“C’è un buco nel portico
della città di Bologna
come l’inferno inghiotte
i giovani poeti
Un diavolo benigno
li travia. Escono
trasfigurati, gridando
i loro versi al sole
Se fuori c’è la nebbia
da quella libreria
si vede alla finestra
(per qual diavoleria)
il cielo azzurro
I libri parlano
anche se son chiusi
beato chi sa ascoltarne
l’ostinato sussurro”
Questi versi li ho scritti molti anni fa, e sono dedicati al poeta e intellettuale Roberto Roversi, e alla sua libreria, la Palmaverde, che fu uno dei miracoli culturali dell’Italia anni settanta. Roversi era un poeta, amico di Pasolini, Leonetti e tanti altri, ma era soprattutto un grande esempio di passione per la letteratura. La sua libreria antiquaria, un antico sotterraneo stracolmo di tavoli e scansie, era il ritrovo di scrittori e studenti bolognesi.
Roversi era un “diavolo benigno”, un uomo allegro e bizzarro, amato ma anche temuto per la sua intransigenza. I giovani andavano da lui con rispetto reverenziale, e lui aveva un consiglio e un aiuto per tutti. Pur avendo proposte da molti grandi editori, preferiva pubblicare in proprio, in ciclostile o affidandosi a tipografie artigianali. Nella libreria, oltre a volumi pregiati e rari, c’erano centinaia di opuscoli di poeti affermati o debuttanti. Spesso per averli bastava una piccola offerta: “Non c’è prezzo per la poesia,” diceva, “o se c’è, non è nel danaro di questo mondo.”
Quando avevo meno di trent’anni ed ero uno scrittore agli inizi, entrai nella misteriosa e oscura grotta della Palmaverde.
Ero intimidito. Mi aggiravo in quella penombra odorosa di carta e inchiostri, riscaldata solo da una stufetta elettrica. Ma dopo i primi incontri nacque una bellissima amicizia. Roversi mi fu amico e maestro. Parlavamo di tutto. Non solo della grande poesia, ma di politica, di calcio, di automobilismo, di canzoni, lui era stato paroliere del cantautore Lucio Dalla, non era un pedante letterato, amava ogni aspetto della vita. Questa fu la sua prima lezione: “Ma chi ha detto,” ripeteva, “che un letterato deve parlare solo di letteratura? Sarebbe come uno chef che parla solo di maionese.”
E quando gli portai il mio primo libro con dedica, mi regalò in cambio un suo volume con la scritta:
“A Stefano che scrive, legge con passione, e sa giocare bene a calcio. Continua tutte e tre le cose.”
Roberto Roversi è morto quattro anni fa in dignitosa povertà, e la libreria è stata chiusa nella totale indifferenza del comune di Bologna. Vorrei ricordarlo partendo da alcune sue frasi che non ho mai dimenticato.
La prima frase è: “I libri sono vivi e non amano essere trattati male.”
La Palmaverde era conosciuta in tutto il mondo, e Roversi inviava libri rari in moltissime università, dalla Danimarca all’Egitto, dagli Usa alla Cina, dalla Germania alla Colombia:. E per spedirli senza rovinarli era diventato, diceva, “un grande impacchettatore”. Quando doveva preparare il plico dei libri, ci metteva ore a sistemarli uno sull’altro, ad avvolgerli prima nel cartone e poi in carta di ottima qualità, e infine a legare accuratamente il pacco con lo spago. “È quasi più difficile far viaggiare i libri che scriverli” sospirava. E mostrava con orgoglio la lettera di ringraziamento di un professore giapponese:
“Egregio dottor Roversi, la sua competenza libraria è inappuntabile, ma soprattutto non ho mai ricevuto pacchi confezionati con tanta cura e arte.”
“Capisci?” mi diceva sorridendo. “Sono i complimenti di un giapponese, gli artisti dell’origami!”
La seconda frase che Roberto ripeteva spesso era: “I libri scelgono chi vuole comprarli.” Roversi vendeva solo se il cliente gli piaceva. Se gli sembrava antipatico, presuntuoso, non amante della letteratura, lo guardava subito con sospetto. Una volta ne ebbi la prova. Entrò un signore benvestito e si mise a girare tra i libri, ne sfogliò alcuni con malagrazia, poi ne indicò uno costosissimo, un volume d’arte. “Vorrei quello,” disse, “è un regalo e voglio fare bella figura.”
“Mi dispiace,” rispose Roversi con un sorriso beffardo, “ma quello è già venduto al professor Nihongi, a Tokyo.”
E così il cliente chiese di acquistare altri libri, ma ogni volta il volume desiderato era sempre stato venduto a misteriosi personaggi, al professore inglese Booker, al critico francese Des Livres, al libraio tedesco Lohengrin. Finché il cliente se ne andò sbuffando a mani vuote.
La terza frase di Roberto era: “Il topo non mangia i libri a caso.”
Tra quelle vecchie e affollatissime scansie, Roversi lottava spesso contro i danni di topi e tarli, e a loro dedicò più di una poesia. “Non sono nemici,” diceva, “sono colleghi un po’ invadenti. Se un topo mangia un libro è perché la carta è di buona qualità, la muffa è saporita, oppure perché la scrittura è eccellente. Diffidate dei libri che i topi evitano!”
L’ultima frase che ricordo è: “I libri sono così pieni di pensiero, che alcuni hanno imparato a pensare.”
E ricordava l’episodio di una Divina Commedia, un tomo pregiato e pesante che, misteriosamente, cadde tre volte dall’alta scansia ove era stato sistemato. Roversi disse: ci deve essere un perché, e presto lo scoprì.
“Vedi,” mi confidò, “avevo messo quella Divina Commedia vicino a un libro dell’Ottocento che racconta e celebra la vita di papa Bonifacio VIII. E come sai, Dante considerava quel pontefice il suo peggiore nemico, tanto da metterlo nell’Inferno.
Ecco il motivo delle strane cadute: quella Divina Commedia preferiva buttarsi di sotto, piuttosto che stare fianco a fianco con un’opera che glorificava il suo avversario!”
Così era la Palmaverde, luogo di cultura ma anche di artigianato e fatica. Roberto scriveva ancora a penna gli elenchi e la disposizione dei libri. Un giorno la moglie lo convinse a comprare un computer. Lui lo guardò con curiosità poi disse:
“Va bene, modernizziamoci. Però lo userai solo tu. Ma promettimi che, se vorrai sapere dov’è un libro, lo chiederai a me, non al computer. Sono geloso.”
In effetti lui si muoveva in quel labirinto di titoli con incredibile memoria e rapidità. Portava in spalla una scaletta di ferro, arrampicandosi in cima a scansie stracolme che toccavano il soffitto. Sapeva dove erano quasi tutti i libri, in quale scaffale e in quale cassetto. E soprattutto aveva il suo mobiletto di libri preferiti, cento titoli amatissimi. Da lui capii che la passione della letteratura è un aleph infinito, in cui siamo vertiginosamente collegati a tutte le storie e le opere del mondo. Ma poi scegliamo l’hapax, la nostra unicità di lettori e scrittori.
Scriveva le poesie a penna, o a volte su una macchina da scrivere che crepitava come una mitragliatrice. Una volta mi mostrò un suo manoscritto, così pieno di cancellature e tagli da essere quasi illeggibile.
“Vedi?” disse. “Questa è la storia dei miei dubbi.”
Da lui imparai che scrivere è cercare, è ritentare, è migliorare.
“Si legge e si rilegge,” diceva Roversi, “ma soprattutto si scrive e si riscrive. Non mi fido di uno scrittore che fa un libro senza una correzione e in pochi mesi.”
Ma quando gli confessai che stavo lavorando a un libro e avevo riscritto alcune pagine più di cinquanta volte, sorrise e mi disse: “Forse adesso devi fermarti. C’è un momento in cui il tuo lavoro è finito, e diventa degli altri.”
Alla Palmaverde non si entrava solo per parlare di alta letteratura. Si andava anche per stare allegri, giocare a carte, fare uno spuntino con pane e mortadella. E soprattutto a Roversi piaceva scherzare, specialmente se trovava qualche credulone o falso intenditore. Inventava titoli che non esistevano, libri infestati da fantasmi, scrittori inverosimili. Inventammo un poeta, René Nexistepas, un cliente sentì che ne parlavamo con ammirazione, ci cascò e ordinò tutti i suoi libri. Tornò varie volte per acquistarli e Roversi con comica umiltà ogni volta si scusava:
“È uno scandalo, anche questa settimana non ci hanno mandato René Nexistepas, sono desolato…”
Roversi pagava un affitto altissimo, e faceva molti sacrifici per mandare avanti la libreria. Quando capì che il padrone del palazzo stava per sfrattarlo, e che nessuna delle autorità cittadine lo avrebbe aiutato, pensò di architettare un’ultima beffa.
Cominciammo a mettere in giro la voce che nella Palmaverde era nascosto un tesoro antichissimo. Da qualche parte, dietro i muri dei libri, c’era un passaggio che portava a una stanza segreta, dove era conservato qualcosa di enorme valore.
Il padrone del palazzo venne a conoscenza di questa diceria, e con la scusa di controllare lo stato del locale, cominciò a venire in visita. Si aggirava tra gli scaffali, percuoteva le pareti cercando un punto cavo, rovistava in tutti gli angoli. Finché gli facemmo trovare, in bella vista su una scrivania, una chiave con la scritta: Chiave della porta rossa. Entrate solo in caso di assoluto bisogno. Lì troverete il prezioso trono marmoreo.
La trappola funzionò. Il padrone di casa trovò, in fondo a uno stretto corridoio, la porticina rossa. Mentre noi facevamo finta di far conversazione, lo sentimmo girare la chiave e entrare. E si ritrovò in uno stanzino dove c’era un water, il piccolo bagno della libreria. Se ne andò sbattendo la porta.
Questo era Roversi, e questa era la sua affascinante e bizzarra vecchia libreria.
Ho amato quelle stanze oscure e odorose di muffa molto più delle librerie moderne piene di luci e schermi.
Nella poesia iniziale io chiamo la Palmaverde “inferno”. Perché ricordo una conversazione tra me e quel magico libraio. La letteratura (e il suo santuario, che è la libreria), è una fucina di idee forgiate nelle fiamme della creazione e nel fuoco del riscrivere, i libri parlano del bene e del male, e della dannazione di voler scendere sempre più nelle profondità dell’anima. Nel paradiso tutto è perfetto, niente si può migliorare, tutto è già scritto in bella calligrafia, senza correzioni e ripensamenti. Per questo il destino della letteratura ricorda più un meraviglioso tormentato inferno, che un appagato paradiso.
La Palmaverde non esiste più. Ma i suoi libri, le sue parole, e la sua lezione, girano ancora per il mondo, e nella mia testa.”
Stefano Benni, in Henry Hitchings, “Andar per libri. Il mondo in quindici librerie”, 2016