Linguaggi

Palindromi & C.

19.12.2022

Secondo la tradizione, ad inventare il palindromo (ossia una sequenza di caratteri che resta identica anche se letta al contrario), sarebbe stato un poeta trace, Sotade di Maronea, vissuto intorno al III scolo a. C. e autore di poemi lascivi e mordaci che gli costarono una sorte terribile.  Imprigionato da  Tolomeo II Filadelfo a causa del violento attacco pronunciato proprio in occasione del  matrimonio del sovrano con la sorella Arsìnoe II, Sotade riuscì a fuggire, ma venne catturato dal generale Patroclo, che lo fece rinchiudere in una cassa di piombo e gettare in mare.

 

 

“ROTAS OPERA TENET AREPO SATOR” – “SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS”

 

Il latercolo pompeiano

 

Si tratta probabilmente del palindromo più antico, le cui parole sono disposte  in modo da comporre un “quadrato magico”. Presente  su mosaici, epigrafi e documenti sparsi in Europa, nel Vicino Oriente  e in Africa, è ancora oggi frutto di diverse interpretazioni, legate sia all’origine che al suo significato.

Origine: In base agli scavi archeologici finora condotti, sembrerebbe risalire al II secolo: nel 1952, infatti, l’archeologo ungherese Ianos Szlagyi scoprì un graffito con il quadrato magico tra le rovine della città di Aquincum, nei pressi di Budapest (nel territorio della Pannonia romana): il cosiddetto sator, inciso sulla domus del governatore della provincia, potrebbe addirittura  risalire al 107-108. Della stessa epoca, (forse dell’anno 185), è il palindromo che compare sull’ansa di un’anfora oneraria fittile trovata in Inghilterra nel 1978. Esemplari simili, ma risalenti al III secolo, furono trovati nel 1868, sempre in Inghilterra,  sull’intonaco di una casa nella città romana di Corinium Dobunnorum (nell’attuale contea di Gloucestershire);  altri 4  furono reperiti in Siria, al confine tra l’Impero Romano e quello Arsacide (e poi Sassanide). Negli scavi condotti a Pompei, vennero portati alla luce due reperti di quello che sarebbe stato denominato latercolo pompeiano: uno mutilo, trovato nel 1925 da Amedeo Maiuri sull’intonaco della casa di Quinto Paquio Proculo; l’altro intatto, rinvenuto nel 1936 dal paleografo Matteo Della Corte sulla scanalatura della colonna n. 61 nel portico occidentale della Grande Palestra.

Interpretazioni

1) La maggiore difficoltà è legata al significato del termine arepo, che risulta estraneo al lessico latino. Alcuni studiosi hanno pensato che si tratti di un termine di origine celtica e che significhi aratro: se così fosse, la frase significherebbe: “Il seminatore tiene attentamente le ruote”.

2) Un’altra teoria ritiene, invece, che arepo sia la forma sincopata di Areopago, il tribunale ateniese che sorgeva sull’omonima collina nella parte occidentale dell’Acropoli. In questo caso,  arepo alluderebbe alla giustizia divina, mentre il termine seminatore sarebbe  una metafora per indicare l’uomo. Se così fosse, l’intera frase (che, secondo questa interpretazione, andrebbe letta in senso bustrofedico, ossia da sinistra a destra e da destra a sinistra) diventerebbe: Sator opera tenet, Arepo rotas; come a dire che “il seminatore dirige  i suoi lavori quotidiani, ma il tribunale supremo dirige il suo destino”.

3) Altri intendono il termine arepo come una variante di aripus, un termine che  però compare soltanto in due codici posteriori al latercolo (rispettivamente nei secoli VIII e IX) e che sembrerebbe essere una forma latinizzata del greco ἅρπη (leggi: arpe), con il significato  di falce, di roncola  o di spada  falciforme. Poiché la falce è lo strumento con il quale l’iconografia rappresenta Saturno, dio dell’agricoltura  e delle messi (identificato con il greco  Kronos, che con essa avrebbe evirato il  padre Urano), il Sator verrebbe ad identificarsi proprio con lui. Essendo, però, Saturno anche il Signore del Destino, la frase indicherebbe proprio che il Destino governa tutti gli esseri viventi e che ognuno ne subisce gli effetti.

4) Se invece arepo, come vorrebbe un’altra  interpretazione, fosse una voce verbale, nella fattispecie la prima persona singolare di arrepo (da ad-repo”, striscio), allora  l’interpretazione della frase potrebbe alludere proprio alla difficoltà di intenderne il significato: “Il seminatore, – mi sforzo per comprenderlo, o fatico a comprenderlo -, tiene le ruote con il suo lavoro”; oppure:  “Io seminatore arranco con fatica, l’opera [forse quella divina] tiene le ruote”; o, ancora:  “Per quanto possa impegnarmi, non sono io decidere (o a tenere in mano) il mio destino”.

Ci sarebbe, inoltre, da tener conto dei cambiamenti di significato che il quadrato ha  sicuramente subito a seconda dei luoghi e delle epoche in cui è stato trovato: tanto per fare un esempio, mentre anticamente la parola iniziale era rotas, dal Medio Evo in poi è diventata sator, quasi a voler assegnare all’uomo (più che al fato o a Dio) una maggiore  responsabilità nel dirigere la propria vita. Anche in questi casi, però, l’idea centrale del quadrato magico resta quella dell’esistenza di una forza divina che governa l’Universo, il che ha fatto ipotizzare  che sia nato in ambiente pitagorico o stoico.

In realtà, sembra che il primo ad impiegare l’immagine del seminatore come metafora della divinità sia stato Cicerone nelle Tusculanae Disputationes e nel De Natura Deorum , tanto che alcuni studiosi hanno finito con l’attribuire proprio a lui l’origine del quadrato. A rafforzare questa ipotesi interverrebbero altre due circostanze:  la somiglianza fonetica del termine “αρπη’” (leggi: arpè) con Arpinum, la cittadina natale di Cicerone, e il fatto che egli aveva tradotto in latino i Phaenomena di Arato di Soli (315-240 a. C. circa), un poema di astronomia ispirato alla filosofia stoica, secondo la quale la divina provvidenza si avvale degli astri e del loro movimento per regolare le cose del mondo.

5) Non manca, infine, chi ha letto il termine arepo come l’acronimo di Aeternus Rex Excelsus Pater Omnipotens (“Eterno re eccelso, Padre Onnipotente”), che, quindi ne farebbe un simbolo cristiano. Analogo discorso vale per il termine tenet, che potrebbe essere letto come  Tota Essentia Numero Est Tracta (“L’intera essenza è ottenuta con il numero”), come Tecta Erat Nocte Exordio Terra (“In principio la Terra era ricoperta dalle tenebre”), come Tellurem Effecit Numen Elementorum Temperatione (“La Volontà Divina creò la Terra con un’equilibrata combinazione degli elementi”), o, ancora, come Terra Effigiem Naturae Essentialis Tenet (“La Terra conserva l’immagine della Natura Essenziale”). Né mancano interpretazioni in chiave satanica: SATAN, TER ORO TE, REPARATO OPES! (“Satana, ti prego per tre volte, restituiscimi le mie fortune”).

L’ipotesi che si tratti di un simbolo cristiano non è da scartare, se si pensa che il palindromo compare in molte chiese medievali, soprattutto quelle appartenenti ai Templari e ai Cistercensi, – tanto che alcuni studiosi, facendo leva sulla metafora del seminatore che, nei Vangeli, è riferita a Dio (cfr., per esempio, le parabole del seminatore e del granello di senape) avanza questa possibile lettura: «Il Creatore, l’autore di tutte le cose, mantiene con cura le proprie opere». Secondo queste ed altre interpretazioni, il quadrato sarebbe, in realtà, una crux dissimulata, necessaria per non esporre i cristiani alle persecuzioni pagane.

 

 

6) Che poi il quadrato potesse essere un simbolo apotropaico, è un’ulteriore ipotesi che sembrerebbe suffragata da alcuni documenti, per esempio, da una Pergamena di Aurillac che contiene un augurio per una donna che sta per partorire. Secondo Paracelso  (1493-1541), il quadrato avrebbe avuto il potere di proteggere dai pericoli chiunque lo portasse e anche Gerolamo Cardano (1501-1576), entrando nello specifico nel trattato De Rerum Varietate,  ne sottolinea l’efficacia contro il morso di cani rabbiosi. Allo stesso modo si potrebbe spiegare il fatto che si trovasse scolpito anche su molti edifici, allo scopo di proteggerli dagli incendi.

 

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“ROMA OLIM MILO AMOR”

 

Questa frase palindroma (nonché formata da parole anch’esse palindrome) e disposta in modo da formare un quadrato, fu trovata sulla parete di una domus di Pompei  Nel 1947, Pietro De Angelis formulò l’ipotesi che si trattasse del nomen arcanum di Roma, ossia Amor, tradizionale  attributo di Venere, madre di Enea e quindi progenitrice dei Romani. Nel 1963 Armando Petrucci trovò  nella Caserma dei Vigili, a Ostia,  un quadrato simile databile all’età dell’imperatore Adriano (117-138). Anche in questo caso, però, non è facile azzardare un’interpretazione, soprattutto perché quella che sembrerebbe la lettura più corretta e anche la più semplice  – ossia  “Per Milo Roma un tempo era l’amore”, va a cozzare col termine Milo, che si presenta come un dativo della II declinazione, mentre a Roma figura solo come antroponimo di III declinazione (Milo – onis). E anche a volerlo intendere come un nominativo, chi sarebbe questo misterioso personaggio? C’è però chi, piuttosto fantasiosamente, lo ha letto come una contrazione di Miluo, dativo di Miluus, a sua volta variante di Milvus, ossia il nibbio, che però non risulta mai usato come nome di persona.

 

Vero è che a Roma, come altrove, molte di queste frasi derivavano da lingue sconosciute, per cui l’alone stesso di mistero che le caratterizzava contribuiva forse a farle percepire come formule magiche. Per esempio, molti amuleti e papiri egiziani portano  impresse le sette vocali greche, scritte in modo da formare triangoli o altre figure geometriche, ma tutte impiegate a scopo propiziatorio.

 

 

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“IAEW BAΦPENEM OYNOΘIΛAPI KNIΦIAEYE AIΦINKOPAΛ IΘONYOME NEPΦABWEAI”

 

Analogo discorso vale per il mondo greco: la frase sopra riportata, infatti (forse l’iscrizione più lunga in nostro possesso), è stata ritrovata su di un amuleto rinvenuto a Paphos (Cipro) e risalente al V secolo. Il significato dovrebbe essere il seguente: “Iaweh è il portatore del nome segreto, il leone di Ra, sicuro nel suo santuario (o dominio)”. Alcune misteriose figure, riportate sull’altra faccia dell’amuleto e sicuramente di provenienza egiziana, dovrebbero rappresentare Arpocrate (ossia la trasformazione del dio Horo bambino, figlio di Iside e di Osiride), seduto sullo sgabello, a sua volta appoggiato su una mummia (forse Osiride) effigiata su una barca, sotto la quale si nasconde un coccodrillo (Seth o forse Apophis, il serpente che cerca  di inghiottire la nave con la quale il dio Ra porta al mondo la luce del sole ). Ai lati, un uccello (forse un gallo o una fenice), e un Cinocefalo (un Babbuino oppure la Driade) – che rappresenterebbe Thot, dio della saggezza, oppure  Ermete Trismegisto (il suo equivalente greco-romano), insieme ad un serpente.

 

I VERSI ANACICLICI

 

Diversi dai palindromi sono i versi anaciclici, le cui parole, lette in senso contrario,  formano un verso che può essere lo stesso  dell’originale (come “PRAECIPITI MODO QUOD DECURRIT TRAMITE FLUMEN/ TEMPORE COMSUMPTO IAM CITO DEFICIET” – “Allo stesso modo in cui scorre un torrente impetuoso,/ trascorso il suo tempo, ben presto verrà meno”), o che acquisisce un significato diverso, come accade con i versi “LAUS TUA, NON TUA FRAUS, VIRTUS, NON COPIA RERUM/ SCANDERE TE FECIT HOC DECUS OMNIPOTENS” (“La tua gloria, non la menzogna, il valore non le ricchezze materiali/ ti consentirono di ottenere questo altissimo onore”), che però cambia completamente di significato se letto in senso contrario (“OMNIPOTENS DECUS HOC FECIT TE SCANDERE, RERUM/ COPIA, NON VIRTUS, FRAUS TUA, NON TUA LAUS” – “Questo onore sommo ti diedero le tue ricchezze, non il valore,/ la tua slealtà, non il merito”).

Un famoso autore di versi anaciclici fu il poeta Publilio Optaziano Porfirio:

“BLANDITIAS FERA MORS VENERIS PERSENSIT AMANDO,/ PERMISIT SOLITAE NEC STYGA TRISTITIAE”; “TRISTITIAE STYGA NEC SOLITAE PERMISIT, AMANDO/ PERSENSIT VENERIS FERA MORS BLANDITIAS” (“Crudele morte annunciano le blandizie di Venere, e quando s’ama si è trapassati dalle inevitabile amarezze di Stige”);

“OMNIPOTENS PATER HUIC SEMPER CONCESSIT AMORI,/ FECIT NEC REQUIEM TOT SIBI FULMINIBUS”; “FULMINIBUS SIBI TOT REQUIEM NEC FECIT, AMORI/ CONCESSIT SEMPRE HUIC PATER OMNIPOTENS” (“Anche l’onnipotente padre -Giove- sempre si arrese all’amore e non diede requie ai tanti suoi fulmini”);

“PURPUREUM TIBI FLOS VULTUM NON PINGIT, IACCHE,/ MONSTRAT NEC MITEM FRONS NOVA LAETITIAM”; “LAETITIAM NOVA FRONS MITEM NEC MONSTRAT, IACCHE,/ PINGIT NON VULTUM FLOS TIBI PURPUREUM” (“Un fiore purpureo non vela il tuo volto, Bacco, e non mostra ora la tua fronte una pudica letizia”);

“OCCUBUIT MINOR HUIC FRACTIS ET VIRIBUS ASTU/ TIRPUIT OPPRESSUS AMPHITRYONADES”; “AMPHITRYONADES OPPRESSUS TORPUIT ASTU,/ VIRIBUS ET FRACTIS HUIC MINOR OCCUBUIT” (“Soccombette l’Anfitrionide -Ercole- all’inganno, dopo essersi assopito per il venir meno delle forze”);

“INCALUIT IUBAR HOC, EXTERNIS IGNIBUS ARDENS/ FORTIUS; ARDOREM SOL SIBI CONGEMINAT”; “CONGEMINAT SIBI SOL ARDOREM; FORTIUS ARDENS/ IGNIBUS EXTERNIS HOC IUBAR INCALUIT” (“Aumentò il calore lo splendente astro, ardendo con sempre più lunghe fiamme: il Sole raddoppia così il suo fulgore”);

“DEPOSITA FACE NOX QUAESIVIT LUMINA PHOEBES,/ VULNERE SI BLANDUS HANC TENET ENDYMION”; “ENDYMION TENET HANC BLANDUS SI VULNERE, PHOEBES/ LUMINA QUAESIVIT NOX FACE DEPOSITA” (“Tramontata la fiaccola -del Sole-, la Notte cercò come suo lume la Luna -qui detta con voce greca “Febe”, sorella di Febo, ovvero Artemide-Diana, identificata con Selene, la Luna-, che il dolce Endimione tiene avvinta con ferita d’amore”);

“ARMIPOTENS DEUS HOC SUSPIRAT PONDERE, VULNUS/ FERREA NEC RABIES, HAUT FUROR EXSUPERAT”; “EXSUPERAT FUROR HAUT RABIES NEC FERREA VULNUS,/ PONDERE SUSPIRAT HOC DEUS ARMIPOTENS” (“Il dio armipotente -Marte- si affanna per questo fardello, che niuna sopravanza ferita o moto d’ira o furore”);

“IMPATIENS VENUS EST, SILVAS DUM LUSTRAT ADONIS,/ CARPIT SI MATREM, IAM CUI CONVENIAT”; “CONVENIAT CUI IAM, MATREM SI CARPIT ADONIS,/ LUSTRAT DUM SILVAS, EST VENUS IMPATIENS” (“Trepidante è Venere mentre percorre le selve di Adone, se mai ne incontrasse la madre, che già aveva colpito”).

 

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Nell’immagine: Il palindromo NIΨON ΑΝΟΜΗΜΑΤΑ ΜΗ ΜΟΝΑΝ ΟΨΙΝ (“Nipson anomemata me monan opsin”, “Lava i tuoi peccati, non solo il tuo viso”) inciso su un’acquasantiera presso la basilica di Santa Sofia a Costantinopoli.  La frase è attribuita a San Gregorio di Nazianzo. 

 

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