[Foto: Archivio Associazione culturale GoTellGo / cortesia Barbara Piscini, CC BY NC SA]
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Sfido il mio destino, la mia epoca
“Sfido il mio destino, la mia epoca
sfido l’occhio umano
Schernirò le regole ridicole e la
gente
questo è il fine:
colmerò i miei occhi di pura luce
e nuoterò in un mare di sentimenti
liberi.
Ho sfidato la tradizione e la mia condizione assurda
superando il limite consentito dal
tempo e dal luogo.”
Nazik al-Mala’ika
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Le donne
“Le donne sono petali bagnati.
Rincasano la sera come ombre,
ridosso ai muri.
Risuona il ticchettare
di tacco nella strada
sportive o stivali
ciabatte e sandali.
Non tornano sui propri passi
fiutano piste di
animali metropolitani.
Se vedo i loro occhi
sgranati di paura
uso una cortesia
passando all’altro lato della via.”
Fausto Celeghin
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Foto di Letizia Battaglia
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Non posso essere la timida viola e nemmeno lo voglio
“Perché la vita è un grido
e non va
proprio non va
starsene come mosche su vetri
ad aspettare che finisca il giorno.
è necessario un ululato
per non sentirmi solo un tubo vuoto
dalla bocca a…
non ho sapienza mistica
non credo nelle favole e nei crismi
ed è perciò che urlo
se un bruto mi violenta
se mi lacero mentre partorisco
se mio figlio ha una storia disperata
se un lutto mi fa orfana
se i bambini africani muoiono
per l’oro delle chiese e belle dame
se un bambino rapito
viene venduto all’asta dei pedofili
o ai trafficanti d’organi
se ci governa un guitto o un malfattore
se la terra è spartita tra i potenti
se non bastò saltare da un balcone
per non vedere il sangue sulle pietre
Non morirò tacendo
urlo
verso quel cielo indifferente
da spaccargli le nuvole
sarò l’accusa perentoria a tutte le divine strafottenze.
Voglio una voce d’uragano”
Cristina Bove, “Non posso essere la timida viola e nemmeno lo voglio”
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Fortuna
“Per anni, godere dell’errore
e del suo emendamento,
poter parlare, camminare libera,
non vivere mutilata,
non entrare o sì nelle chiese,
leggere, udire musica che ami,
esser la notte come il giorno un essere.
Non essere sposata per contratto,
stimata in capre,
subire il potere di parenti
o lapidazione legale.
Non sfilare mai più,
non patire parole
che iniettino nel sangue
limature di ferro.
Scoprire da te stessa
altro essere inatteso
nel ponte dello sguardo.”
Ida Vitale, “Fortuna”
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John Everett Millais, “Ophelia”, 1851-1852
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Katia
“Sono entrata nell’acqua una sera d’autunno
calando dal greto scabroso
tra ciottoli e arbusti, fin dove
– già molle del limo –
il fiume lambisce la sponda.
Sopra il pelo del fiume è un giaciglio gualcito
di foglie e legnetti, come un nido abusato
che vortica piano.
Sotto è il letto di morbida rena
che percorro seguendo i miei passi
nella bruma d’un cielo nebbioso.
Cupo e verde il colore dell’acqua
che s’aggrappa ai miei scarni vestiti.
Come un gatto in un sacco
il mio corpo sprofonda. E’ la resa.
E il mio tempo s’acceca in un gorgo di pena.
Vieni Sposo e m’accogli, nel tuo liquido abbraccio
e nel muto ondeggiare mi culli, leggera.
Finalmente è sostare. E dormire.
Il tuo letto è riposo.”
Silvana Sonno, “Katia”
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Il Volo
“Sei scomparsa, sorella.
Il lungo grido inascoltato
impotente e feroce
ha straziato il tuo cuore.
Eri già morta, prima della Morte
ma a piedi nudi, con ultimo puntiglio
hai allineato le tue scarpette belle
ai margini del letto, dalla parte a te avversa.
Come un dono.
Dalla finestra spalancata
una lama di sole le ha baciate
e in quell’istante tu hai spiccato il volo.
E adesso che il tuo tempo hai liberato
dai battititi convulsi e dai sospiri
lieve fluttui nel vento
e fra sfilacci di nuvole raccogli
i pezzi sparsi della vita andata.
Mentre li afferri ridi, è come un gioco
come acchiappar le bolle di sapone
e ti trovi bambina a ricordare
e ti trovi già donna a disperare
Li ricomponi e rivedi i sorrisi,
i gesti lievi, le carezze morte
ogni lacrima sparsa che hai versato
ogni sogno sognato dentro il buio
ogni luce ogni canto e le parole.
Ah le parole … ne senti
il gusto amaro dentro in bocca
il sapore di miele, d’albicocca
rotonde e spigolose, pur gridate
e quelle che più amavi: sussurrate …
Adesso la tua vita è solo tua,
donna di lunga fede ai propri sì,
che hai scelto di volare, pur senz’ali
donna del volo libero impacciato
dal pesante fardello del dolore
umiliata nei gesti e più nel cuore
sei fuggita su un refolo di vento
hai sciolto le tue pene a filo d’aria
e all’aria affidi gli ultimi perché”
Silvana Sonno
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Per un giunco sottile
“Lava il fetore della perfezione e racconta
il sublime disastro che sei.
Non dimenticare i girasoli sul confine
i corpi immersi nel buio come isole
gli occhi scintillanti nelle tue dieci lune
le dita ladre prima del disprezzo
vergate di terra e fame.
Nello specchio togli le scuse
e perdona la bocca tradita
non pulire la macchia sul pavimento
con il rigurgito di un altro abbandono
e fai scivolare la mano sulla piastrella
dove lasciasti l’impronta del sangue
per ricordarti viva.
Afferra il bastone che ti piegò le ossa
benedici di giorno il silenzio
che difese la testa e il cuore.
Racconta del fiume che strappa
il più sottile dei giunchi e di notte
mormora sul bordo delle ciglia.
Solleva ancora lo sguardo di meraviglia
a cercare la luce rossa nella volta scura
dove l’architetto del tuo destino
nascose la chiave, impara e bacia
la paura che ti ha dato nelle vene
inchiostro d’inquietudine e tempesta.”
Mirela Stillitano, “Per un giunco sottile”
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Nellie
“Dopo le urla, i colpi di cinghia – lei strillava – volavano cose,
le porte sbattevano, il pianto amaro,
dal pacchetto sottile, dopo aver spostato la carta delicata,
sollevava le calze trasparenti mojud
e vi faceva scorrere le dita,
sorridendo di nuovo piano come una ragazza.
Iniziava a cantare una canzone di Perry Como,
le piaceva Perry Como e cantava tutto il giorno
la stessa canzone che lui cantava,
al Make-Believe Ballroom Time.
Poi, col reggiseno nero legato con le bretelle alle spalle
lentigginose, si sedeva sul letto, si metteva le calze,
si alzava e le abbottonava alla giarrettiera
che pendeva dal busto nero.
Una grinza di grasso le percorreva la vita, schiacciata
dal busto, diversa dai
tondi che uscivano gonfi dal reggiseno.
E le vidi un livido blu, l’ombra
della fibbia della cinghia sulla coscia.
Però lei cantava di nuovo, e sul busto
metteva un paio di mutandoni rosa,
e per finire, poi, un abito bianco e marrone
a fiori che sembrava un’estate dorata.
Le scarpe bianche con i tacchi erano aperte sulle dita e si vedeva
lo smalto sulle unghie. La bottiglia di smalto, le pinzette,
il rossetto, il rouge, la spazzola e la limetta erano
là sulla toletta che si guardavano allo specchio.
Le labbra nuotavano nella canzone di Como con battute rosso
rosate, culminando in luminosità splendente,
come il cammeo cereo di sua madre
sulla spilla nel cassetto.
Allungava la mano e diceva, “Vieni, caro…”
Camminavamo mano nella mano su e giù per la nostra strada al crepuscolo,
e i vicini gridavano:“Ciao, Nellie!” o “Buona sera,
Signora Hirschman”, e “Ciao, Jackie. Mamma, come sei cresciuto!”
Jack Hirschman, “Nellie”, Traduzione di Raffaella Marzano
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Foto di Letizia Battaglia
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La conocchia
“O Bàuci infelice, al ricordo gemendo io piango!
Nel mio cuore ancora hanno calore
queste cose della fanciullezza,
e quelle che di gioia
non furono cenere sono ormai.
Riverse le bambole sui letti nuziali stanno e presso il mattino
cantando più non reca la madre
il filo sulla rocca [la conocchia, appunto] e i dolci di sale cosparsi.
Paura ti fece da bambina la strega
che ha grandi orecchie e su quattro
piedi s’aggira movendo intorno lo sguardo.
E quando, o diletta Bàuci,
sul letto salisti dell’uomo
senza memoria di quello che bambina ancora
avevi udito da tua madre, Afrodite
pietosa non fu della tua dimenticanza.
Per questo ora io piangendoti non
t’abbandono
né i miei piedi lasciano la casa che m’accoglie,
né voglio più vedere la dolce luce del giorno,
né lamentare con le chiome sciolte; ho pudore
del dolore che cupo il volto mi sfigura.”
Erinna (V sec. A.C.), da “La conocchia”
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Canto le donne
“Io canto le donne prevaricate dai bruti
la loro sana bellezza, la loro “non follia”
il canto di Giulia io canto riversa su un letto
la cantilena dei salmi, delle anime “mangiate”
il canto di Giulia aperto portava anime pesanti
la folgore di un codice umano disapprovato da Dio.
Canto quei pugni orrendi dati sui bianchi cristalli
il livido delle cosce, pugni in età adolescente
la pudicizia del grembo nudato per bramosia,
Canto la stalla ignuda entro cui è nato il “delitto”
la sfera di cristallo per una bocca “magata”.
Canto il seno di Bianca ormai reso vizzo dall’uomo
canto le sue gambe esigue divaricate sul letto
simile ad un corpo d’uomo era il suo corpo salino
ma gravido d’amore come in qualsiasi donna.
Canto Vita Bello che veniva aggredita dai bruti
buttata su un letticciolo, battuta con ferri pesanti
e tempeste d’insulti, io canto la sua non stagione
di donna vissuta all’ombra di questo grande sinistro
la sua patita misura, il caldo del suo grembo schiuso
canto la sua deflorazione su un letto di psichiatra,
canto il giovane imberbe che mi voleva salvare.
Canto i pungoli rostri di quegli spettrali infermieri
dove la mano dell’uomo fatta villosa e canina
sfiorava impunita le gote di delicate fanciulle
e le velate grazie toccate da mani villane.
Canto l’assurda violenza dell’ospedale del mare
dove la psichiatria giaceva in ceppi battuti
di tribunali di sogno, di tribunali sospetti.
Canto il sinistro ordine che ci imbrigliava la lingua
e un faro di marina che non conduceva al porto.
Canto il letto aderente che aveva lenzuola di garza
e il simbolo-dottore perennemente offeso
e il naso camuso e violento degli infermieri bastardi.
Canto la malagrazia del vento traverso una sbarra
canto la mia dimensione di donna strappata al suo unico amore
che impazzisce su un letto di verde fogliame di ortiche
canto la soluzione del tutto traverso un’unica strada
io canto il miserere di una straziante avventura
dove la mano scudiscio cercava gli inguini dolci.
Io canto l’impudicizia di quegli uomini rotti
alla lussuria del vento che violentava le donne.
Io canto i mille coltelli sul grembo di Vita Bello
calati da oscuri tendoni alla mercé di Caino
e canto il mio dolore d’esser fuggita al dolore
per la menzogna di vita per via della poesia.”
Alda Merini, “Canto alle donne”
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Io ero un uccello
“Io ero un uccello
dal bianco ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci sopra,
non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te
le mie canzoni d’amore.”
Alda Merini, da “La Terra Santa”, 1984
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Farfalle libere
“O donne povere e sole,
violentate da chi
non vi conosce.
Donne che avete mani
sull’infanzia,
esultanti segreti d’amore
tenete conto
che la vostra voracità
naturale non
sarà mai saziata.
Mangerete polvere,
cercherete d’impazzire
e non ci riuscirete,
avrete sempre il filo
della ragione che vi
taglierà in due.
Ma da queste profonde
ferite usciranno
farfalle libere.”
Alda Merini, “Farfalle libere”
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Edgar Degas, “Lo stupro”, 1868-1869
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Cuore di donna
“Ci sono donne che camminano controvento da una vita…
ci sono donne che hanno occhi profondi e sconosciuti come oceani…
ci sono donne che cambiano pelle per amore…
ci sono donne che donano il loro cuore…per poi ritrovarsi a raccattarne i cocci al sole…
ci sono donne che in silenzio fanno ballare la propria anima su una spiaggia al tramonto…
…se ti fermi un istante le puoi sorprendere…
mentre lottano contro il proprio istinto…
mentre fanno passeggiare il proprio dolore a piedi nudi…
affrontando onde che ad ogni mareggiata sono sempre più minacciose…
Donne in fuga portando in braccio bambini ci sono donne che chiudono gli occhi…ascoltando una musica lenta…
che rende ancora più salate le loro lacrime…
ci sono donne che con orgoglio ma con il nodo in gola…rinunciano alla felicità…
ci sono donne che con i loro occhi fotografano quegli splendidi ma così fugaci attimi in cui si sentono abbracciate dall’amore…
sperando di mantenerli vivi e colorati per sempre…
…se apri gli occhi un istante le puoi osservare…
mentre disseminano briciole di se stesse lungo il percorso
verso quel treno che le porterà via…
mentre urlano la loro rabbia contro vetri tremolanti di una casa diventata prigione…
mentre sorridono di disperazione a chi le vorrebbe far tornare alla vita di sempre…
ci sono donne che non si fermano davanti a nulla…perché non troveranno mai la fine di quel filo…
ci sono donne che hanno fatto un nodo per ogni loro lacrima…
sperando che arrivi qualcuno a scioglierli…
…non fermare il cuore di una donna…niente vale di più
…non far piangere una donna…
ogni lacrima è un po’ di lei stessa che se ne va…
non farla aspettare da sola ed impaurita seduta sul confine della pazzia…
e…se la vuoi amare…fallo davvero…
con tutto te stesso…
stringila e proteggila…lotta per lei…piangi con lei…donale il più bel raggio di sole…
ogni giorno…tieni sempre accesa quella luce nei suoi occhi…
quella luce è speranza…
è amore…
è puro spirito…
è vento…
è la più bella stella di qualsiasi notte…”
Chiara De Felice, “Cuore di donna”
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Donna
“Nessuno può immaginare
Quel che dico quando me ne sto in silenzio
Chi vedo quando chiudo gli occhi
Come vengo sospinta quando vengo sospinta
Cosa cerco quando lascio libere le mie mani.
Nessuno, nessuno sa
Quando ho fame quando parto
Quando cammino e quando mi perdo,
nessuno sa che per me andare è ritornare,
e ritornare è indietreggiare
che la mia debolezza è una maschera
e la mia forza è una maschera
e quel che seguirà è una tempesta.
Credono di sapere
Ed io glielo lascio credere
E avvengo.
Hanno costruito per me una gabbia
affinché la mia libertà fosse una loro concessione
E ringraziassi e obbedissi
Ma io sono libera prima e dopo di loro, con e senza di loro
Sono libera nella vittoria e nella sconfitta
La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della prigione è la loro lingua
Tuttavia la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio
E al mio desiderio non impartiscono ordini.
Sono una donna.
Credono che la mia libertà sia loro proprietà
Ed io glielo lascio credere
E avvengo.”
Joumana Haddad, “Donna”
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Le rose esplodono
“Le rose esplodono. Con la bambina in corsa
che le stringeva in pugno
portandole ridendo a sua madre.
Nel sogno la ricompongo. Piango.
Divoro i petali e l’intera primavera.
Il soldato mi chiede i documenti del mio pellegrinaggio:
vengo dal petto della madonna del latte
camminando il solstizio d’inverno l’età della pietra
e della mia natività. Passata presente e futura.
Vengo dalla cultura della madre
che soffia polline fosforico dentro il buio di ogni grotta
e riconosce uguali ebrei palestinesi preti di cristo
tu e io nessuno escluso. Il tempio
è il tempo: un’unica cosmica pancia dentro cui nevica.
O sono falde condensate di latte che scendono ora coprendo per pietà il sangue
tra le rovine e i morti: il soldato mi spara.
Io sono la bimba o sono la rosa del rogo
nella striscia infernale di Gaza
durante questo eterno assassinio di massa:
in nome del padre del nonno del figlio
del profeta rabbino papa o patriarca
lanciando il sasso lo sparo la bomba atomica.
Io sono una piccola poesia femmina di voce o di carta
un palmo laico in offerta contro vento
contro il delirio dell’io del d/io
contro la cultura del lutto e del possesso.”
diario di un sogno emorragico:
da Gaza al resto del mondo
Anna Maria Farabbi
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Ha indossato la camicia
“Ha indossato la camicia, ha preso l’ombrello
non ha detto parola
nemmeno io.
Dopo che se n’è andato
sono rimasta innanzi allo specchio
ho estratto la lingua
per vedere se erano rimaste impigliate delle parole.
Purtroppo ho visto solo muscoli e vene.
Ho ritirato la lingua
sono scoppiata a ridere
la risata non è una parola – poi ho infranto lo specchio.
Da quel momento
ho continuato a infrangere specchi
invano
cercandone uno
che non riflettesse
più, uno specchio
che infrangesse me.”
A’isha Arna’ut, da “Non ho peccato abbastanza”
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Ballata
“Questa è la ballata su una donna ammazzata
che d’un tratto si è alzata.
Scritta in modo veritiero,
sulla carta per intero.
Tutto accadde a finestra spalancata,
e la lampada splendeva.
Chi voleva, vedeva.
Quando l’uscio si richiuse
e l’assassino corse giù,
lei si alzò come i vivi
risvegliati dal silenzio.
Si è alzata, muove il capo
e con occhi di diamante
guarda attenta da ogni parte.
Non si leva su nell’aria,
ma calpesta il pavimento,
un assito scricchiolante.
Le tracce dell’assassino
tutte brucia nel camino.
Foto e spago dal cassetto,
fino all’ultimo pezzetto.
Non è stata strangolata.
Né uno sparo l’ha ammazzata.
Ma una morte invisibile.
Può dar segni d’esser viva,
piangere per inezie,
spaventarsi e poi gridare
per un topo.
Tante sono
le fragilità e sciocchezze
che è facile contraffare.
Lei si alzò, come ci si alza.
Lei cammina, come si cammina.
Canta anche, e si pettina i capelli,
che crescono.”
Wisława Szymborska, “Ballata”
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Litania per la sopravvivenza
“Per quelle di noi che vivono sul margine
ritte sull’orlo costante della decisione
cruciali e sole
Per quelle di noi che non possono lasciarsi andare
ai sogni passeggeri della scelta
che amano sulle soglie mentre vanno e vengono
nelle ore fra un’alba e l’altra
guardando dentro e fuori
e prima e poi allo stesso tempo
cercando un adesso che dia vita
a futuri
come pane nelle bocche dei nostri figli
perché i loro sogni non riflettano
la fine dei nostri;
Per quelle di noi
che sono state marchiate dalla paura
come una ruga leggera al centro delle nostre fronti
imparando ad aver paura con il latte di nostra madre
perché con questa arma
questa illusione di poter essere al sicuro
quelli dai piedi pesanti speravano di zittirci
Per tutte noi
questo istante e questo trionfo
Non era previsto che noi sopravvivessimo.
E quando il sole sorge abbiamo paura
che forse non resterà
quando il sole tramonta abbiamo paura
che forse non sorgerà domattina
quando abbiamo la pancia piena abbiamo paura
dell’indigestione
quando abbiamo la pancia vuota abbiamo paura
di non poter mai più mangiare
quando siamo amate abbiamo paura
che l’amore svanirà
quando siamo sole abbiamo paura
che l’amore non tornerà
e quando parliamo abbiamo paura
che le nostre parole non verranno udite
o ben accolte
ma quando stiamo zitte
anche allora abbiamo paura
Perciò è meglio parlare
ricordando
non era previsto che sopravvivessimo.”
Audrey Lorde, da “The Black Unicorn”, 1978 – Traduzione di Margherita Giacobino
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Donne, per chi non è più
“Non siamo ROBA. Proprietà di alcuno. Non siamo carne, vacche, tacchi e corpi ondeggianti su improbabili labbra. Non siamo nate a soddisfare uomini piccoli, piccoli uomini bruti. Non siamo merce contante di feste sfatte. Di menti potenti di prepotenza malata. Non siamo creature inconsapevoli, obbedienti meteore di un mondo di pene. Non siamo solo apparenza o video clonati.
Siamo.
Siamo giorni di attese e speranza
Alba e futuro di mani arrossate
Fatica di suoni sorpresi
E acqua di panni puliti
Sorrisi e capelli striati
E corse di vento maestro
Ventri pregni e vagiti
Parto di uomini e donne
E cibo fumante di erbe
Vino, aroma di autunno.
Maturo grano di giugno
Spiga nera di chicchi
Papavero fulvo e api
Miele di cardo e acacia.
Rami noi siamo
Gemme di mandorle dolci
Sagaci rughe ammantate
Scialli sul volto
Fumo di fuochi e cocci
Menta e asfodelo
Prova di figlie
Cammini su sabbia e pietre
Mare in tempesta
Sassofono lento
Corda di note
Vuote del nulla
Piene di senso
Lacrime e canto
Nenia di secoli.
Femmine e donne
Madri e figlie
Matriarche del tempo
Non siamo per
Ci siamo con.
Siamo
Anche per chi non è più.”
Daniela Pia, “Donne, per chi non è più”
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Il dolore si aggiunge al dolore
“Il dolore si aggiunge
Al dolore
Anche oggi una mimosa
È stata spezzata
Prima di fiorire
Appena dopo ventidue
Primavere
Mentre i pruni
Sono in fiore
Il mausoleo assiste
Alla violenza
L’erba cerca di soccorrere
Come può
Gli alberi sciolgono i petali
Come lacrime
I rami gridano al cielo
Ma nessuno accorre
A salvare la giovane sorella
Piange la madre terra
Piange l’amore
Ancora una volta.”
Maria Piluso, 5 marzo 2021, da “Jumare”, 2022
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Sfido il mio destino
“Sfido il mio destino, la mia epoca
Sfido l’occhio umano.
Schernirò le regole ridicole e la gente
Questo è il fine:
colmerò i miei occhi di pura luce
e nuoterò in un mare di sentimenti liberi.
Ho sfidato la tradizione e la mia condizione assurda
superando il limite consentito dal tempo e dal luogo.”
A’isha al Tamuriyya (poetessa egiziana)
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Prima della violenza
“Prima della violenza
viene il poco amore a te.
Prima della violenza
vengono la manipolazione sottile, le bugie grossolane e il controllo.
Prima della violenza
vengono le scuse supplicate e non seguite da reali cambiamenti di comportamento.
Prima della violenza
vengono le menzogne che ti racconti la notte per convincerti che non è niente e che puoi resistere.
Prima della violenza
viene la paura di dire no per non restare sola, perché pensi che senza di lui non ce la farai mai.
Prima della violenza
viene la ricerca delle prove quotidiane della sua sostanziale bontà e non intenzionalità, per poter restare anche quando c’è da fuggire.
Prima della violenza
viene l’illusione, così che, lei, la violenza, ti colga impreparata e inerme.
Prima della violenza
viene la poca fiducia in te stessa,
il poco amore a te,
l’acritica devozione a qualcuno di apparentemente grandioso,
il poco amore a te,
la tendenza a considerare il tempo dell’altro sempre più prezioso del tuo,
il poco amore a te.
Prima di ogni violenza
viene sempre
il poco
pochissimo
amore
a te.”
Manuela Toto
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Photo by xilius on CanStock Photo
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Poesia sullo stupro a Missoula
“Non c’è differenza tra l’essere stuprata
e scaraventata giù da una rampa di scale
tranne che le ferite sanguinano anche dentro.
Non c’è differenza tra l’essere stuprata
ed essere investita da un camion
tranne che dopo gli uomini ti chiedono se ti è piaciuto.
Non c’è differenza tra l’essere stuprata
e perdere una mano in una falciatrice
se non che i dottori non vogliono essere coinvolti,
la polizia sfoggia un ghigno d’intesa
e nei piccoli centri diventi una puttana patentata.
Non c’è differenza tra l’essere stuprata
ed essere morsa da un serpente a sonagli
se non che la gente domanda se la tua gonna era corta
e perché tu comunque eri fuori.
Non c’è differenza tra l’essere stuprata
e andare a sbattere dritta contro il parabrezza
tranne il fatto che dopo tu non hai paura delle auto
ma di metà del genere umano.
La paura dello stupro è un vento freddo che soffia ininterrotto
sulla schiena incurvata di una donna.
Mai girare da sola in una strada sabbiosa
In mezzo a una pineta;
mai salire su un sentiero che attraversa una montagna brulla
senza quell’alluminio nella bocca
vedendo un uomo arrampicarmisi vicino.
Mai aprire la porta a chi bussa
senza un rasoio che escoria appena la gola.
La paura del lato in ombra delle siepi,
del sedile posteriore dell’auto,
della casa vuota che fa tintinnare le chiavi
come un avvertimento di serpente.
La paura dell’uomo che sorride
con un coltello nella tasca.
La paura dell’uomo contegnoso
nel cui pugno c’è astio sottochiave.”
Marge Piercy, “Poesia sullo stupro a Missoula”
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Il tempo per me
“Il tempo per me é un tempo rubato.
Alla cura.
Stretto.
Veloce.
Di spintoni.
Il tempo per me é un tempo difeso.
Con le unghie.
Desiderante.
Di colpe.
Avanzi nel piatto.
Il tempo per me é un tempo necessario.
Per il cambiamento.
Giusto.
Prezioso.
Esisto.
Il tempo per me é un tempo di verità.
Lotta al privilegio.
Presente.
Determinato.
Sono.
Il tempo per me é tempo per noi.
Di resistenza.
Privato.
Pubblico.
Mi vedo.
Il tempo per me é un tempo dovuto. Un tempo alla pari.
Un tempo di potere.
Sulla mia esistenza. Che é nostra.
Quella di figlie. Di madri.
Un tempo di scarti.
Di donne.”
Penny (Cinzia Pennati), “Il tempo per me” – Fonte: SOS donne
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Matthieu Bouriel Art
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Ancora esisti?
Alle donne vittime della violenza di genere
“Se mi chiudi le labbra col tuo pugno chiuso
io scapperò da te
senza aspettare che un principe venga a riscattarmi
Se fai sanguinare il mio sesso
prendendomi con la forza,
io scriverò versi
che germineranno in ogni cicatrice
Le mie parole ti ricorderanno che fu una donna
colei che cullò il tuo fragile corpo nelle sue viscere
ignara del potere della tua metamorfosi
Perché io sono la madre
a cui continui a lacerare il ventre
Sono io la carne con cui cucini la tua cena
portando dio come tuo invitato
Eppure da lontano
aspetto l’istante reversibile,
il giorno in cui mostrerai il tuo volto
degno di appartenere alla nostra specie;
– uomo capace di sostenere la farfalla tra le mani
senza mutilare le sue ali –”
Marisol Bohórquez Godoy (poetessa e scrittrice colombiana), da “Efecto Mariposa”, 2017
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La mia gonna corta
“La mia gonna corta
non è un invito
una provocazione
un’indicazione
che lo voglio
o che la do
o che batto.
La mia gonna corta
non è una supplica
non vi chiede di essere strappata
o tirata su o giù.
La mia gonna corta
non è un motivo legittimo
per violentarmi
anche se prima lo era
è una tesi che non regge più
in tribunale.
La mia gonna corta, che voi ci crediate o no,
non ha niente a che fare con voi.
La mia gonna corta
è riscoprire
il potere dei miei polpacci
è l’aria fredda autunnale che accarezza
l’interno delle mie cosce
è lasciare che viva dentro di me
tutto ciò che vedo o incrocio o sento.
La mia gonna corta non è la prova
che sono una stupida
o un’indecisa
o facilmente manipolabile.
La mia gonna corta è la mia sfida.
Non vi permetterò di farmi paura.
La mia gonna corta non è un’esibizione,
è ciò che sono
prima che mi obbligaste a nasconderlo
o a soffocarlo.
Fateci l’abitudine.
La mia gonna corta è felicità.
Mi sento in contatto con la terra.
Sono qui. Sono bella.
La mia gonna corta è una bandiera
di liberazione dell’esercito delle donne.
Dichiaro queste strade, tutte le strade,
patria della mia vagina.
La mia gonna corta
è acqua turchese con pesci colorati che nuotano
un festival d’estate nella notte stellata
un uccello che cinguetta
un treno che arriva in una città straniera.
La mia gonna corta è una scorribanda
un respiro profondo,
il casquè di un tango.
La mia gonna corta è
iniziazione, apprezzamento, eccitazione.
Ma soprattutto la mia gonna corta
con tutto quel che c’è sotto è mia, mia, mia.”
Eve Ensler, “La mia gonna corta”, da “Io sono emozione”
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Marco Cazzato Art
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Le poesie delle donne
“Le poesie delle donne sono spesso
piatte, ingenue, realistiche e ossessive”,
mi dice un critico gentile dagli occhi a palla.
“Mancano di leggerezza, di fumo, di vanità,
sono tutte d’un pezzo come dei tubi,
non c’è garbo, scioltezza, estro;
sono prive dell’intelligenza maliziosa
dell’artificio, insomma non raggiungono
quell’aria da pomeriggio limpido dopo la pioggia.”
Forse è vero, gli dico. Ma tu non sai
cosa vuol dire essere donna. Dovresti
provare una volta per piacere anche se
è proibito dal tuo sesso di pane e ferro.
Ride, strabuzza gli occhi.
“A me non importa
se sia donna o meno. Voglio vedere i risultati
poetici. C’è chi riesce a fare la ciambella
con il buco. Se è donna o uomo cosa cambia?”
Cambia, amico dagli occhi verdi, cambia;
perché una donna non può fare finta
di non essere donna. Ed essere donna
significa conoscere la propria soggezione,
significa vivere e respirare la degradazione
e il disprezzo di sé che si può superare
solo con fatiche dolorose e lagrime nere.
È per questo che tante si rifugiano
nella passività, nell’ordine costituito,
perché hanno paura di quella fatica e
di quelle lagrime che sono necessarie per
riscattare la propria umanità perduta
come un dente di latte, chissà quando,
nel processo sibillino della crescita sociale.
Una mattina un padre generoso ha
legato il tuo dente al pomello della porta
che poi ha spalancato con un calcio e
addio dente di miele che ti faceva bambina
e ancora inconsapevole del ruolo pacato
e gelido che ti aspetta ora come un
cappotto fiorato appeso nell’ingresso e
se vai fuori devi indossarlo se no
rischi di morire assiderata e pesta.
Una donna che scrive poesie e sa di
essere donna, non può che tenersi attaccata
stretta ai contenuti perché la sofisticazione
delle forme è una cosa che riguarda il potere
e il potere che ha la donna è sempre un
non-potere, una eredità scottante e mai del tutto sua.
La sua voce sarà forse dura e terragna
ma è la voce di una leonessa che è stata
tenuta pecora per troppo tempo assennato.
È una voce fiacca, grezza e mutilata
che viene da lontano, da fuori della
storia, dall’inferno degli sfruttati.
Un inferno che non migliora la gente
come si crede, ma la rende pigra,
malata e nemica di se stessa.”
Dacia Maraini, da “Donne mie”, 1974
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Fortuna
“Per anni, godere dell’errore
e del suo emendamento,
poter parlare, camminare libera,
non vivere mutilata,
non entrare o sì nelle chiese,
leggere, udire musica che ami,
esser la notte come il giorno un essere.
Non essere sposata per contratto,
stimata in capre,
subire il potere di parenti
o lapidazione legale.
Non sfilare mai più,
non patire parole
che iniettino nel sangue
limature di ferro.
Scoprire da te stessa
altro essere inatteso
nel ponte dello sguardo.
Essere umano e donna, né più né meno.”
Ida Vitale, poetessa, traduttrice e saggista uruguayana
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Immagine dal web
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What were you wearing?
“Cosa indossavo?
(Com’eri vestita?)
Questo:
a partire dall’alto
una maglietta bianca
di cotone
a manica corta
e girocollo
Questa era infilata
in una gonna di jeans
(anch’essa di cotone)
che finiva appena sopra le ginocchia
e con una cintura in vita
Sotto tutto questo
c’era un reggiseno di cotone bianco
e mutande bianche
(anche se probabilmente non abbinate)
Ai piedi
scarpe da tennis bianche
il tipo di scarpe con cui giochi a tennis,
e per finire
orecchini d’argento e lucidalabbra
Questo è ciò che indossavo
quel giorno
quella notte
il quattro luglio
del 1987
Potreste chiedervi
perché è importante
o perché io mi ricordi
ogni capo di abbigliamento
con questa precisione
Vedete
mi hanno fatto questa domanda
tante volte
Ho ricordato
molte volte
questa domanda
questa risposta
questi dettagli
Ma la mia risposta
così attesa
così prevista
in qualche modo sembra vuota
visto il resto dei dettagli
di quella notte
durante la quale
a un certo punto sono stata stuprata.
E mi chiedo
quale risposta
quali dettagli
potrebbero dare conforto
a voi
che mi rivolgete queste domande
che cercate conforto
laddove
ahimè
nessun conforto
può essere trovato?
Se solo fosse così semplice
se solo potessimo
mettere fine allo stupro
semplicemente cambiando i vestiti
Ricordo anche
cosa indossava lui
quella notte
anche se questo
in verità
nessuno
me l’ha mai chiesto.
Mary Simmerling, “What were you wearing?”
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Giulia Cecchettin (Foto Ansa)
Giulia, massacrata dal fidanzato con 22 coltellate, l’11 novembre 2023
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Il sesso è un modo per trascendersi nell’altro
“Il sesso è un modo per
trascendersi nell’altro
e separarsi
bellissima espressione terrena
ma per me
il sesso è stato fanciullezza
trascinata a morte
lui diceva
che avremmo giocato
poi chiudeva sempre la porta a chiave
il gioco lo sceglieva sempre lui
quando gli dicevo di smettere
diceva che me l’ero cercata
ma cosa ne sapevo io
degli orgasmi involontari
del consenso
e della scelta
a sette, otto, nove, dieci anni.”
Rupi Kaur, da “Home body. Il mio corpo è la mia casa”, 2022
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La bella addormentata
“Prima di essere offerta in sacrificio
verrai bardata come un cavallo
farcita di perle
come una conchiglia assente
Nastri tra le trecce,
trine a stringerti il respiro bianco
Sangue di topo sulla tua bocca
che – te l’avranno detto –
sta meglio chiusa
e polvere di cielo frantumato
sui tuoi occhi
che non hanno ancora
visto il mondo
Costringeranno i tuoi piedi
in piccoli gioielli di cristallo
nemici della corsa e del salto
Ballerai il tuo primo ballo
l’ultimo
Ti incoroneranno
vittima sacrificale,
Non prima di averti eletta
principessa per un giorno.
Non prima di aver profumato le tue
carni
e tinto le tue mani e le tue orbite
Non prima di averti resa fragile
Come una torta di panna a quattro
piani
Non prima di averti sussurrato
all’orecchio
tutte le bugie della terra
in tutte le lingue del mondo
Ti mostreranno la vastità
e l’ebbrezza
per mangiarti meglio
Per meglio soffocarti
nella sontuosità spregevole della
gabbia
Sanguinerai
pungendoti forse ad un
vecchio fuso arrugginito
– la maledizione della tua culla:
è femmina.
Per cento anni dormirai
col Valdorm sul comodino
Sulla torre più alta.
Per cadere meglio.
Uno sconosciuto ti prenderà nel sonno
un pezzo d’anima che non ti avevano
detto
E ti risveglieranno i vagiti e i morsi
dei figli affamati
quelli che non ti è dato scegliere se
mettere al mondo o
lasciare nella terra opaca del possibile
Ti sveglierai in tempo
per tessere trine per la tua secondogenita:
una femmina.
Con gli occhi grandi e la parola
sempre sulla punta della lingua
Le insegnerai a tacere
e a brillare
come una stella morta
secoli prima
Con le tue ceneri
verrà riscaldata la tua casa
verranno cotti
la fame e il freddo
Prima di essere offerta in sacrificio
si taglierà i capelli
e si romperà il naso
Affilerà ogni imperfezione
Per farne un’arma
Non sufficientemente graziosa per il
tritacarne,
scamperà al destino
Vivrà i dirupi
Saprà di salsedine
e benzina
Non cercatela,
non azzardatevi a salvarla
L’unica cosa che possiede
è se stessa
E un coltello.”
Nadezda Nim, da “Avrai sorelle – Frammenti di sorellanza, memoria e libertà”
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Foto dal web
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Se domani non torno
“Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma.
Se non ti dico che vengo a cena. Se domani, il taxi non appare.
Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in una borsa nera.
Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia.
Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata.
Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata.
Mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata.
Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato, che erano i miei vestiti, l’alcool nel sangue.
Ti diranno che era giusto, che ero da sola.
Che il mio ex psicopatico avesse delle ragioni, che ero infedele, che ero una puttana.
Ti diranno che ho vissuto, mamma, che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria.
Lo giuro, mamma, sono morta combattendo.
Lo giuro, mia cara mamma, ho urlato forte così come volavo alto.
Ti ricorderai di me, mamma, saprai che sono stata io a rovinarlo quando avrai di fronte tutti quelli che urleranno il mio nome.
Perché lo so, mamma, non ti fermerai.
Ma, per quello che vuoi di più, non legare mia sorella.
Non rinchiudere le mie cugine, non privare le tue nipoti.
Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia.
Sono loro, saranno sempre loro.
Combatti per le loro ali, quelle ali che mi tagliarono.
Combatti per loro, che possano essere libere di volare più in alto di me.
Combatti per urlare più
forte di me.
Possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.
Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.”
Cristina Torres-Cáceres, “Se domani non torno”
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Immagine Pixabay
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Viola
“Il mio nome è Viola,
bella,
bella come quando la paura passa.
Porto il nome di tutti gli avi
e il profilo del paese basso che mi vide nata.
Porto occhi scuri e capelli tanti di tutte le mie donne.
Andai via da lui,
sulla forza delle spalle due figli, pochissime cose e una serie di nutrite infamie.
Ero lontana
ma dietro la porta del nuovo tempo
l’untore scrisse la lettera scarlatta
E mi trovò.
Mi trovò il suo coltello.
Su quell’altare mi sono offerta subito.
Per chiudere gli occhi,
stanchi come pietre,
per salvare i corpi dei bambini
e ripetere loro
di amare
di amare
di amare.”
Silvia Pasanisi, da “Dietro la porta” – Fonte: Lo spazio di Atena
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L’immagine in evidenza mostra volti di donne vittime di femminicidio