A 12 anni per iniziare a lavorare avevo falsificato i miei documenti, perché per essere assunti occorreva averne 14. Avevo trovato lavoro in Vicolo della Ranocchia nel quartiere San Lorenzo, in una fabbrica di sacchi di carta, che venivano riempiti di sabbia e portati al centro di Roma per rivestire i monumenti, le fontane e le chiese, così da proteggerli dai bombardamenti. Noi giovanissimi dovevamo lavorare per aiutare le nostre famiglie che erano numerose, io ero la terza d’otto figli. A Roma c’era la fame, mancavano il pane, il latte, i generi alimentari erano tesserati, c’era la borsa nera e le mamme non avevano i soldi per sfamare i figli. In fabbrica ho cono-sciuto Ida e suo fratello Enrico, che aveva due anni più di me, con il quale mi sono fidanzata. Entrambi eravamo comunisti, discutevamo delle tragedie che il fascismo aveva provocato e di come si poteva salvare l’Italia. Molto maturi per la nostra età, la guerra ci ha fatto crescere in fretta.
Un giorno del 1943, non ricordo la data precisa, Ida è venuta a lavorare da sola. Preoccupata le chiesi come mai Enrico non era con lei; mi rispose: “Non è venuto perché è stato preso, l’hanno portato via”. Dunque, Enrico fu arrestato a Pietralata dove abitava, non a San Lorenzo dove i fascisti non venivano, avevano paura dei sovversivi. Fu una spiata, era stato sorpreso mentre attaccava i manifesti ed altri facevano le scritte contro la guerra. Erano sospettati perché il primo maggio avevamo fatto sventolare le bandiere rosse sui ponti delle ferrovie a Portonaccio, a Porta Maggiore e nelle stazioni Tiburtina, Prenestina, Tuscolana, Ostiense e Trastevere; l’obiettivo era quello di far vedere ai viaggiatori che a Roma c’era l’antifascismo.
Ricordo mia madre che insieme con altre donne durante l’inverno tingeva di rosso le lenzuola che venivano tagliate e cucite, preparavano le bandiere per il primo maggio, per ricordare a tutti la festa del lavoro proibita dal fascismo.
Enrico venne condotto al carcere correzionale di via dei Sabelli. Dopo circa una settimana Ida m’informa del colloquio che sua madre ha avuto con lui: “Pensa ha mandato a dire che vuole che gli portiamo dei quaderni”. Sorpresa rispondo: “Ma che ci fa con un quaderno, che non sa scrivere?”. Insiste: “Ha detto che in carcere c’è un certo Mimmo, studente universitario che insegna a leggere e scrivere a lui ed a altri ragazzi analfabeti”.
Eravamo molto in pensiero, a noi faceva piacere portargli i quaderni e le matite che avevamo comprato con una colletta tra compagni di lavoro in maggioranza donne, ma temevamo che le guardie non li prendessero. Sapevamo che riempivano di botte i detenuti tutti minorenni.
“Andiamo al correzionale” dissi: “nella peggiore delle ipotesi ce li restituiscono”. Il giorno successivo con il cuore in gola siamo andate, davanti a noi hanno numerato le pagine dei quaderni e messo un timbro sulla copertina. Ci ammonirono: “C’è la censura, non devono strappare i fogli, né far uscire cose scritte altrimenti sarebbero stati severamente puniti”.
Dopo un paio di mesi molti giovani furono rilasciati. Fu un grande giorno per tutti noi ed Enrico ci presentò Massimo Gizzio, il “suo maestro” così lo chiamava, un ragazzo più grande di noi. Aveva 18 anni, faceva il secondo anno di legge, era di famiglia borghese, ma orgoglioso d’essere comunista. Ci salutammo: “Ci rivedremo ancora – disse – mi interessa che questi ragazzi imparino a leggere”.
Mimmo rimase legato ad Enrico, si vedevano spesso, avevano organizzato un corso per analfabeti alla borgata Pietralata facendovi partecipare giovani e ragazze anche d’altre borgate, pure Ida imparò a leggere. Le lezioni si svolgevano nel pomeriggio presso l’oratorio che il Parroco antifascista aveva messo a disposizione.
Per Massimo conoscere le borgate fu una rivelazione, scoprì un’altra Roma, significava per lui scontrarsi con la miseria, vedere baracche fatiscenti, senz’acqua, senza luce, dormitori pubblici pieni d’insetti e tanti bambini scalzi ed affamati. Tornerò a parlare di Mimmo in seguito, perché prese parte alla Resistenza.
Una delle cose più tremende della Seconda Guerra mondiale sono stati i bombardamenti aerei, iniziati dai tedeschi sulla Polonia e sull’Inghilterra, che hanno causato un gran numero di vittime civili. Per ritorsione gli anglo-americani colpirono duramente le città tedesche e quelle italiane.
Roma non si aspettava la pioggia di bombe del 19 luglio 1943, specie su San Lorenzo, che hanno provocato migliaia di morti. Il dolore popolare e le proteste contro la guerra hanno contribuito alla caduta di Mussolini.
Anche dopo l’8 settembre sono continuate le incursioni aeree sui nodi ferroviari Tiburtino-Casilino-Prenestino, quindi a Casalbertone, dove sono stati distrutti alcuni palazzi vicino alla mia abitazione, con decine di morti. Ho visto cose terribili, non riesco a dimenticare il piedino di un neonato che sbucava dalla copertina in mezzo alle macerie. Ho assistito purtroppo anche al saccheggio degli “sciacalli” nelle abitazioni colpite, a volte calpestando i cadaveri.
Vi parlo del fatto per me più doloroso, dovuto alle incursioni aeree. Avrei preferito mantenere un intimo silenzio, ma una ragazza mi ha chiesto cosa è successo del mio primo amore, Enrico. Quando ci siamo conosciuti io avevo 13 anni e lui 15, la guerra e la lotta contro il fascismo ci hanno reso più maturi e legati tra noi. Come già ho detto, lavoravamo in una fabbrica di sacchi per il cemento a Vicolo della Ranocchia. Nel marzo 1944 un ennesimo attacco aereo diurno costrinse le famiglie a scendere nella cantina di un palazzo, che era un precario rifugio. I bambini spaventati chiedevano dell’acqua, non potevo sentirli piangere. Proposi ad Enrico d’andare alla fontanella per riempire un fiasco impagliato; mentre lui lo reggeva sul fondo, io tenevo il collo accostato al debole getto dell’acqua.
In quel momento vedemmo un aereo scendere in picchiata per lanciare verso di noi “spezzoni incendiari”, proiettili di fuoco destinati alle persone. Le ultime parole di Enrico furono: “Adesso moriamo!”. Ho sempre negli occhi la visione del mio fidanzatino che ardeva come una torcia, mentre io venivo scagliata lontano da lui, ferita leggermente ad una mano dalla rottura del fiasco.
La mia reazione fu d’enorme dolore e di un senso di colpa, che per tutta la vita mi ha accompagnato, perché mia era stata la decisione d’andare a prendere l’acqua. La mamma e la sorella di Enrico hanno cercato di conso-larmi, dicendomi che la responsabilità dei bombardamenti era di Mussolini che aveva voluto la guerra.
Ritorno sulla storia d’allora, perché il 25 luglio del 1943 finalmente era caduto il regime fascista. Nei giorni suc-cessivi si sono aperte le porte delle carceri ed i prigionieri politici hanno potuto riabbracciare i loro cari; anche gli uomini e le donne costretti al confino tornarono alle loro case.
La guerra, però, non era finita: Badoglio annunciò l’entrata in vigore dell’armistizio; il Re ed i capi militari fuggirono da Roma. Gli alleati tedeschi divennero l’esercito d’occupazione e la Wehrmacht passò subito all’azione contro i soldati italiani lasciati allo sbando senza ordini, quasi sempre abbandonati dai comandanti. Furono internati in Germania 600.000 militari.
Mussolini, prima fatto arrestare dal Re, poi liberato dai paracadutisti tedeschi in Abruzzo a Campo Imperatore (Gran Sasso) e portato in Germania, il 25 novembre del ‘43 fonda la Repubblica sociale italiana e si insedia a Salò.
La popolazione italiana era sconvolta, molti trasfor-marono il loro antifascismo in lotta armata.
Dopo l’8 settembre le donne di Roma si sono subito organizzate per salvare i soldati dai rastrellamenti tede-schi, per farli tornare alle loro case o per rifugiarsi sui monti. Se i soldati sbandati venivano presi li avrebbero deportati in Germania, le donne li lasciavano entrare in casa per farli mangiare e per cambiare la loro divisa con abiti borghesi.
Di fronte all’ingiustizia, alla ferocia, le donne italiane fecero tutte la loro scelta con coraggio e consapevolezza e con l’inizio della Resistenza entrano da protagoniste nella storia d’Italia, a testa alta, come fattore decisivo creano una loro specifica organizzazione di lotta: i Gruppi di Difesa della Donna che riuniscono le militanti dei partiti democratici e le antifasciste d’ogni ceto. Esse, si può ben dire, sono state l’anima e il cuore della Resistenza, senza la loro ampia partecipazione, senza la loro solidarietà, il movimento partigiano non avrebbe potuto avere lo slancio e la solidità che ebbe.
Accanto all’operaia e alla contadina, troviamo l’intellettuale e la casalinga, l’artigiana e la bottegaia, la maestra e l’impiegata: diversi sono per ciascuna, l’ambiente, la mentalità, l’educazione. Diverso è il modo in cui alla Resistenza sono giunte.
Cosa sia stata la Resistenza per le donne e le ragazze lo scrive Ada Marchesini, dirigente partigiana, moglie di Piero Gobetti, giornalista liberale assassinato a 26 anni dai fascisti.
L’operaia aveva una coscienza di classe, assorbita dall’atmosfera familiare o formatasi nella dura esperienza quotidiana della fabbrica. Sicuramente ancorata alla soli-da realtà del lavoro, in pratica al fascismo aveva resistito anche prima, durante il ventennio, non lasciandosi impaurire dalle minacce né corrompere dalle lusinghe del regime. Nessuna meraviglia quindi che, quando la Resistenza da disarmata si fece armata, ella prendesse subito il suo posto in prima fila; e che, cadendo, si comportasse con la consapevolezza della gloria oltreché del dovere del proprio sacrificio.
La contadina invece, vissuta sempre nel suo villaggio tra i monti – a volte i quei villaggi che la neve isola per mesi interi e cui le notizie giungono come attenuate dal ritardo e dalla lontananza – spesso ignorava addirittura i termini della lotta. E tuttavia, quando il soldato fuggiasco, dopo l’8 settembre, bussò alla sua porta, non ebbe un attimo d’esitazione: lo nutrì, lo rivestì, lo nascose. E non solo per un impeto di momentanea, femminea pietà. Istintivamente aveva fratto la sua scelta; e sulla strada intrapresa quel giorno, continuò perseverante, senza tentennamenti: sino alla fine. Tutte incominciarono modestamente come collaboratrici, fornendo ai Partigiani cibo, indumenti, il ricovero della propria casa. Molte non fecero altro e lo pagarono con la propria vita. Alcune più audaci si offrirono di portare un messaggio ad una formazione in pericolo; e così bene assolsero il loro compito che presto divenne un’abitudine normale. Furono le contadine ad affrontare quotidianamente i blocchi portando nella gerla, sotto il fascio dell’erba o il fastello di legna, ogni sorta di cose, a volte addirittura pezzi d’una mitragliatrice smontata. Onnipresenti, erano pressoché invisibili tanto intimamente appartenevano all’ambiente; e il nemico impotente ad infrangere l’incubo di questa ostilità senza volto, incapace di spezzare la complicità protettiva che gl’impediva di raggiungere i Partigiani, dava sfogo al suo furore incendiando, massacrando. Ma anche in quei momenti terribili, tra il crepitar delle fiamme che ardevano le loro case, e il muggir disperato degli armenti che costituivano tutta la loro ricchezza, di fronte alla follia omicida della rappresaglia, (Pietransieri Marzabotto, S. Anna di Stazzema per fare un esempio), non ci fu in tutte le nostre valli, una sola donna che tradisse, che deviasse, che anche soltanto implorasse. Ignoranti d’ogni retorica, le donne dei nostri villaggi, caddero sostenute semplicemente dalla loro grandezza umana.
Tra le intellettuali, molte erano antifasciste, o per tradi-zione di famiglia, o per l’influenza di un maestro o per preparazione culturale Ma il loro antifascismo era stato prima essenzialmente teoria, negazione: insofferenti delle pagliaccesche esteriorità del regime, ne avevano fatto spesso una questione più di gusto che di sostanza trascurando di approfondire le ragioni della propria ripugnanza. La tragica realtà della guerra e dell’occupazione le richiamò ai lati essenziali, anche se più umili dell’esistenza, le costrinse a scendere dalla loro torre isolata per rendersi utili nei campi più diversi; le avvicinò al lavoro, ai sogni, ai dolori delle altre donne, le aiutò a realizzare nella pratica i loro principi morali. E quando caddero, la consapevolezza acquisita attraverso l’esperienza nuova diede al loro gesto e al loro contegno una nobiltà luminosa ed esemplare.
Il processo opposto s’ebbe in quella massa di donne che vanno generalmente sotto il nome di “casalinghe” e costituiscono ancora oggi la maggioranza della popolazione femminile del nostro Paese. Per queste donne non si trattava di scendere dal mondo delle idee astratte al livello della vita quotidiana, ma piuttosto di salire, superando il ristretto cerchio dell’egoismo persona-le o familiare per raggiungere un più vasto orizzonte ideale. Non erano state mai veramente fasciste, ma neanche antifasciste, limitandosi a pensare che “non sta alle donne occuparsi di politica”. Soltanto quando si videro minacciate, ferite in quanto avevano di più caro – i figli e la casa – compresero che, per salvare il loro bene, dovevano resistere. Resistere significava agire insieme. Si mossero più lentamente delle altre, ma non meno decisa-mente. Entrarono a far parte dei Gruppi di difesa della donna per l’assistenza ai combattenti per la Libertà. E se dapprima si limitarono a nascondere i feriti o i prigionieri fuggiti, a raccogliere viveri e indumenti per i Partigiani, ben presto sentirono il bisogno di far qualcosa di più. Divennero esperte negli spostamenti clandestini, nel trasporto di materiale compromettente, nello sventare le trappole e le insidie del nemico. Scesero in piazza per protestare contro il rastrellamento dei renitenti alla leva, erano quasi tutte casalinghe che avevano incominciato a rendersi conto del valore dell’azione comune. Quando per alcune di loro, giunse l’ora d’affrontare a loro volta l’arresto, la tortura e la morte, lo fecero con serenità dignitosa di chi sa soffrire per la felicità del domani.
Le donne che più facilmente s’erano lasciate abbagliare dal fascismo erano state le impiegate, le dattilografe, le commesse: vittime d’un atteggiamento spesso retorico di fronte ai problemi della vita, dello squilibrio tra aspirazioni e possibilità di realizzazione pratica, avevano visto nella boria di grandezza del regime un compenso ai loro desi-deri frustrati. La brutalità dei fatti aprì loro gli occhi alla vacuità degli ideali cui avevano fino a quel momento cre-duto e, collaborando lealmente con le altre donne, trovarono nella Resistenza una causa che valeva finalmente la pena di servire, cui potevano dedicare le proprie qualità d’intelligenza e di coraggio, per cui si poteva anche sacrificare la vita. E anch’esse caddero illuminate da una nuova consapevolezza, da una speranza nuova.
Roma era stata divisa dal Partito Comunista in otto zone partigiane, dove i compagni che erano stati confinati grazie alla loro esperienza e al riconosciuto valore hanno assunto ruoli di comando tra le fila dei resistenti, che facevano capo al Comitato di Liberazione Nazionale .
Mio zio Guglielmo Germoni, che noi chiamavamo Memmo ed era detto il “Muto” perché sotto le botte non aveva mai parlato, tornato dal confino prese il comando della VI zona, secondo settore di Roma, che comprendeva Torpignattara, Maranella Casilina, Prenestina, Portonaccio, San Lorenzo ed aveva collegamenti con le borgate ed il centro di Roma.
Memmo essendo stato detenuto politico e confinato era ben conosciuto dalla polizia e ricercato dai repubblichini, noi lo nascondevamo in casa. Per una spiata tedeschi e fascisti vennero a prenderlo di notte, verso le tre. Lui fece a tempo ad uscire dalla finestra della stanza dove noi bambine dormivamo e si tenne aggrappato alle persiane stando in piedi su uno stretto cornicione, corrispondente al quarto piano. Quelli intanto lo cercavano in tutte le camere, ma mia nonna e mio padre che parlava il tedesco non li fecero entrare nella nostra disse che alcuni bambini avevano una grave malattia infettiva; in precedenza la nonna, appena accortasi dalla finestrella che dava sulle scale che i tedeschi erano alla porta, aveva gettato a terra un disinfettante puzzolente. Quando Memmo si complimentò dell’astuzia, nonna rispose: “La necessità aguzza l’ingegno”.
E’ naturale, dato l’ambiente familiare, come anch’io sia entrata a far parte delle Brigate Garibaldi, organizzate del Partito Comunista Italiano, che per vent’anni non aveva mai dato tregua al fascismo, contro ogni passività, ogni tendenza alla capitolazione.
Io, mia sorella ed altre ragazze partecipammo alla Resistenza in qualità di staffette.
La staffetta è la ragazza che ad ogni viaggio rischiando la vita mantiene i collegamenti tra il Comitato di Liberazione Nazionale e le brigate, porta ordini, informazioni, armi o medicinali; è indispensabile, senza la staffetta le direttive resterebbero lettera morta, le informazioni non potrebbero giungere ai combattenti che lottano nelle officine, nelle città, nelle valli e sui monti, nelle diverse regioni d’Italia.
La staffetta è la figura più leggendaria di tutta la Resistenza.
Noi staffette eravamo utilizzate secondo le nostre capacità. Io che ero la più piccola avevo come compito principale di andare a Trastevere per prendere i chiodi a quattro punte dal compagno fabbro Carlo Ferola. Un giorno mi avvertirono che era stato arrestato; fu torturato dalla Banda Koch, non parlò e venne ucciso alle Fosse Ardeatine.
I chiodi a quattro punte erano importantissimi, non ci si poteva rinunciare, perché quando si gettavano una sola punta rimaneva alzata, messi dove passavano i mezzi tedeschi anche le gomme dei blindati si squarciavano. Dopo di allora i chiodi li andavo a prendere dai tranvieri delle officine di Via Prenestina e del Deposito di Portonaccio. Provvedevo a rifornire di chiodi i compagni del Flaminio.
I miei genitori, come vi ho già detto, erano antifascisti. I miei zii, non avendo la tessera del fascio, facevano i maniscalchi, il loro lavoro consisteva nel mettere i ferri agli zoccoli dei cavalli. Dopo la caduta del fascismo avevano stabilito collegamenti molto importanti con degli ufficiali di cavalleria antifascisti, così riuscivano a procurarsi le armi. I militari quando uscivano a cavallo dalla caserma dicevano: “Andiamo a San Lorenzo dal maniscalco”. In quel quartiere i fascisti non venivano perché rischiavano, i nostri non scherzavano: “Se fai la spia, fai arrestare i compagni e li mandi alla tortura, noi ti facciamo fuori”.
Un giorno avevo appuntamento con Laura Lombardo Radice al Pantheon per prendere dei volantini, mi dice: “Portali all’università in Via De Lollis ad un ragazzo, non fermarti con nessuno”. Non dice il suo nome, me lo descrive in modo da riconoscerlo, m’assicura che lui sa come sono, però dovevo mettermi un golfino bianco che ho dovuto farmi prestare per l’occasione.
Il giorno dopo, quando sono andata a consegnare i volantini, ho riconosciuto Massimo Gizzio e senza dire una parola ci siamo abbracciati.
Qualche giorno prima studenti e professori antifascisti avevano organizzato all’università uno sciopero ben riuscito. Alla luce di questo successo, era stato deciso di preparare lo sciopero anche nelle scuole superiori.
Rimasi d’accordo con Mimmo che avrei partecipato allo sciopero, prendendo appuntamento per il 29 gennaio davanti al Liceo Dante Alighieri. Quel giorni, all’inizio della manifestazione il preside fascista del liceo chiamò i militi repubblichini di “Onore e Combattimento” uno dei quali ha sparato a Massimo colpendolo alle spalle. Cadde a terra in una pozza di sangue. Cercammo una macchina che lo portasse in Ospedale, ma nessuno lo volle prendere. Solo uno stracciaiolo ci diede il suo carretto, pulendolo con uno straccio e cospargendolo di paglia. Due giovani partigiani (Lizzani e Raparelli) adagiarono Mimmo sul carretto e di corsa raggiunsero il lontano Ospedale S. Spirito. Io in bicicletta facevo la spola tra il carretto e le poche macchine di passaggio, ma nessuna si è fermata.
Mimmo è morto il primo febbraio 1944, senza aver ripreso conoscenza.
I funerali mossero dall’obitorio, furono accompagnati da un corteo per sfidare i nazifascisti. C’era una marea di gente, insegnanti, studenti e i giovani delle borgate con una corona di garofani rossi ed un nastro bianco con la scritta “i compagni”. Noi ragazze eravamo andate dai fiorai chiedendo un fiore rosso per un giovane ucciso dai fascisti, nessuno ce l’ha negato.
Ricordo il 2 marzo 1944: centinaia di donne romane, davanti alla caserma Giulio Cesare dove erano rinchiusi i catturati nei “rastrellamenti”, gridavano il nome dei prigionieri, ne chiedevano l’immediata liberazione. Dalle finestre dell’edificio gli uomini chiamavano a loro volta le loro donne, nel vocio assordante si senti scandire un nome “Te-re-sa”, vidi allora una giovane donna un po’ appesantita dalla maternità lanciarsi in avanti per gettare un panino al marito, che non riesce a prenderlo. Lo tira di nuovo, ma un tedesco l’afferra, la scaraventa a terra e freddamente le spara alla testa. Teresa cade, il sangue arrossa il marciapiede: l’urlo altissimo del marito copre le voci indignate delle donne “vigliacchi, vigliacchi”. Nel pomeriggio due fascisti che stazionavano davanti alla caserma sono stati uccisi dai gappisti. A sera il punto dove Teresa Gullace era caduta viene coperto di fiori dalle donne del quartiere.
Io ho sgomento di questi avvenimenti, quando li ricor-do mi sembra di riviverli. Penso ai compagni caduti che non rivedrò mai più, avverto di nuovo il fragore dei bombardamenti, rivedo le case crollare e la gente morire accanto a me.
Erano tempi durissimi; quelli che erano presi venivano portati in Via Tasso o a Via Romagna per le torture o a Forte Bravetta per la fucilazione. Avevamo qualcuno all’interno delle prigioni, delle caserme e dei commissariati che ci faceva sapere chi era arrestato, in modo da poter avvertire la sua famiglia.
L’organizzazione era importante, presente dovunque. A me era affidato il compito di far giungere il più presto possibile i messaggi ai compagni. Per ragioni cospirative non conoscevo l’identità delle persone che incontravo, né sapevo cosa contenessero i pacchi che trasportavo.
Io e mia sorella Adriana a volte andavamo insieme in bicicletta (poi furono proibite). Adriana era tipografa, lavorava presso uno stabilimento sulla Tiburtina, era più grande di me di due anni; una ragazza bionda molto bella e sorridente, mentre io ero più piccola e magra. Nostro padre sapeva a quali rischi eravamo esposte se scoperte, da un suo amico farmacista aveva fatto preparare due pasticche di cianuro, che avvolte da garza nascondevamo nel calzino, pronte ad avvelenarci per evitare violenze e torture.
Vi racconto a proposito un episodio avvenuto al ponte di Portonaccio, vicino al cimitero del Verano; troviamo un posto di blocco tedesco, dove ci hanno intimato: “ALT!” Avevamo entrambe due borse di paglia, una a destra ed una a sinistra del manubrio delle nostre biciclette. Un tedesco rivolgendosi a mia sorella: “Signorina, cosa avete in questa sporta?”. Lei tutta allegra risponde “Bombe a mano”. Quello dice: “Passate”. Io non avevo più la forza di pedalare, mentre Adriana è scappata come un razzo e m’ha aspettato al cancello del cimitero israelitico. Quando sono arrivata mi ha preso a schiaffi. “Ma come ci siamo salvate e tu non arrivi più”; rispondo: “Gli hai detto che avevi le bombe a mano”, “Ma quanto sei cretina, se guardavano la sporta le trovavano”. Mi sembra di rivederla davanti ai tedeschi tutta sorridente rispondere “Bombe a mano”. Non l’hanno creduta; mentre io nelle sporte avevo i chiodi a quattro punte che altri ragazzi avevano infilato nelle lunghe foglie dei carciofi, per non farli vedere ai conducenti dei veicoli tedeschi.
Un altro tremendo episodio. Vi ho detto che abitavo a Casalbertone, in un grande palazzo. All’interno c’è un cor-tile, le scale partono dalla A alla F, noi eravamo al quarto piano della scala E, senza ascensore. Un giorno vennero a cercarci i tedeschi accompagnati dai fascisti, volevano perquisire la nostra casa, perché qualcuno aveva fatto la spia. Bruno, il portiere che aiutava i partigiani, sapeva che avevamo il ciclostile e per darci un po’ di tempo, fingendo di non capire chi cercavano, li ha fatti ritardare, intanto aveva fatto un cenno al figlio che di corsa è venuto ad avvisarci: “Fate presto, stanno arrivando i tedeschi!”.
Ricordo che era domenica, in casa c’era soltanto mia nonna materna con noi sorelle maggiori e 16 bambini (noi ospitavamo due famiglie dei fratelli di mia madre, perché nel bombardamento del 14 marzo avevano perduto la casa). Per fortuna io e Adriana sapevamo bene cosa dovevamo fare: abbiamo preso il ciclostile e le armi, anche una mitraglietta (sapevamo che erano nascoste in un armadio a doppio fondo, costruito da zio Memmo), abbiamo portato tutto sul terrazzo due piani sopra. Appena finito di nascondere il materiale abbiamo visto i tedeschi attraversare il giardino ed entrare nella nostra scala.
Sono passati moltissimi anni, ma sento ancora il passo dei tedeschi per le scale, ancora mi sveglio terrorizzata, non posso far a meno di pensare a mia nonna, ai bambini che ora sono uomini e donne, penso alla paura delle mie sorelline e dei miei cuginetti, alla disperazione di mia nonna che in quel momento aveva la responsabilità di tutti noi. Mia nonna Anna Maria era una donna forte e coraggiosa, aveva perduto un figlio il 19 luglio nel bombardamento di San Lorenzo. Seppe infondere coraggio ai bambini, con il suo amore riuscì a fargli accettare quella momentanea invasione. Ma sapeva anche che se avessimo dimenticato di prendere qualche cosa i tedeschi li avrebbero uccisi tutti.
Sul terrazzo mia sorella ha caricato la mitraglietta ed una rivoltella e mi ha detto: “Se loro ammazzano i bambini noi ammazziamo loro, temevamo di non avere preso tutto, che fosse rimasto qualcosa. Improvvisamente ci siamo ricordate che nei tasti del pianoforte avevano messo le cartine delle sigarette con scritte parole d’ordine. I fascisti lo sfondarono ma non trovarono nulla.
Quando i tedeschi se ne andarono siamo scese dal terrazzo, ì bambini erano terrorizzati, tremavano, gli abbiamo detto che era stato un gioco! “Avete visto sono andati via e non vi hanno fatto niente”. Era difficile farglielo credere perché la casa era in condizioni spaventose: mobili distrutti, lampadari bellissimi di cristallo in frantumi, materassi squarciati inservibili, il pianoforte a pezzi e, come se non bastasse, si portarono via gli oggetti preziosi e gli album delle fotografie.
Mia nonna, che come già vi ho accennato era una donna intelligentissima, anche se analfabeta, quel giorno non si perse d’animo, disse: “Solo di fronte alla morte non c’è rimedio, finitela con le lacrime e venite tutti a dare una mano, dobbiamo preparare un gran mate-rasso”. Per far dormire comodi i bambini cucì una gran federa che prendeva tutta la stanza e la riempì di foglie secche del granturco. I bambini furono felici di dormire tutti insieme.
Vi racconto il seguito: quando sono salita sul terrazzo, la prima cosa che ho fatto ho messo il ciclostile dentro la vasca dell’acqua; è stato un grave errore, perché l’acqua lo ha reso inservibile. Il ciclostile rovinato mi ha provocato dei guai. Quando i compagni sono venuti a prenderlo, perché ormai casa mia non era più sicura, mi hanno aspramente rimproverata. “Ma tu sei matta: ora come stampiamo i volantini? Hai rovinato il ciclostile, non si può più aggiustare, per farlo ci vorrebbe tanto di quel grasso che è impensabile trovarlo”. Mi arrabbiai moltissimo, risposi: “Del ciclostile non mi frega niente, se i tedeschi lo trovavano, ammazzavano tutti e non si sarebbero fermati li, avrebbero arrestato i miei genitori, i miei zii; trovatevene un altro di ciclostile”.
La storia non è ancora terminata: dovevo farmi venire in mente qualche soluzione per far funzionare di nuovo il ciclostile, dovevo trovare del grasso lubrificante.
Il mio quartiere era circondato dalla campagna, erano tutti prati, c’era la marrana a cielo aperto dove d’estate i bambini facevano il bagno con la disperazione delle mamme. Sapevo che a via delle Biade, a ridosso della stazione Tiburtina (luogo d’incontro dei comandanti partigiani di tutte le zone di Roma per concordare le azioni da compiere e fare il punto sulle perdite avute) c’era un gregge ed una volta avevo assistito alla preparazione degli abbacchi. Avevo visto il pecoraio tosare gli agnelli ed una volta ammazzati far colare il grasso in un grande catino.
All’alba sono andata a rubare un agnellino e l’ho portato ai compagni. Alla vista del l’agnellino che belava, hanno esclamato: “Tu sei matta”, che ci facciamo con un agnello?”
Rispondo: “Non volevate il grasso per il ciclostile? Ammazzatelo, vi prendete il grasso e a me date la carne”.
Avreste dovuto vedere come funzionava bene il ciclo-stile dopo l’operazione: lavato, pulito e lubrificato con il grasso era diventato più veloce. I compagni mi chiesero scusa, felici di averlo recuperato. Da un male era nato un bene.
Mia madre era una patriota, nome che è stato dato ai partigiani non combattenti. Non aveva paura di niente, non stava mai in casa, sotto la gonna portava un cerchio con in basso delle tasche per portare armi e materiale. Aveva sempre cose importanti da fare. Cercava i fondi per aiutare le famiglie degli arrestati. Organizzava l’assalto ai forni, cioè un’azione delle donne del popolo, qualche volta protette da partigiani armati, per procurarsi il pane e la farina che i tedeschi requisivano, e la razione giornaliera di pane era stata ridotta a cinquanta grammi. Le donne dei quartieri Ostiense, Portuense e Garbatella avevano scoperto che un forno panificava pane bianco e aveva grossi depositi di farina. Decisero di assaltare il deposito che non sembrava presidiato dalle truppe tedesche. Il direttore del forno per evitare danni ai macchinari le lasciò entrare. Qualcuno invece chiamò la polizia tedesca. Alla vista dei soldati nazisti le donne cercarono di fuggire lasciando a terra il loro bottino, qualcuna fuggì scendendo sull’argine del fiume. Ne catturarono dieci le disposero contro la ringhiera del ponte e le ammazzarono. Le dieci donne furono lasciate a terra tra le pagnotte abbandonate e la farina intrisa di sangue. Il ponte fu presidiato per tutto il giorno impedendo che i cadaveri venissero rimossi. La sera all’obitorio ci fu la triste cerimonia del riconoscimento da parte dei parenti.
L’ultima vittima di quella protesta fu il 3 maggio a Tiburtino III. Caterina Martinelli guidava le donne della borgata che la fame e la miseria avevano esasperato dopo un inverno terribile. Era andato tutto bene ho salutato le donne che ritornavano nelle loro baracche con le sporte piene di pane quando sono state bloccate da militari della PAI; al rifiuto di cedere il pane spararono con il mitra e colpirono Caterina che teneva in braccio la bambina ancora lattante, stramazzò a terra cadendo sopra la figlia, che sopravvisse ma ebbe la spina dorsale lesionata. Sulla sua lapide al Cimitero Verano è scritto: “Io non volevo che un po’ di pane per i miei bambini. Non potevo sentirli piangere tutti e sei insieme”-
Era terribile, continuavano i bombardamenti, ci chiede-vamo perché gli americani sacrificavano tanti civili. senza colpire le postazioni tedesche. L’esercito americano si era fermato ad Anzio, non veniva più avanti. S’intensificavano le azioni partigiane per liberare Roma dall’oppressore Mancavano i generi di prima necessità: latte, pane, olio, carne, zucchero. I bambini erano denutriti, i grandi rifiutavano il vitto per darlo ai figli, tanti s’ammalavano di tubercolosi e morivano. La gente si sfamava con le bucce delle fave e dei piselli. Cominciò l’esodo di chi poteva, perché aveva una casa di famiglia nei paesi del Lazio o regioni vicine. Sfollarono per evitare le bombe, ma spesso si trovarono coinvolti entro le linee del fuoco, in Ciociaria ed in Abruzzo.
Ci fu una riunione di famiglia, alla quale i ragazzi più grandi parteciparono, si decise di mandare mia nonna ad Arsoli suo paese natio, insieme ai bambini che erano terrorizzati dai continui bombardamenti. Ricordo che il più grande aveva 14 anni ed il più piccolo cinque mesi.
Avevamo poco da mangiare, mia nonna ad Arsoli con i bambini aveva bisogno di tutto, c’era la borsa nera, il prezzo del pane era alle stelle. Mia madre vendette tutti gli ori per non farci mancare lo stretto necessario. Mio padre era funzionario delle Ferrovie dello Stato. Povero papà, andare ad Arsoli era molto pericoloso, i treni erano mitragliati, bisognava trovare mezzi di fortuna e fare tanta strada a piedi.
A Roma io e mia sorella Adriana andavamo “per spiga”: cercavamo il poco grano rimasto nei campi dopo il raccolto, lo tritavamo con il macinino del caffè, per mangiarlo lo bollivamo.
A Pasqua, in occasione della benedizione del papa che doveva avvenire nel pomeriggio, facemmo una grande manifestazione in Piazza San Pietro: Roma aveva fame, Roma era piena di militari tedeschi, non aveva neanche la parvenza della Città dichiarata ufficialmente “Aperta” come avrebbe dovuto essere: Roma aveva voglia di gridarlo forte il suo no alla guerra, ai nazisti e ai fascisti.
In piazza c’erano tutti: quanti e quanti visi sconosciuti, che grande città facevano tutti quegli uomini, quelle don-ne impegnati da mesi in lavori rischiosi e segreti. Tanti eravamo che i tedeschi ai margini della piazza ascolta-rono le nostre grida senza osare un intervento; tanti che, a cerimonia finita – svolazzavano i manifesti nella piazza investita dalla brezza – fummo per la prima volta un immenso corteo, uscendo su via della Conciliazione: un corteo che imprecava e minacciava, sotto gli occhi sbalorditi dei tedeschi. Ero insieme a Laura Lombardo Radice, ad un certo punto non l’ho più vista, anche Marisa Rodano la cercava, eravamo in pensiero, pensavamo l’avessero arrestata, ma riapparve.
Quella sera non ci fu nessun arresto.
Un altro episodio: il padre di Mariella, un’amica di mia sorella Marcella, fu preso dai fascisti e picchiato fino alla morte perché il figlio non si era presentato alla leva, volevano sapere da lui dove si era nascosto.
La sede del fascio si trovava al piano terra di Via Efisio Cuggia, in corrispondenza delle finestre della sua abi-tazione all’ultimo piano. Mariella sentì le urla di dolore del padre. Quando i militi saliti in casa per perquisirla le dissero “Tuo padre l’abbiamo ammazzato”. Lei ha aperto la finestra e s’è buttata. La notizia in un baleno si è sparsa in tutto il quartiere. Al funerale vi erano tanti giovani che hanno rischiato d’essere arrestati, c’era tanta gente che molti rimasero fuori della chiesa. Sulla cassa di Mariella c’erano fiori bianchi, aveva soltanto diciassette anni, quella del padre fu avvolta in una copertina rossa.
A Casalbertone molti sapevano che la mia famiglia svolgeva attività clandestina, ma ci proteggevano. Ricordo che quando arrestavano i compagni, le donne si mobilitavano per raccogliere i fondi e i viveri per le famiglie dei carcerati, la gente soffriva la fame ed era commovente vedere come si togliesse il pane dalla bocca per aiutare chi stava peggio di loro; ci davano quello che potevano: i soldi, a volte un cartoccetto di zucchero, sale, un po’ di farina.
Quando penso ai sacrifici e alle privazioni dei miei genitori e di mia nonna, che aveva perso un figlio nel bombardamento del 19 luglio a San Lorenzo lasciando la moglie con 5 figli, mi torna in mente il loro coraggio e gli ideali che ci hanno trasmesso, ne vado fiera.
Il 4 giugno 1944 Roma venne liberata con l’arrivo degli anglo-americani. Quel giorno i tedeschi in fuga compirono l’ultima strage a La Storta: fecero scendere da un camion 14 prigionieri prelevati da Via Tasso, li portarono in un boschetto e li uccisero a raffiche di mitra. Tra loro c’era Libero De Angelis, cugino di mia madre.
Dopo la Liberazione, si vide subito il significato ed il peso dell’intervento femminile nella vita democratica, alle donne fu riconosciuto il diritto al voto. Ci furono delle incomprensioni: qualcuno vide in quella conquista una possibile strumentalizzazione clericale, ma poi nelle battaglie per la Repubblica e la Costituente, le lotte per il lavoro e la casa, si rilevò pienamente il nuovo spirito delle masse femminili frutto e continuazione della Resistenza. Ricordare questo non vuol dire limitarsi a rievocare una storia lontana, conoscere con chiarezza ciò che è stato serve ad intendere meglio il presente ed il futuro.
Oggi è in atto una profonda crisi economica e sociale, che minaccia le Istituzioni democratiche, ed incombe su tanti il problema della disoccupazione, del diritto al lavoro per i giovani e per le ragazze, frequentemente esclusi dalle attività produttive.
Resta il problema dell’uguaglianza dei diritti in ogni campo della vita del Paese, anzitutto nella scuola, perché il diritto allo studio non diventa possibilità reale di diritto al lavoro. C’è il compito di dar vita ad una società diversa, capace d’accogliere le esigenze dei giovani, delle donne e delle nuove famiglie.
Quando mi hanno invitato a parlare nella scuola elementare Enrico Toti di Roma i bambini mi chiesero se avevo avuto paura. Ho riposto “Certamente!” ed ho aggiunto che se a quel tempo fossero stati al mio posto, loro avrebbero fatto le stesse cose, chissà forse meglio di me: “Non sono un’eroina, ma tutti diventano eroi quando sono chiamati a difendere la libertà”.
La libertà è come l’aria, se ci viene tolta affoghiamo nel mare dell’ingiustizia, della schiavitù e della sopraffazione. Bisogna ritornare in superficie, respirare, nuotare e raggiungere la terra dell’avvenire.
Ricordo e Memoria sono due termini differenti.
Ricordo corrisponde al ripresentarsi di avvenimenti ed emozioni nella persona che li ha vissuti e vuole condividerli specie con i giovani che stanno formandosi una coscienza.
Memoria è la necessità di non dimenticare, perché il passato diventi un solido fondamento per il futuro, perché non si ripetano gli orrori della tirannia e della guerra.
Il ricordo si basa sulla testimonianza, la memoria sull’assimilazione della storia mediante resoconti, testi, documenti, filmati ed osservazioni critiche.
La mia esperienza con voi, lo scambio che è avvenuto sollecitando le vostre domande e dando risposte che spero siano state convincenti, mostra come la Resistenza passi da Ricordo dei protagonisti a Memoria delle nuove generazioni.
Penso che il nostro incontro sia stato utile perché vi abbiamo trasmesso i valori di giustizia, libertà, solidarietà che ci animarono, per i quali tanti diedero la vita, ideali che hanno fondato la Costituzione della Repubblica. Difendete la Costituzione e impedite che sia modificata.
La vostra commossa attenzione mi ha molto stimolato e mi rende sicura che assumerete questa eredità e che la porterete avanti anche quando noi non ci saremo più. Non dimenticate il compito che vi affidiamo: proseguire verso un mondo che sarà migliore solo con il vostro impegno, così come noi vecchi partigiani, staffette e pa-trioti ancora stiamo facendo.