Pensieri

Discorso sulla stupidità

29.03.2023

Signore e signori,

chi tenti oggi l’impresa di parlare della stupidità corre il rischio di rimetterci le penne in tanti sensi. La cosa potrebbe interpretarsi come arroganza o addirittura come strappo al progresso contemporaneo. Anni fa io stesso scrissi: “Se la stupidità non assomigliasse tanto al progresso, al talento, alla speranza o al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido”. Correva l’anno 1931 e nessuno oserà mettere in dubbio che da allora il mondo non abbia visto progressi e miglioramenti! Così poco per volta la questione: che cos’è veramente la stupidità? è diventata ineludibile.
Non vorrei neppure trascurare il fatto che, da scrittore, da tempo conosco la stupidità. Potrei addirittura dire che con lei ho più volte avuto rapporti collegiali. Inoltre, appena si aprono gli occhi sulla letteratura, ci si trova confrontati con un’indescrivibile resistenza, apparentemente proteiforme. Può essere resistenza personale, come quella dignitosa del professore di storia della letteratura che, abituato a mirare a distanze incontrollabili, sul presente sballa miseramente. Ma possono anche essere forme generalmente evanescenti di trasformazione del giudizio critico, da quando nella sua imperscrutabile bontà Dio ha concesso il linguaggio umano anche ai produttori di film sonori. Ho già descritto in diverse occasioni questi fenomeni. Non è necessario che mi ripeta o completi la lista (impresa manifestamente impossibile con la tendenza oggi ubiquitaria al grandioso). Basti notare un fatto. La costituzione non artistica di un popolo si esprime non solo in tempi cattivi in modo brutale ma anche in tempi buoni in tanti modi, a tal punto che tra la repressione o divieto e laurea ad honorem, tra nomina accademica o assegnazione di un premio ci sono solo differenze di grado.
Ho sempre supposto che in un popolo, che pure si vanta di amare l’arte, la multiforme resistenza contro l’arte e l’esprit de finesse non fosse altro che stupidità. Ci sarebbe una particolare forma di stupidità, magari artistica o sentimentale, che si manifesterebbe in forme tali che quel che chiamiamo bellezza dello spirito è il più delle volte anche una bella stupidità. E oggi non ho proprio molti motivi per cambiare idea.
Naturalmente non si può attribuire a stupidità tutto ciò che sfigura un’aspirazione pienamente umana come l’arte. Come insegnano in particolare le esperienze degli ultimi anni, va lasciato posto anche alle diverse forme di assenza di carattere. Ma non si obietti che allora non c’entra il concetto di stupidità, che si riferirebbe all’intelletto e non al
sentimento, da cui invece l’arte dipende. Sarebbe sbagliato. La stessa fruizione estetica è giudizio e sentimento. E vi chiedo il permesso non solo di ricordare questa grande formula, che ho preso in prestito da Kant, il quale parla di capacità di giudizio estetico e di giudizio di gusto, ma anche di riprendere le antinomie a cui porta.
Tesi. Il giudizio di gusto non si fonda su concetti, altrimenti su di esso potremmo disputare (arrivando a decidere con prove provate).
Antitesi. Il giudizio di gusto si fonda su concetti, altrimenti su di esso non potremmo neanche litigare (cercando un’intesa).
E ora mi chiedo se un simile giudizio e con le stesse antinomie non sia alla base anche della politica e, in generale, del casino della vita. Non ci aspetteremo di trovare là dove ragione e giudizio sono di casa anche le loro sorelle e sorelline – le diverse forme di stupidità? Tanto basti sulla sua importanza. Nel suo delizioso e a tutt’oggi insuperato Elogio della follia non ha forse scritto Erasmo che, se non fosse stato per certe stupidaggini, l’uomo non sarebbe neppure venuto al mondo?
Sono in tanti a esibire il senso di dominio impudico e violento, che su di noi esercita la stupidità, dimostrandosi tra l’amichevole e il cospiratorio sorpresi, appena avvertono che qualcuno, di loro fiducia, intende evocare il mostro nominandolo. Inizialmente ho potuto farne l’esperienza non solo su di me, constatandone ben presto la validità storica, dopo essermi messo alla ricerca dei predecessori nell’elaborazione della stupidità (dei quali mi ha stupito venire a conoscere l’esiguo numero – a quanto pare i saggi preferendo scrivere intorno alla saggezza) e aver ricevuto da un dotto amico il testo a stampa di una conferenza Sulla stupidità, tenuta nel 1866 da tale Johann Eduard Erdman, allievo di Hegel e professore a Halle, la quale esordisce subito con le risate che ne salutarono l’annuncio. Sapendo che certe cose possono capitare persino a un hegeliano, ritengo che un comportamento del genere verso chi voglia parlare di stupidità sia solo un caso particolare, ma non mi sento molto sicuro, convinto come sono di avere sfidato una forza psicologica potente e profondamente ambigua.
Perciò preferisco riconoscere da subito la debolezza in cui mi ritrovo: io non so cosa la stupidità sia.
Non ho scoperto nessuna teoria della stupidità, grazie alla quale potrei accingermi a salvare il mondo. Entro i confini della riservatezza scientifica non ho trovato una sola ricerca che avesse come oggetto la stupidità e neppure una coincidenza che trattando di cose affini riguardasse bene o male il suo concetto.
Può darsi che sia colpa della mia ignoranza, ma è più probabile che la domanda “cos’è la stupidità” corrisponda alle attuali consuetudini di pensiero meno delle domande sul bene, la bellezza o l’elettricità. Ciononostante non è meno stringente il desiderio di farsene un’idea e di rispondere nel modo più sobrio possibile a questa domanda preliminare a tutta la vita. Così anch’io un giorno sono caduto vittima della domanda su cosa sia “realmente” la stupidità, invece di descriverne le parate, come il mio dovere e le mie capacità professionali richiedevano. Non volendo usufruire dei modi letterari né avendo accesso a quelli scientifici, ho tentato nel modo più ingenuo, ovvio in simili casi, di seguire l’uso della parola “stupido” e derivati, ricercando gli esempi più comuni e tentando di metterli insieme. Simile modo di procedere ha sempre qualcosa della caccia alle cavolaie. Credi di aver visto qualcosa, la segui per un po’ senza perderla di vista, ma zigzagando da tutt’altra direzione arriva un’altra farfalla, del tutto simile alla prima e ben presto non sai più quale stai seguendo. Succede lo stesso con i derivati della stupidità. Non sempre sai distinguere se sono originariamente connessi o se la trattazione porta inavvertitamente dall’uno all’altro in modo affatto esteriore. Non è molto semplice metterli sotto lo stesso cappello in modo da dire: questo è veramente specifico di una testa di legno.
In siffatte circostanze come cominciare è indifferente. Permettetemi, allora, di cominciare in modo qualunque. Va benissimo questa difficoltà iniziale: chiunque voglia parlare o utilmente partecipare al discorso sulla stupidità, deve presupporre di non essere egli stesso stupido. Così facendo, fa vedere che si considera intelligente, anche se fare così è in generale considerato segno di stupidità. Se poi ci si chiede perché sia stupido mostrarsi intelligenti, la prima risposta sa di polvere del municipio dei progenitori. Si pensa che sia più prudente non mostrarsi intelligenti. Può darsi che questa prudenza, profondamente scettica e oggi a tutta prima addirittura incomprensibile, fosse dettata da situazioni in cui per il più debole era realmente più intelligente non essere considerato intelligente, perché la sua intelligenza poteva minacciare l’esistenza del più forte. Per contro la stupidità sopiva la diffidenza. La
disarma”, come si dice oggi. Tracce di questa antica astuzia e furba stupidità si trovano realmente in certe situazioni di dipendenza, dove il rapporto di forza è così asimmetrico che al più debole non resta altro che mostrarsi più stupido di quel che non è. Ne sono esempi la cosiddetta astuzia contadina, i rapporti dei domestici con padroni dotati di qualche vocabolo in più, del soldato con i superiori, dello scolaro con il maestro e del bambino con i genitori. Per il potente il debole che non può è meno provocatorio del debole che non vuole. La stupidità porta il potente addirittura “alla disperazione”, quindi in evidente stato di debolezza!
In perfetta simmetria l’intelligenza mette il padrone sul “chi vive”. Nel subordinato la si apprezza solo insieme a incondizionata devozione. Senza certificato di buona condotta, non si sa se sia a vantaggio del padrone. Allora sempre meno la si chiama intelligenza, più spesso immodestia, insolenza o malizia. Spesso si instaura un rapporto
che va contro l’onore e l’autorità del padrone, quand’anche non minacci la sua sicurezza. In campo educativo la stessa cosa si traduce nel trattare l’alunno dotato ma ribelle più duramente di uno che ottusamente resista. In morale ciò ha portato all’idea che la volontà sia tanto più cattiva quanto migliore è il sapere contro cui si adopera.
Persino la giustizia non è rimasta immune da questo pregiudizio personale e giudica sfavorevolmente l’esecuzione intelligente del crimine in quanto “raffinata” e “brutale”. In politica ognuno può trovare esempi dove vuole.

Ma anche la stupidità, si obietterà, non è sempre tranquillizzante. Può essere provocatoria, come dicevo. Per farla breve, di solito eccita l’impazienza e in rari casi la crudeltà. Gli orrendi eccessi di crudeltà, comunemente chiamati sadismo, mostrano spesso degli stupidi nel ruolo di vittime. Evidentemente gli stupidi diventano preda della crudeltà più facilmente di altri. Ma a ciò si connette un’altra circostanza: la tangibile assenza di resistenze rende selvaggia l’immaginazione come l’odore del sangue il piacere della caccia; attira in un vuoto dove la crudeltà semplicemente si spinge “troppo in là”, perché non trova più limiti. Questo è un tratto di sofferenza in chi fa soffrire, una debolezza nel pieno della sua crudeltà. Sebbene la privilegiata indignazione della pietà offesa permetta raramente di notarlo, tanto alla crudeltà quanto all’amore servono due persone che vadano bene l’una per l’altra. Discuterne sarebbe certamente relativamente importante in un’umanità come l’attuale, afflitta da “vile
crudeltà verso i più deboli” (perifrasi abusata di sadismo). Ma rispetto al contesto, osservato nella sua linea di sviluppo principale, e dati i primi esempi, fugacemente raccolti, quanto già detto va considerato una digressione. Non se ne ricava molto di più di questo: sarà stupido vantarsi di essere intelligente, ma non è sempre intelligente farsi la fama di stupido. Ma anche in questo non si può generalizzare o l’unica generalizzazione qui consentita sarebbe che a questo mondo la cosa più intelligente è di farsi notare il meno possibile! Tra tutte le forme di saggezza non è infrequente trovare questa conclusione. Più di frequente il risultato poco socievole viene usato solo a metà e in senso simbolico o sostitutivo, che porta a considerare la sfera dei comandamenti della modestia o ancora più comprensivi, senza tralasciare del tutto considerazioni di stupidità e di intelligenza.
Sia per paura di passare per stupidi sia per non offendere il comune senso del pudore molti uomini si ritengono intelligenti ma non lo dicono. E, costretti a parlarne, usano perifrasi della serie: “Non sono più stupido di tanti altri”. Preferibilmente si fa osservare con tono il più possibile distaccato e oggettivo: “Di me posso ben dire di avere un’intelligenza normale”. A volte la convinzione della propria intelligenza si legge tra le righe, come nelle espressioni: “Ca nisciun’ è fess” o “Non mi farò prendere per scemo”.
Ancora più degno di nota è il fatto che non è solo l’uomo comune nel proprio intimo a pensarsi dotato di molta intelligenza, ma anche l’uomo che agisce nella storia appena ne ha l’occasione dice o fa dire di sé [dai suoi servi] che è oltremodo intelligente, illuminato, degno, sublime, misericordioso, eletto da Dio e chiamato dalla storia.
Poi, lo si dice volentieri anche di un altro, del cui lustro ci sentiamo rischiarati di riflesso. Titoli e appellativi, come Maestà, Eminenza, Eccellenza, Vostra Magnificenza, Vostra Grazia e simili, conservano questa convinzione pietrificata e non più vivificata dalla coscienza. Ma torna subito a vivificarsi appena l’uomo parla come massa. Soprattutto, una sorta di ceto medio-basso dello spirito e dell’anima non si vergogna minimamente del proprio bisogno di arroganza, quando prende le difese del partito, della nazione, della setta, della tendenza artistica [o della scuola di psicanalisi], e può dire Noi invece di Io.
Con una riserva tanto ovvia quanto trascurabile, potremmo chiamare questa arroganza anche vanità. Oggi l’anima di molti popoli e di molti stati sembra dominata da sentimenti tra cui la vanità occupa innegabilmente i primi posti in classifica.
Da tempo tra stupidità e vanità esiste uno stretto rapporto, che forse può fornirci alcune indicazioni utili. Comunemente lo stupido fa già l’effetto del vanitoso, perché non ha l’intelligenza di nasconderlo. Ma, in verità, non ce n’è neppure bisogno, perché la parentela tra stupidità e vanità è immediata. Il vanitoso dà l’impressione di far di meno di quel che potrebbe. Somiglia alla macchina che perde vapore da un bullone allentato.
Il vecchio detto: “Stupidità e vanità crescono sulla stessa pianta” significa solo che la vanità “abbaglia”. Al concetto di vanità, in realtà, associamo l’attesa di una minore prestazione, poiché il significato della parola “vano” è quasi identico a “invano”. Ci si attende una minore prestazione, dove in effetti c’è prestazione. Non di rado vanità e talento vanno insieme. Allora abbiamo l’impressione che il vanitoso avrebbe potuto fare di più, se non si fosse ostacolato da solo. Questa idea così tenace di diminuita efficienza si ripresenterà in seguito come il nostro modo più generale di pensare la stupidità.
Come è noto, il comportamento vanitoso non viene evitato perché sarebbe stupido, ma perché non sta bene. “Chi si loda s’imbroda”, dice l’aforisma. Significa che le smargiassate, il parlare troppo di sé vantandosi, non è considerato solo poco intelligente ma anche maleducato. Se non erro, le richieste della buona educazione, così violate, rientrano nelle multiformi prescrizioni del ritegno e del distacco, allo scopo di non urtare l’albagia altrui, da presupporre non minore della nostra. Sono regole per mantenere le distanze. Sono dirette contro l’uso di parole troppo franche, regolano i modi di salutare e di rivolgere la parola, non permettono di contraddire qualcuno senza
scusarsi o di cominciare una lettera con “io”. In breve, richiedono l’osservanza di certe regole per non “avvicinarsi troppo” reciprocamente. Hanno il compito di appianare e livellare i rapporti, attenuare l’amor proprio e del prossimo, mantenendo la temperatura del commercio umano a un livello intermedio. Tali prescrizioni si ritrovano in ogni società, nelle primitive addirittura più che in quelle altamente civilizzate, nonché in quelle animali senza parola, come si può facilmente desumere dai loro riti [prossemici].
Secondo le prescrizioni di distanza è interdetto non solo lodare se stessi ma anche gli altri con troppa insistenza. Dire in faccia a qualcuno che è un genio o un santo è altrettanto disdicevole che dirlo di sé. Per la sensibilità attuale imbrattarsi il volto o strapparsi i capelli non è meglio che insultare l’altro. Basti osservare che non siamo né
più stupidi né meno bravi degli altri, come già detto.
Evidentemente in situazioni ordinate sono bandite espressioni smodate e indisciplinate. E come prima si parlava della vanità di popoli e partiti che sopravvalutano il proprio stato di illuminazione, ora bisogna aggiungere che, quando si sfoga – proprio come il megalomane che sogna a occhi aperti – la maggioranza si crede non solo l’unica saggia ma anche l’unica virtuosa, coraggiosa, nobile, invincibile, pia e bella. Il mondo ha la peculiare tendenza per cui, quando gli uomini si trovano in tanti, si permettono tutto ciò che è proibito al singolo.
I privilegi del Noi ingigantito danno l’impressione che il crescente incivilimento e addomesticamento del singolo vada compensato dal parallelo imbarbarimento degli stati, delle nazioni e delle loro leghe ideologiche. Chiaramente si manifesta un disturbo dell’equilibrio affettivo che in sostanza precede la contrapposizione tra Io e Noi e ogni valutazione morale. Ma tutto ciò, dobbiamo chiederci, è ancora stupidità o ha con la stupidità una qualche connessione?

Egregi ascoltatori! Nessuno ne dubita!

Ma prima di rispondere preferiamo prendere  un po’ di respiro con un esempio non poco amabile. Tutti noi, ma in prevalenza noi uomini, in particolare noti scrittori, conosciamo la signora che vuole a ogni costo confidarci il romanzo della sua vita. Apparentemente la sua anima si è trovata sempre in circostanze interessanti, senza mai riportare un vero successo, che si aspetta tuttavia solo da noi. È stupida, la signora? Di solito un certo non so che proveniente dal complesso di tutte le impressioni ci sussurra: ma sì, lo è! Ma la cortesia, non meno della giustizia, richiede di concederle che non lo è sempre e comunque. Parla molto di sé, è vero. In generale, parla molto. Dà giudizi precisi su tutto. È vanitosa e immodesta. Spesso sale in cattedra. La sua vita amorosa è disordinata e la vita in generale le va storta. Ma non ci sono molti altri uomini a cui succedono tutte queste cose o almeno gran parte? Parlare molto, per esempio, è anche una cattiva abitudine degli egoisti, degli irrequieti e di certi depressi. Le stesse cose possiamo riferirle soprattutto ai giovani. Fa parte dei fenomeni dello sviluppo parlare molto di sé, essere vanitosi, saccenti, condurre una vita disordinata, in poche parole, mostrare le stesse deviazioni dell’intelligenza e
della buona educazione, senza per questo essere stupidi o almeno non più stupidi di quanto lo richieda la condizione naturale, non avendo avuto abbastanza tempo per diventare intelligenti.

Signore e signori! I giudizi della vita quotidiana e della conoscenza degli uomini per lo più colgono nel segno, ma di solito fanno cilecca, perché non si basano su una teoria giusta, ma rappresentano semplici moti psichici di adesione o difesa. Anche questo esempio ci dimostra solo che uno può essere stupido, ma non è detto che lo sia. Il suo significato cambia con il contesto in cui la cosa si verifica. La stupidità è fittamente intessuta con altro, senza che da qualche parte spunti il filo che sciolga la tessitura.
Persino genialità e stupidità sono indissolubilmente legate. Ci si vieta di parlare molto solo per paura di passare per stupidi. Il divieto di parlare di sé si aggira con un vero e proprio trucco: attraverso lo scrittore. A nome dell’umanità lo scrittore può raccontare che ha mangiato bene e che in cielo c’è il sole, può esporsi in pubblico, propalare segreti, fare confessioni e deposizioni senza riguardi per la persona – almeno molti scrittori ci tengono molto! Tutto ciò ha l’aria dell’eccezione con cui l’umanità si consente ciò che altrimenti le sarebbe vietato. Così, aiutata dagli scrittori, l’umanità parla di se stessa raccontando milioni di volte le stesse esperienze e le stesse storie, appena cambiando le circostanze, senza alcun senso o progresso di sorta. L’uso che l’umanità fa dei propri scrittori non dovrebbe, allora, essere sospettato di stupidità?
Personalmente ritengo il sospetto assai fondato.
Tra i campi semantici della stupidità e dell’immoralità – da intendere in senso più ampio di quello oggi solitamente inteso, un po’ come “povertà di spirito”, non solo di “intelletto” – si estende un groviglio di identità e differenze. Il coappartenersi di stupidità e immoralità è indubbiamente vicino a quanto Erdmann, in un passo significativo della citata conferenza, esprime con le parole: la rozzezza “è la pratica della stupidità”. Dice: “Le parole non sono l’unica estrinsecazione di uno stato spirituale, che si manifesta anche nella pratica. Lo stesso vale per la stupidità. Non solo essere, ma agire da stupidi” – quindi la pratica della stupidità – “o la stupidità in azione, questo chiamiamo rozzezza”. Questa potente definizione ci insegna niente di meno che la stupidità è un errore del sentire – e la rozzezza lo è! Ciò ci riporta dritti al “disturbo affettivo” e al “disturbo dell’equilibrio affettivo”, cui avevo accennato in precedenza, senza poterne dare una spiegazione. Ma neppure le parole di Erdmann dicono tutta la verità. Infatti, anche prescindendo dal fatto che esse mirano unicamente al singolo uomo rozzo e zotico, contrapposto alla “cultura” e non abbraccia tutte le forme di applicazione della stupidità, la stupidità non è solo rozzezza e la rozzezza non è solo stupidità. Nel rapporto tra affetti e intelligenza, unificati nella “stupidità applicata”, restano molte cose da chiarire. In mancanza di meglio, dovremo ritornare agli esempi.

Per dare il giusto risalto ai contorni del concetto di stupidità, va innanzitutto indebolito il giudizio secondo cui la stupidità sarebbe esclusivamente o prevalentemente un deficit intellettuale. Infatti, come già detto, la rappresentazione più generale di cui disponiamo sembra essere quella dell’inibizione, di un minus, di certe attività sia fisiche sia spirituali. Nei dialetti delle nostre parti c’è un esempio molto significativo: per indicare la durezza d’orecchi, quindi un difetto fisico, si dice derisch o terisch, che suona molto vicino a törisch,folle”. Nell’uso popolare il rimprovero di stupidità è usato nello stesso senso. In gara il concorrente che cede nel momento decisivo o commette un errore dice in seguito: “Mi sono imbambolato” o “Non ci avevo più la testa”, anche se non è molto chiara la parte della testa nel nuoto o nella boxe.
Così tra ragazzi e compagni di sport chi si comporta in modo maldestro viene chiamato “stupido” anche se è Hölderlin. Ci sono certi rapporti d’affari in cui chi non è furbo e senza scrupoli passa per stupido.
Sono tutte stupidità che corrispondono a forme di intelligenza più antiche di quella riverita oggi. Se non sono male informato, ai tempi degli antichi Germani non solo le rappresentazioni morali ma anche i concetti di abile, saggio, esperto, cioè concetti intellettuali, sono nati in riferimento alla guerra e alla lotta. Insomma, ogni intelligenza ha la sua stupidità. Persino la psicologia animale ha scoperto nelle prove di intelligenza che a ogni “tipo di prestazione” corrisponde un certo “tipo di stupidità”.
Volendo trovare un concetto generalissimo di intelligenza, da questi paragoni emerge quello di abilità, mentre tutto ciò che non vi rientra potrebbe essere all’occasione detto stupido. In realtà è proprio così, anche se l’abilità propria di un certo tipo di stupidità non è mai riconosciuta come intelligenza. Quale abilità stia in primo piano dipende dalla forma di vita, che riempie i concetti di intelligenza e di stupidità dei contenuti propri di ogni epoca. In epoche di insicurezza personale sono l’astuzia, la violenza, l’acutezza sensoriale e la dotazione fisica a determinare il concetto di intelligenza. In epoche dalle concezioni di vita più spirituali o – con le purtroppo necessarie restrizioni – più borghesi, al loro posto subentra il lavoro di testa. Detto meglio, dovrebbe subentrare il lavoro spirituale superiore, ma con l’andar del tempo ha preso il sopravvento il lavoro intellettuale, scritto sul volto vuoto dell’umanità indaffarata dietro la fronte dura. Così oggi – e non potrebbe essere diversamente – intelligenza e stupidità si riferiscono meramente all’intelletto e al grado di abilità intellettuale, benché ciò sia tanto o poco unilaterale.
Il legame originario della parola “stupido” con la rappresentazione generale della mancanza di abilità – sia nel significato di mancanza di abilità in tutto sia nel significato di generica mancanza di abilità – ha una conseguenza giustamente impressionante: potendo significare l’incapacità generica, le parole “stupido” e “stupidità” possono
all’occasione saltar fuori al posto della parola che indica l’incapacità specifica. Questo è uno dei motivi per cui la reciproca accusa di stupidità è oggi enormemente diffusa. (E, in altro contesto, causa difficoltà a delimitare il concetto, come si vede dagli esempi). Si vedano le osservazioni a margine in romanzi pretenziosi, passati anonimamente tra le mani dei lettori di una biblioteca circolante. Lì, a quattr’occhi con l’autore, il lettore esprime il proprio giudizio preferibilmente con la parola “stupido” o equivalenti: “imbecille”, “assurdo”, “ineffabile stupidità” e simili. Queste sono anche le prime parole indignate della massa che affronta l’artista in rappresentazioni teatrali o in mostre e si scandalizza. Non bisogna dimenticare neppure la parola “kitsch”, tanto amata anche dagli artisti come primo giudizio, per quanto ne so, senza sapere definirne il concetto e chiarire il suo campo di applicazione, se non attraverso il verbo verkitschen, usato correntemente per “vendere sotto costo”, “svendere”. Kitsch significa perciò “merce da poco” e credo che alla parola si possa attribuire questo senso, naturalmente traslato in senso spirituale, ogni volta che inconsciamente viene usata bene.
Dato che svendita e ciarpame ricorrono nella parola “kitsch” principalmente attraverso il significato connesso di inadeguato e inutile, mentre non adeguatezza e inutilità formano il significato di base di “stupido”, non è esagerato affermare che noi tendiamo ad attribuire l’appellativo “in qualche modo stupido” a tutto ciò che non ci va bene – tanto più se, a prescindere dalla sua stupidità, facciamo finta di considerarlo spiritualmente elevato o bello! Per precisare quel “in qualche modo” è importante che l’uso di espressioni concernenti la stupidità sia intimamente pervaso da un secondo uso, che comprende le espressioni altrettanto imperfette relative al volgare e al moralmente riprovevole. Il che ci riporta a quanto già visto a proposito del comune destino dei termini “stupido” e “maleducato”. Infatti, non solo “kitsch”, espressione estetica di origine intellettuale, ma anche termini morali come “merda”, “odioso”, “orrendo”, “morboso”, “sfacciato” sono critiche d’arte e giudizi sulla vita in forma nucleare e non sviluppata. Forse queste espressioni, anche se usate indifferentemente, sono animate dalla tensione spirituale a significare una differenza. Allora, alla fine, al loro posto subentra l’esclamazione quasi senza parole “che volgarità!”, che sostituisce tutte le altre e pretende spartirsi il dominio del mondo con l’altra “che stupidità!”.
Infatti, le cose vanno così: le due espressioni possono di volta in volta prendere il posto delle altre, perché “stupido” veicola il significato generale di “incapace” e “volgare” nel senso di “contro la morale”. Origliando quel che oggi gli uomini dicono l’uno dell’altro, sembra che dalle reciproche foto di gruppo involontarie emerga uno sgradevole autoritratto in bianco e nero dell’umanità.
Forse vale la pena ripensarci. Indubbiamente i due termini rappresentano il gradino più basso di un giudizio incompiuto, di una critica inarticolata, che avverte che qualcosa non va, ma non sa dire cosa. È l’inizio e la fine di una replica, una sorta di “cortocircuito”. Lo si comprende meglio ricordando che, qualunque significato abbiano,
stupido” e “volgare” sono insulti. Come è noto, il significato di un insulto non sta tanto nel suo contenuto quanto nell’uso. Molti di noi possono amare gli asini, ma si offenderebbero a essere chiamati asini. L’insulto non sta per ciò che rappresenta, ma per un misto di sentimenti, intenzioni e rappresentazioni che l’insulto riesce tutt’al più a
segnalare, non a esprimere. Per inciso, lo stesso vale per le parole alla moda o straniere. Perciò sembrano insostituibili, anche se si possono sostituire benissimo. Per la stessa ragione nell’insulto ricorre qualcosa di inesprimibilmente inquietante, che riguarda l’intenzione, non il contenuto. Tutto ciò è massimamente evidente nelle parole di motteggio dei ragazzi. Uno dice “cespuglioso” o “Maurizio” e l’altro in base a corrispondenze segrete si incazza da bestia.
Quel che si può dire degli insulti, delle canzonature e delle parole alla moda, si può trasferire pari pari alle battute di spirito, alle frasi fatte o d’amore.
Ciò che accomuna parole tanto eteroclite è di essere al servizio di un affetto. Proprio perché sono imprecise e inappropriate, possono nell’uso rimuovere interi complessi di parole più calzanti, oggettive ed esatte. Chiaramente nella vita sentiamo qualche volta il bisogno di usarne e per questo va loro riconosciuto un valore. Ma quel che succede in questi casi è senza dubbio o stupido o, per così dire, segue le vie della stupidità. L’esempio più chiaro su cui si può studiare il fenomeno del “perdere la testa” è il panico. Se una persona è il bersaglio di qualcosa di troppo forte – o uno spavento o una pressione psicologica permanente – può succedere che “perda la testa”. Può mettersi a strillare come un bambino, fuggire o precipitarsi alla cieca nel pericolo, cadere preda di un impulso a spaccare tutto, o imprecare o piangere. Tutto sommato, al posto di un’azione finalizzata a uno scopo, come la situazione richiederebbe, compie una quantità di altre azioni apparentemente insensate, ma spesso realmente sensate, contrarie allo scopo. Questa forma di controgioco è nota come “attacco di panico”. Ma senza intendere l’espressione in senso troppo ristretto si può parlare di panico del furore, della bramosia e addirittura della tenerezza, e in tutti gli altri casi in cui uno stato di eccitazione è così violento da non riuscire a soddisfarsi se non in modo cieco e insensato. Che esista, poi, anche un panico del coraggio, distinto da quello della paura solo per gli effetti opposti, è stato da tempo osservato da uomini tanto valorosi quanto ricchi di spirito.
Quel che si verifica allo scatenarsi di un attacco di panico è dal punto di vista psicologico una sospensione dell’intelligenza e in generale delle funzioni psichiche superiori, sostituite da meccanismi psichici più antichi. Ma si può aggiungere che in questi casi alla paralisi e all’isolamento dell’intelletto non consegue automaticamente la caduta nel comportamento istintivo. Si arriva a un istinto di necessità ultima che impone all’azione le sue forme e cioè: confusione totale, assenza di ogni piano nonché abbandono apparente sia della ragione sia di ogni istinto di conservazione. Invece, c’è una ragione. Il suo piano inconscio è di sostituire alla qualità delle azioni la loro quantità. La non piccola astuzia di questa strategia si basa sulla probabilità che su cento tentativi casuali che fanno fiasco, almeno uno faccia centro. L’uomo che ha perso la testa o l’insetto che continua a intestarsi contro la metà chiusa della finestra, finché per caso non “finisce” in libertà, confusamente fanno quel che in modo calcolato fa la
tecnica di guerra, coprendo di proposito un obiettivo con raffiche di mitragliatrici e bombardamenti a tappeto o usa granate o bombe a grappolo.
In altre parole, ciò significa lasciare che un agire “voluminoso” prenda il posto di un agire mirato. Nulla è più umano che sostituire alla qualità delle parole e delle azioni il loro insieme.
Nell’uso di parole poco chiare c’è qualcosa di simile all’uso di molte altre parole. Infatti, quanto più una parola è poco chiara, tanto maggiore è l’estensione di ciò a cui si può riferire. Analogo discorso per le parole non oggettive.
Se entrambe sono stupide, allora la loro stupidità è parente dello stato di panico. Anche l’uso smodato di questo e analoghi rimproveri non è molto lontano dal tentativo di salvarsi l’anima con metodi primitivi che possiamo a ragione dire patologici. In realtà, si può riconoscere come uso corretto del rimprovero che qualcosa sia veramente stupida o volgare non solo la sospensione dell’intelligenza ma anche la tendenza cieca alla distruzione insensata o alla fuga. “Stupido” e “volgare” non sono solo parole di insulto, ma corrispondono a un’intera scarica di insulti. Quando non riescono più a esprimere qualcosa, si è vicini alle vie di fatto. Tornando a un esempio già fatto, i quadri sono presi a ombrellate (al posto del pittore), i libri sono scaraventati per terra, perché perdano il loro veleno. Ma in precedenza esiste anche un senso di impotenza da cui ci si deve liberare. “Quasi si soffoca” dalla rabbia. “Le parole vengono meno”. Si deve “prender aria”. Tale è il livello di perdita del linguaggio e del pensiero che precede la frantumazione! Corrisponde a un pesante stato di inadeguatezza. In conclusione, lo sfogo è introdotto da parole che lo tradiscono: “Alla fine la cosa è diventata troppo stupida”. Ma la cosa è l’uomo stesso. In tempi in cui si valorizza il darsi energicamente da fare non bisogna dimenticare cosa può sembrare così simile da prenderlo per quello.

Signore e signori, oggi si parla a più riprese di crisi di fiducia dell’umanità o, meglio, di crisi della fiducia finora riposta nell’umanità. Potremmo anche chiamarla panico, che è sul punto di subentrare alla certezza di essere in grado di condurre i nostri affari in libertà e razionalità. Ma non facciamoci illusioni. Entrambi questi concetti morali o estetico-morali di libertà e razionalità, che dai classici tempi del cosmopolitismo tedesco sono giunti sino a noi come segni distintivi della dignità umana, dalla metà del diciannovesimo secolo o poco dopo non sono più tanto in salute. Poco per volta sono andati “fuori corso”. Non si sa più come “pelarli”. Li si è lasciati appassire, più per il
successo dei loro avversari che per l’insuccesso dei loro amici. E non facciamoci un’altra illusione. Né noi né chi verrà dopo di noi tornerà mai a quelle rappresentazioni così come erano prima. Il nostro compito e il senso delle prove, che si imporranno allo spirito, sarà piuttosto quello, dolorosamente promettente per ogni generazione, di
attuare con le minori perdite possibili il sempre più necessario e ancor più desiderato passaggio verso il nuovo. A maggior ragione, una volta sprecato il passaggio, che deve avvenire al momento giusto, verso idee tradizionali-innovative, occorrono rappresentazioni ausiliarie di ciò che è vero, ragionevole, valido, intelligente e di riflesso anche di ciò che è stupido.

Ma quale concetto, seppure parziale, si può formulare quando i concetti stessi di intelletto e di saggezza vacillano? Per dire in quale misura le concezioni mutino con i tempi vorrei addurre un semplice esempio. In un manuale di psichiatria a suo tempo molto noto viene riportato come caso di imbecillità la risposta alla domanda “Cos’è la giustizia?” “Che sia punito l’altro”, mentre oggi proprio questa posizione è discussa come base per una concezione del diritto.
Credo che le più modeste considerazioni non possano arrivare a nessuna conclusione, senza almeno accennare a un nucleo [di verità] indipendente dalle trasformazioni nel tempo. Il che porta a ulteriori questioni e considerazioni.
Non ho alcun diritto di spacciarmi per psicologo e non voglio neppure farlo, ma uno sguardo almeno di sfuggita a questa scienza è la prima cosa da cui possiamo nel nostro caso sperare aiuto. La vecchia psicologia distingueva tra sensazioni, volontà, sentimento e facoltà di rappresentazione o intelligenza. Per lei era chiaro che la stupidità fosse un grado ridotto di intelligenza. L’odierna psicologia ha spogliato della sua importanza la distinzione elementare tra facoltà psichiche e ha riconosciuto l’interdipendenza e reciproca compenetrazione delle diverse prestazioni psichiche, rendendo molto meno facile rispondere alla domanda sul significato della stupidità. Naturalmente anche secondo l’attuale concezione esiste una certa autonomia della prestazione intellettuale, ma anche nella situazione più tranquilla l’attenzione, la comprensione, la memoria e tutto il resto che appartiene all’intelletto dipendono dalla qualità dell’indole. A ciò si aggiunga che nelle esperienze forti, anche spirituali, intelligenza e affetto si compenetrano ulteriormente in modo quasi inestricabile. La difficoltà a tenere insieme ma separati concettualmente intelletto e sentimento, si riflette naturalmente sulla concettualizzazione della stupidità. Per esempio, la psicologia medica descrive il pensiero del debole di mente con parole del tipo: povero, impreciso, incapace di astrazione, poco chiaro, lento, distraibile, superficiale, unilaterale, rigido, prolisso, incostante, frammentato, lasciando intendere che queste caratteristiche rimandano in parte all’intelletto e in parte al sentimento. Non si sbaglierebbe allora a dire che stupidità e intelligenza dipendono sia dall’intelletto sia dal sentimento. Si può lasciare agli addetti ai lavori stabilire se prevalga più l’uno o l’altra, se per esempio, nell’imbecillità ci sia più debolezza di intelligenza o paralisi dei sentimenti, come pretendono alcuni apprezzati rigoristi.
Noi dobbiamo cavarcela come possiamo.
Nella vita quotidiana per stupido si intende uno “un po’ debole di testa”. Ma anche diverse deviazioni psichiche e spirituali possono ostacolare, intralciare, e portare all’errore un’intelligenza congenitamente indenne, fino al punto per cui la lingua dispone solo della parola “stupidità”. Questa parola abbraccia, quindi, due situazioni molto diverse: l’autentica e semplice stupidità e la stupidità che un po’ paradossalmente è segno di intelligenza. La prima è dovuta alla debolezza intellettuale, la seconda a una debolezza intellettuale, che è tale solo rispetto a una cosa qualunque. L’ultima è quella di gran lunga più pericolosa.
La stupidità autentica è un po’ dura di comprendonio, come si dice. È povera di idee e parole, nonché maldestra nell’usarne. Preferisce le cose comuni, che continuamente ripetute le si imprimono bene in testa. Se afferra qualcosa, non se la fa scappare. Non analizza né sottilizza. Sue sono niente di meno che le rosee guance della vita! È vero che pensa in modo vago e basta una nuova esperienza a far tacere il suo pensiero, ma è anche vero che preferisce ciò che si può sperimentare con i sensi o contare sulle dita. In una parola, è la cara “limpida stupidità” che, se non fosse a volte così credulona, confusionaria e addirittura incorreggibile testona, da portare alla disperazione, sarebbe addirittura graziosa.
Non voglio inibirmi il piacere di abbellire questo quadro con esempi, tratti dal manuale di psichiatria di Bleuler, che ne evidenziano altri aspetti. Un imbecille esprime la situazione, che noi liquideremmo con la formula “medico al letto del malato”, con queste parole: “un uomo che tiene l’altro per la mano, che è a letto; poi in piedi c’è una suora”.
Così si esprime un pittore primitivo! Una domestica un po’ confusa pensa a uno scherzo se le si dice di mettere i suoi risparmi in banca, dove danno interessi. “Nessuno – risponde – sarebbe così stupido da pagare per conservarmi del denaro”! Esprime così una mentalità cavalleresca, un rapporto con il denaro, che da giovane riscontravo in distinti signori anziani. Infine, di un terzo imbecille si registra come sintomatica l’affermazione che un pezzo da due marchi vale meno di un pezzo da un marco e due mezzi. “Infatti – spiega – lo si deve cambiare e allora si ricava di
meno”!
Spero di non essere l’unico imbecille in questa sala a concordare di cuore con questa teoria del valore per coloro che non sanno stare attenti mentre cambiano denaro. Ma, per tornare al rapporto con l’arte, la semplice stupidità è spesso una vera artista.
Invece di rispondere alla parola-stimolo con un’altra parola, secondo la pratica [junghiana] una volta molto comune, risponde con intere frasi. Si dica quel che si vuole, queste frasi hanno in sé qualcosa di poetico. Trascrivo, dopo aver indicato la parola stimolo, alcune di queste risposte:
“Accendere: il fornaio accende la legna.
Inverno: è fatto di neve.
Padre: una volta mi ha buttato giù dalle scale.
Nozze: servono a divertirsi.
Giardino: in giardino il tempo è sempre bello.
Religione: quando si va in chiesa.
Chi era Guglielmo Tell: è stato rappresentato nel bosco; c’erano donne e bambini travestiti.
Chi era Pietro: ha cantato tre volte.
L’ingenuità e la corposità di queste risposte; la sostituzione di idee elevate con semplici storielle; l’importanza data narrando a particolari superflui, a circostanze accessorie e a orpelli; la condensazione abbreviante, come nell’esempio di Pietro; tutte queste sono pratiche arcaiche di poesia. Credo che il loro uso smodato, oggi di moda,
avvicini il poeta all’idiota. In ogni caso non si può non riconoscere che nell’idiota ci sia del poetico. Allora si spiega come mai la letteratura rappresenti l’idiota con particolare trasporto.
In stridente contrasto con la stupidità autentica sta quella pretenziosa. Non è tanto mancanza di intelligenza, quanto il suo venir meno, quando si impegna in prestazioni che non sono alla sua portata. Può avere tutte le peggiori qualità dell’intelletto debole, con in più quelle derivanti da un’indole non equilibrata, immatura e incostante, in breve malsana. Poiché non esiste l’indole “normale”, nella deviazione dalla sanità si esprime, a dire il vero, l’insufficiente cooperazione tra unilateralità del sentimento, da una parte, e incapacità dell’intelletto a dominarla, dall’altra. Questa superiore stupidità è la vera malattia della formazione culturale  Descriverla è quasi un compito infinito. Tocca i vertici dello spirito. La stupidità autentica è un’artista silenziosa, mentre quella intelligente mobilita la vita dello spirito, ma producendo soprattutto instabilità e sterilità. Anni addietro ne scrissi in questi termini: “Non c’è un solo pensiero importante che la stupidità non sprechi applicandolo. La stupidità si muove dappertutto e può vestire tutti i vestiti della verità. Per contro, la verità ha una sola veste e una sola via ed è sempre in svantaggio”. La stupidità di cui sto parlando non è una malattia mentale ma una malattia dello spirito, la più pericolosa per la stessa vita.
Ciascuno di noi dovrebbe certamente stanarla in se stesso, senza aspettare di riconoscerla dalle grandi esplosioni storiche. Ma come riconoscerla? Quale marchio a fuoco imprimerle che renda impossibile non riconoscerla? Per i casi che la concernono la psichiatria oggi si avvale come principali contrassegni dell’incapacità a orientarsi nella vita, del fallimento in tutti i compiti vitali o del fallimento improvviso là dove nessuno se lo aspettava. La psicologia sperimentale, che ha a che fare prevalentemente con sani, dà una definizione analoga. “Chiamiamo stupido il comportamento che non riesce a portare a termine una prestazione, per cui esistono tutte le condizioni, tranne quelle personali” – scrive un noto esponente di una delle più recenti scuole di questa disciplina. La capacità di comportamento finalizzato alla cosa, quindi la bravura, non lascia nulla a desiderare per riconoscere i “casi clinici” o per valutare il lavoro sperimentale sulle scimmie, ma i “casi” liberamente circolanti richiedono considerazioni supplementari, perché non è sempre chiaro cosa si debba intendere per “risultato” giusto o sbagliato. In primo luogo, nella capacità di comportarsi sempre da uomo esperto della vita in date circostanze c’è tutta l’ambiguità dell’intelligenza e della stupidità. Infatti, il comportamento “adeguato alla cosa” è duplice: o si usa la cosa a proprio vantaggio o si agisce a vantaggio della cosa. Di solito chi adotta un comportamento giudica stupido chi adotta l’altro. (Ma dal punto di vista medico è stupido solo chi non fa né l’uno né l’altro). In secondo luogo, non si può negare che spesso è necessario adottare un comportamento inadeguato, addirittura controproducente. Infatti, oggettività e impersonalità, soggettività e inadeguatezza, hanno delle affinità. La soggettività spensierata è ridicola, ma il comportamento totalmente oggettivo è naturalmente impossibile e da vivere e da pensare. Compensare l’uno con l’altro è uno dei compiti più difficili della nostra civiltà. Infine, si dovrebbe obiettare che nessuno si comporta sempre in modo così intelligente come dovrebbe e, anche se non sempre, ognuno di noi di tanto in tanto è stupido.

Bisogna poi distinguere tra fallimento e incapacità, tra stupidità occasionale o funzionale e stupidità costante o costituzionale, tra errore e mancanza di senno. Questo è un punto molto importante, date le condizioni di vita attuali, così complicate, difficili e confuse che la stupidità occasionale del singolo diventa facilmente la stupidità costituzionale della collettività.
Ciò alla fine porta l’indagine fuori dal campo delle qualità personali verso l’idea di una società spiritualmente difettosa. Naturalmente non si può trasferire alla società cosa avviene realmente a livello psicologico nell’individuo, quindi neppure le malattie mentali né la stupidità, ma si potrebbe da più punti di vista parlare di “imitazione sociale di difetti spirituali”.
Gli esempi ci invadono. Queste considerazioni supplementari vanno in modo naturale al di là de i limiti della spiegazione psicologica. La psicologia ci insegna che il pensiero intelligente possiede determinate qualità come chiarezza, precisione, ricchezza, fluidità non senza solidità e molte altre, che si potrebbero enumerare. Sono qualità in parte innate, in parte acquisite attraverso le conoscenze che la dotazione intellettuale fa proprie. Buon intelletto e testa fine significano quasi la stessa cosa. Non c’è altro da fare che vincere l’inerzia costituzionale, cosa che si può anche imparare. La buffa espressione “sport mentale” non dice troppo male la vicenda.
Per contro, la stupidità intelligente ha più che l’intelletto come contropartita lo spirito e l’indole, a patto di non considerarla un mucchietto di sentimenti. Pensieri e sentimenti si muovono insieme. In essi si esprime lo stesso uomo. Perciò concetti come angusto, ampio, mobile, semplice, fedele si applicano sia al pensiero sia al sentimento. Il rapporto risultante, benché non del tutto chiaro, basta ad affermare che dell’indole fa parte anche l’intelletto e che il sentimento non è estraneo all’intelligenza e alla stupidità.
Contro questa stupidità valgono l’esempio e la critica.
La concezione qui presentata si discosta dall’opinione corrente, non del tutto falsa ma estremamente unilaterale, secondo cui l’indole autentica non avrebbe bisogno dell’intelletto, considerato come qualcosa che ne comprometterebbe la purezza. In verità, in certi uomini semplici certe auspicabili qualità come fedeltà, costanza e
purezza dei sentimenti e simili si presentano allo stato puro, ma solo perché la concorrenza delle altre qualità è debole. Un caso limite ci è capitato davanti sotto forma di amabile debolezza mentale. Lungi da me l’idea di svalutare con queste espressioni l’indole buona e retta. La sua mancanza costituisce buona parte della stupidità elevata!
Ma oggi è ancora più importante anteporre al concetto di “buono” quello di “significativo” – cosa che ritengo francamente utopistica.
Il significativo riunisce la verità, che possiamo percepire, con le qualità del sentimento sul quale facciamo affidamento per qualcosa di nuovo, per una nuova comprensione, ma anche per una decisione e una rinfrescata perseveranza per qualcosa, che abbia sia uno spirito sia un’anima ed “esiga” da noi e dagli altri un certo comportamento. Direi – e in rapporto alla stupidità questo è il punto più importante – che il significativo è accessibile sia alla critica dell’intelletto sia alla critica del sentimento. Il significativo è anche l’antagonista comune della stupidità e della rozzezza. Nel concetto di significativo si scioglie il generale fraintendimento per cui oggi gli affetti schiacciano la ragione invece di farla volare.
Ma basta di questo. Forse ho detto più di quel di cui potrei responsabilmente rispondere! Se però dovessi aggiungere ancora qualcosa, potrebbe essere solo questo: in tutto quanto ho detto non ho dato un segno sicuro per riconoscere e distinguere ciò che è significativo, senza dire neppure che non è facile trovarne uno soddisfacente.

E proprio questo mi porta all’ultimo e più importante rimedio contro la stupidità: la modestia. Occasionalmente siamo tutti stupidi. Occasionalmente dobbiamo tutti agire alla cieca, almeno in parte, altrimenti il mondo si fermerebbe. Se, dati i pericoli della stupidità, qualcuno volesse dedurre la regola: “Astieniti dal giudicare e dal decidere su ciò che non comprendi abbastanza”, ci bloccheremmo. Ma questa situazione, che oggi suscita tanto scalpore, è simile a quella cui siamo da tempo avvezzi nella sfera intellettuale. Infatti, il nostro sapere e il nostro potere sono incompleti. In ogni scienza siamo costretti a formulare giudizi fondamentalmente avventati e precipitosi. Ma con sforzo abbiamo imparato a mantenere gli errori entro limiti noti e occasionalmente a migliorare le stime, sino al punto da correggere le nostre azioni. Nulla vieta di trasferire questo modo esatto e orgogliosamente umile di giudicare e di fare ad altri campi. Credo nel principio: “Fai bene quanto puoi e male quanto devi”, sempre consapevole del margine d’errore del tuo fare. Saremmo già a metà strada verso una forma di vita piena di speranze.
Con questi accenni sono giunto già da un pezzo alla fine delle mie considerazioni, che vogliono soltanto essere uno studio preliminare, come ho già detto mettendo le mani avanti. E con il piede sul confine dichiaro di non essere più in grado di proseguire.
Un passo più in là e usciremmo dal dominio della stupidità, che anche dal punto di vista teorico è molto vario, e metteremmo piede nel regno della saggezza, un territorio inospitale e in generale evitato.

Robert Musil, “Discorso sulla stupidità”, Conferenza tenuta a Vienna l’11 marzo 1937

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