Ne parliamo con il Prof. Alfonso Pascale, Docente di Agricoltura Sociale presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata
Il 4 maggio è ormai alle porte e gli interrogativi e le aspettative degli italiani si mescolano ripetutamente, tra un discorso di Conte ed un servizio al telegiornale. Sappiamo che dobbiamo ripartire, dobbiamo ricominciare, ma non proprio da dove avevamo lasciato… la sopravvivenza al cambiamento deve passare dalla capacità di adattarsi ad esso, senza resistergli.
Così la quarantena ha generato in ognuno di noi nuove abitudini, nuovi modi di pensare, nuovi modi di relazionarci con l’altro, persino nuovi modi di acquistare beni primari.
A tal proposito, ad esempio, hanno iniziato a diffondersi gli acquisti di generi alimentari presso le piccole realtà territoriali, aziende e cooperative preesistenti al Covid19, ma che ora sembrano aver acquisito un rilievo diverso. Mai mi sarei sognata che persino una come me, votata al cibo-spazzatura, consumatrice incallita delle insalate in busta (come se la madre terra le servisse già confezionate), potesse ospitare nel suo frigo (un tempo triste e anemico) cicoria, agretti, finocchi, cespi di lattughe e altre forme commestibili dall’allegro colorito verdognolo.
Abbiamo scelto di approfondire il tema con Alfonso Pascale, docente in Agricoltura Sociale presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e che, dal 2005 al 2011, è stato anche presidente dell’associazione “Rete Fattorie Sociali”.
Professor Pascale, quali sono stati gli effetti del coronavirus su queste realtà e sui vari consumatori?
“Gli aspetti cruciali che vorrei evidenziare sono un po’ lo specchio di questo presente pandemico: in questi giorni stiamo vivendo un’esperienza di riscoperta del senso del luogo e dell’importanza, per il nostro benessere e per la nostra vita, di avere radici. In parole povere, stiamo rivalutando l’importanza del territorio e del rapporto con esso. Difatti, non esiste una comunità senza un territorio.”
Ma cos’è il territorio? Cosa intende esattamente?
“La parola, in un certo senso, ripercorre la storia e le origini dell’uomo. Insieme all’invenzione dell’agricoltura, infatti, ha rappresentato l’inizio dei primi veri insediamenti stanziali. Si tratta di una storia antica, trascritta nel nostro dna e che sembra riemergere proprio ora, insieme a tutte le nostre fragilità e vulnerabilità. È una storia che, in piena globalizzazione, avevamo rimosso, come se non fosse possibile la coesistenza di più forme di relazione, economiche e sociali, come se la globalizzazione dovesse tradursi in un totale abbandono delle nostre radici, del nostro territorio per l’appunto. Accanto ai supermercati possono convivere le vendita dirette, i mercatini, le filiere corte. Ciò che è veramente cruciale, in queste realtà così prossime al cittadino, è l’intimità della relazione che si costruisce tra il produttore ed il consumatore: nasce un vero e proprio scambio culturale e, genuinamente, ci si arricchisce dell’esperienza dell’altro. Ecco, appena ci sarà la ripresa, potremo incominciare a sperimentare queste nuove forme di stare insieme, perché saranno queste a permetterci di ricostituire la nostra comunità. La società che ci siamo lasciati alle spalle, prima di chiuderci nell’isolamento forzato, era malfunzionante e male organizzata: la categoria degli esclusi, dei non autosufficienti, degli emarginati ha pagato il prezzo più alto; i medici si sono trovati a scegliere tra chi dover curare e chi no. Dobbiamo ripensare a come creare un’effetiva eguaglianza sociale.”
Come realizzare tutto questo? Da cosa possiamo partire?
“Credo sia doveroso porre l’accento su un’altra questione, cioè la partecipazione attiva dei cittadini all’interno della comunità, perché essa si basa proprio sulle relazioni che intercorrono tra i cittadini stessi, che si auto organizzano nella gestione dei beni comuni.”
Concretamente, cosa intendiamo quando parliamo di beni comuni?
“Ovviamente di tutti quei beni di cui noi usufruiamo collettivamente, privi però di quel senso di responsabilità nel gestirli nel modo adeguato per poterli conservare e valorizzare. Crediamo, erroneamente, che il bene comune sia esclusivamente un affare di competenza dello stato (o suoi affini), mentre il termine comune non fa altro che rammentarci l’appartenenza alla comunità. Il singolo è chiamato a partecipare al benessere del condominio che abita, delle strade che percorre, delle piazze che vive, delle aiuole e delle tante oasi verdi, insomma, di tutto quello che lo riguarda e di cui usufruisce.
Anche il considerare il negozietto sotto casa è un modo per prendersi cura della propria comunità.”
A questo proposito, le vorrei chiedere cosa pensa al riguardo di una recente iniziativa che coinvolge due quartieri della nostra città: Garbatella e Centocelle. Tanti piccoli commercianti che sono stati costretti a interrompere le loro attività, si sono stretti in un abbraccio solidale, cercando la collaborazione dei cittadini. È così che prende corpo l’iniziativa “Adotta un negozio”.
“Ecco, questo è un esempio concreto di quello che intendo con il pensare a modi nuovi e auspicabili per interagire con gli altri e sostenere e potenziare il quartiere. Ricordiamoci che è proprio dalle relazioni che nascono le economie e, progressivamente, nuovi posti di lavoro, nuove ricchezze. Intorno ad un’attività economica possono svilupparsene delle altre. Una strada percorribile potrebbe essere quella di fare una progettualità a livello locale, mettendo insieme l’economia già esistente, rafforzandola e creando altre realtà possibili. La sovranità di un cittadino non si esprime solo andando a votare, ma vivendo pienamente i nostri diritti e doveri come elementi propulsivi per lo sviluppo della società stessa.”
Aspettando il 4 maggio, ci auguriamo allora di trovare tutti l’impegno necessario per favorire nuove modalità di venirci in aiuto, riscoprendo modi alternativi di pensare allo sviluppo, uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale.