sempre.
Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?
Basta un po’ di coraggio.
Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio.
Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.
Tutto questo fa schifo.
Non parole. Un gesto. Non scriverò più. (18 agosto 1950)” (Explicit)
Cesare Pavese, da “Il mestiere di vivere”, 24 aprile 1936
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Nell’immagine: Graphic novel “La luna e i falò”, di Marino Magliani e Marco D’Aponte