Linguaggi

Ulisse, irresistibile “sirena” dei poeti…

30.08.2023
Ulisse, di Dante
“Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.
Dante Alighieri, “Divina Commedia”, “Inferno”, Canto XXVI, versi 90-142
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Dante e Ulisse in una miniatura del XIV secolo
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“Ulisse”, di Umberto Saba
“Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.”
Umberto Saba, da “Mediterranee”
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“Itaca”, di Konstantinos Kavafis
“Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Poseidone incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta;
più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio;
senza di lei, mai ti saresti messo sulla via.
Nulla di più ha da darti.
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.”
Konstantinos Kavafis, 1911
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Ghiorgos Seferis, “Sopra un verso straniero”
(A Elli, Natale 1931)
“Fortunato chi fece il viaggio d’Odisseo.
Fortunato se salda, alla partenza, sentiva la corazza d’un amore distesa nel suo corpo, come le vene dove mugghia il sangue.
D’un amore di ritmo indissolubile, invitto come la musica, perenne perché quando nascemmo nacque e quando moriamo, se muore, non lo sappiamo né altri lo sa.
Prego Dio che m’aiuti a dire, in un momento di gran felicità, quale sia quest’amore:
siedo talora avvolto dall’esilio, e sento il suo remoto muggito come il suono del mare mescolato al fortunale strano.
E si presenta ancora innanzi a me il fantasma d’Odisseo, gli occhi rossi dal salmastro e da una brama
matura: rivedere ancora il fumo che affiora dal calore della casa e il suo cane invecchiato che aspetta sulla porta.
Sta, gigantesco, e mormora di tra la barba imbianchita parole della nostra lingua, quale già la parlavano tremila anni fa.
Stende una mano incallita dalle gomene e dalla barra, con la pelle segnata dal tramontano dall’afa e dalle nevi.
Sembra che voglia scacciare di mezzo a noi il Ciclope titanico, monocolo, le Sirene che dànno, se le ascolti, l’oblio, Scilla e Cariddi:
tanti intricati mostri, che ci tolgono l’agio di pensare ch’era un uomo anche lui che lottò dentro il mondo, con l’anima e col corpo.
È il grande Odisseo: colui che disse di fare il cavallo di legno – e gli Achei presero Troia.
M’immagino che venga a insegnarmi come fare un cavallo di legno anch’io, per conquistare la mia Troia.
Parlo basso e tranquillo, senza sforzo: sembra che mi conosca come un padre,
o come uno di quei vecchi marinai che appoggiati alle reti (era burrasca e incolleriva il vento)
mi dicevano, al tempo dell’infanzia, il canto d’Erotòcrito con le lacrime agli occhi
– io tremavo nel sonno udendo il fato avverso d’Aretí discendere i gradini di marmo.
Mi dice l’ardua angoscia di sentire le vele della nave gonfie dalla memoria e l’anima farsi timone.
Ed essere solo, occulto nel buio della notte, a deriva, come festuca all’aia.
L’amaro di vedere naufragati fra gli elementi i cari, dispersi: ad uno ad uno.
E come stranamente ti fai forte a parlare coi morti, quando i vivi superstiti non bastano.
Parla… rivedo ancora le sue mani che sapevano, a prova, se la gòrgone di prora era ben fatta
donarmi il mare senza flutti azzurro nel cuore dell’inverno.
Giorgos Seferis, da “Quaderno d’esercizi, 1928-1937″
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Corrado Cagli, “La nave di Ulisse”, 1934
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Odissea

“Sole, grande astro orientale, berretto d’oro della mente,
che amo portare di traverso, ho voglia di giocare,
perché gioiscano i cuori finché siamo entrambi vivi.
È buona questa terra, ci piace, come l’uva riccia
che pende nell’aria azzurra e oscilla nel piovasco,
Dio, la beccano gli spiriti e gli uccelli del vento;
pilucchiamola anche noi, che ci rinfreschi la mente!
Tra le mie tempie che pulsano, dentro il grande tino,
pigio i grappoli turgidi, il mosto ribolle fiero,
e la mia testa ride e fuma al culmine del giorno.
È la terra che spiega le vele, o il cervello freme
e la Necessità occhi neri intona ebbra il canto?
Sopra di me il cielo ardente, sotto, il mio ventre sfiora
come una gabbianella la schiuma fresca delle onde;
le nari colme di salsedine, i flutti sulla schiena
battono e vanno rapidi, e vado anch’io con loro.
Sole, grandissimo sole, che dall’alto contempli tutto,
vedo il berretto marino del Distruttore di fortezze;
diamogli un calcio per gioco, vediamo fin dove arriva!
Vedi, il Tempo ha i suoi cicli, e il Destino ha ruote,
e la mente dell’uomo, seduta in alto, le fa girare.
Su, diamo un calcio alla terra, facciamola ruzzolare!
Sole, occhio vivido malizioso, fulgido segugio,
stana e insegui la preda che amo, e riferiscimi
quello che vedi nel mondo, dimmi cos’hai sentito;
lo passerò nella fucina segreta del mio cuore,
e piano, col riso e con il gioco, con la carezza fonda,
pietre, acqua, fuoco e terra diventeranno spirito;
l’anima dolce dalle ali di fango lascerà il corpo,
e come una fiamma serena si perderà nel sole!
Avete ben banchettato, amici, sulla festosa riva,
danze e risa, pizzichi di baci, lenti conversari,
la festa in voi si è compiuta, si è persa nella carne;
ma in me fermenta il vino e la carne si fa spirito,
dal mare sorge un canto che mi getterà al suolo;
voglio intonare una canzone, fratelli, fate spazio!
Ah, la festa è molto grande e il luogo troppo angusto,
fatemi spazio per distendermi, spazio per respirare,
per allungare le braccia e lanciare in alto i piedi,
perché la vertigine non ferisca le vostre spose e i figli.
quello che vedi nel mondo, dimmi cos’hai sentito;
lo passerò nella fucina segreta del mio cuore,
e piano, col riso e con il gioco, con la carezza fonda,
pietre, acqua, fuoco e terra diventeranno spirito;
l’anima dolce dalle ali di fango lascerà il corpo,
e come una fiamma serena si perderà nel sole!
Avete ben banchettato, amici, sulla festosa riva,
danze e risa, pizzichi di baci, lenti conversari,
la festa in voi si è compiuta, si è persa nella carne;
ma in me fermenta il vino e la carne si fa spirito,
dal mare sorge un canto che mi getterà al suolo;
voglio intonare una canzone, fratelli, fate spazio!
Ah, la festa è molto grande e il luogo troppo angusto,
fatemi spazio per distendermi, spazio per respirare,
per allungare le braccia e lanciare in alto i piedi,
perché la vertigine non ferisca le vostre spose e i figli.
è un canto altero e solitario che nel vento muore!
Bevete l’acqua amara di Lete, schiaritevi la mente,
dimenticate le vostre pene e gli ignobili profitti,
ritrovate il cuore fragile e vergine di un bimbo;
il cervello sia un ramo in fiore su cui canta l’usignolo!
Vegliardi, urlate forte, che vi rispuntino i denti,
i capelli si anneriscano, la mente impazzi ancora!
Giuro sul nostro signore Sole, sulla regina Luna:
è un sogno fallace la vecchiaia, fantasia la morte,
tutti artifici dell’anima, giocattoli della mente,
sono un meltemi soave che soffia e schiude le tempie;
il lieve sogno di un sogno che ha generato il mondo;
assoggettiamo il mondo, amici, con il nostro canto!
Compagni di viaggio, ai remi, arriva il Capitano;
madri, date il seno ai neonati perché non piangano!
Coraggio! Prestatemi ascolto, e bando alle amarezze,
narro i tormenti e le passioni del famoso Ulisse!”

Nikos Kazantzakis, da “Odissea”

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Odissea

“Dopo che nelle ampie sale Ulisse ha sterminato
i giovani arroganti, e l’arco ormai sazio appende,
entra nel bagno caldo a lavare il possente corpo.
Due schiave versano l’acqua, ma appena vedono il padrone
strillano, perché il ventre ricciuto e le cosce fumano,
e un sangue denso e nero gli gocciola dalle mani;
le brocche di rame rotolano in terra con frastuono.
L’Errabondo ride mansueto sotto la barba crespa
e congeda le ancelle con un cenno dei sopraccigli.
Si gode a lungo il bagno tiepido, e le vene del corpo
si distendono come fiumi, si rinfrescano i lombi;
nell’acqua la grande mente si rasserena e si acquieta.
Si addolcisce, e lentamente, con oli profumati,
unge i lunghi capelli e il corpo rinsecchito dal sale;
la giovinezza rifiorisce dopo l’inverno della carne.
Nella penombra odorosa, sopra i chiavelli dorati,
brillano in fila gli abiti tessuti dalla casta sposa,
ornati di navi rapide, venti impetuosi e numi;
allunga il braccio arso dal sole e con cura sceglie
la veste più fiammante e se la infila sulle spalle,
poi ancora fumante tira il chiavaccio ed esce.
Gli schiavi sono abbagliati, le travi nere per il fumo
nel palazzo paterno mandano riverberi di fiamma.
Penelope, che aspetta sul trono pallida e muta,
si volge e guarda, le ginocchia sciolte per il terrore:
“Non è questo, Dio mio, l’uomo atteso per tanti anni!
È un drago gigantesco che calpesta la mia casa!”
Il perspicace Arciere intuisce il terrore oscuro
della misera donna, e al proprio cuore gonfio sussurra:
“Mio cuore, questa è la donna che per anni ha atteso
che le aprissi le ginocchia e con lei godessi il pianto,
è la donna per cui smaniavi lottando contro i mari,
contro i numi e le voci gravi della mente immortale!”
Così dice, ma il cuore non sobbalza nel petto virile.
Gli sale di nuovo alle nari il bollore della strage,
rivede ancora la moglie avvinta ai corpi giovani,
e lo sguardo acuto si vela; sarebbe mancato poco
che nella foga del massacro la trafiggesse con la spada.
Passa veloce, si ferma muto davanti all’ampia soglia;
il sole ardente tramonta, getta ombre azzurre e rosa
in ogni angolo della casa e sulle dispense a volta.
Al centro, il nero altare di Atena ormai sazio fuma,
nei lunghi portici ondeggiano al fresco della sera
file di schiave pallide appese con la lingua fuori.
Con sguardo calmo scruta gli occhi stellati della notte,
che cala giù dai monti con le greggi dal vello riccio;
nel petto, come un sogno cupo, stilla e si acquieta
il lungo giorno della strage e il sibilo dei dardi;
il tigre del cuore nell’ombra si lecca le labbra sazio.
Dopo la gioia del bagno, la mente è rasserenata,
non guarda indietro al sangue versato, né più ripensa
a come i suoi subdoli tranelli possano salvare
dai gravi pericoli incombenti la sua tremenda testa;
il tormentato Ulisse si gode in pace l’ora santa,
senza pensieri, fresco di bagno, sulla paterna soglia.”
Nikos Kazantzakis, “Dopo la strage dei Proci”, da “Odissea”
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Giorgio De Chirico, “Il ritorno di Ulisse”, 1968
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Odissea

“La Morte venne e si coricò al fianco di Odisseo;
stanca per aver vagato tutta notte, le palpebre pesanti,
bramava anche lei distendersi sulla riva col vecchio amico,
sotto l’ombra di un salice, dormire anche lei un poco;
posò lievemente le mani ossute sul petto dell’Arciere
e così abbracciata la valorosa coppia precipitò nel sonno.
Dorme la Morte, e sogna che esistano uomini vivi,
che s’innalzino case sulla terra, e palazzi e regni,
che vi siano giardini fioriti,
e che alla loro ombra passeggino donne gentili e cantino le schiave.
Sogna che sorga il sole, e che la luna illumini,
che giri la ruota del mondo, e che ogni anno porti erbe e fiori,
e frutti d’ogni sorta, e dolci piogge e neve;
e compia un altro giro rinnovando ancora la terra.
Sorride di nascosto la Morte, lo sa bene ch’è un sogno, vento multicolore,
fantasia della sua mente stanca, e tollera incurante che l’incubo la assilli.
Ma pian piano si rianima la vita, la ruota prende slancio;
la terra apre avida le viscere, penetrano pioggia e sole,
infinite uova si schiudono, la terra brulica di vermi,
muovono folti eserciti di uomini, uccelli, fiere, pensieri
e si avventano per divorare la Morte addormentata.
E una coppia di umani rannicchiata nelle grotte delle sue nari accende
e attizza il fuoco, poi si prepara il pranzo,
e al suo forte labbro sospende la culla del neonato.
Sente un solletico sulle labbra, un formicolio alle nari,
si scuote d’improvviso la Morte, così svanisce il sogno;
per un attimo fulmineo ha dormito, per quell’attimo ha sognato la vita.

Nikos Kazantzakis, da “Odissea”

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Joseph Wright of Derby, “Penelope disfa la sua tela alla luce di una candela”, 1783

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La patria mi stava stretta

“La patria mi stava stretta, sentivo oltre le sue rive
altre patrie dagli occhi ridenti, altre anime carnose,
tristezze e gioie di ogni sorta, fratelli e sorelle,
che sedute sulle rive aspettavano il mio ritorno!
Che tu sia benedetta, vita, per non essere rimasta
fedele a un solo matrimonio, come una donnicciola;
è buono il pane del viaggio e l’esilio è miele,
per un istante eri felice, godevi ogni tuo amore,
ma presto soffocavi, e a ogni amante dicevi addio.
Anima, la tua patria è sempre stata il viaggio!
La virtù più fertile al mondo, la santa infedeltà,
segui fedele tra risa e pianti, e più in alto sali!”
Nikos Kazantzakis, da “Odissea”, 1938
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Ulisse e Nausicaa

“Vivo in un regno millenario. Il cielo
passa sopra le torri come un’acqua
piena di canti. Posso vedere la luna
che avvolge gli uccelli, la pietra
dove qualcuno ha scritto che tutto è vano,
che il filo della tunica svanisce
per non trovarsi più. Tamarindi
c’erano che dalle foglie annunziavano
dolore e musica per le regine
che venivano dall’acqua più profonda.
E c’era la mattina, il mezzogiorno,
i giardini di pietra, il cacto nero.
Conservo ancora in mano un ramo
argentato dalla morte, e una storia
che parla di coloro che furono. Le mura
della città evocano ancora
una nave che a un’altra sponda
fu ancorata dal peso dei miei viaggi
tra ombre, lotofagi, e demoni.
Se tu sapessi, Nausicaa, come è stata
la mia vita da allora: non grata
per chi ha visto i fiori del melograno
sparsi sul proprio letto e nel ricordo,
mentre il cieco cantava e gli offrivano
una sedia di cedro e una favola.
Tu mi portasti nella città, nudo,
soltanto coperto dal mare di sabbia
e da foglie di luce del folto del bosco
per dire la mia gloria, la mia pena.
Io ti seguii credendomi un dio, quindi
sognando la mia isola felice
dove avevo lasciato tre colori
e un patio e una vigna e i miei amici.
Ma la regina non attese la mia nave,
la sognò in fondo alle agognate acque,
e sognò il mio scheletro abbagliato
da mezze luci e pesci e madreperla
dove la sera arriva a un tratto e il legno
non è altro che ponte di un giardino in ombre.
Nel suo sogno mi vidi, re abbattuto
dalla spada che tengo ancora occulta
per il re foraneo. Ho sognato allora
che sarei morto lontano dalla patria,
che non avrei rivisto negli specchi
le strade della mia Itaca né il volo
che propizia il mio arco nella gioia
perfetta dei marosi e delle pietre.
Vivo in un regno millenario, è vero,
un mare di gelsomini mi circonda,
entro nei boschi quando il cielo forma
la mezzanotte, solo e silenzioso
con la mia vita; il destino non mi lascia
lanciare la mia freccia, come vorrei,
dritta al cuore del cinghiale e della luna:
non colpisco il bersaglio e solo posso
pensare a te, Nausicaa. I feaci
non seppero vedere nel racconto
di Demodoco, il cieco, che avevano
nel salone di sandalo il più povero
e il più disincantato dei navigatori.
Io non ascoltai la storia dei miei viaggi,
perché nei tuoi occhi vedevo un’altra storia,
e quella notte sognai di un abito
che le tue mani adoravano, e di una spada.
Il resto, Nausicaa, non vorrei
ricordarlo: la nave fatta a pezzi,
i marinai morti e un fantasma
che vagava nel pineto dell’isola.
Dei pini che erano così belli
non mi rimane ormai nemmeno l’ombra.
Itaca era un giardino, ma oggi sento solo
il canto dei serpenti; rami duri,
prugnoli anziché mandorli e la pietra
dove qualcuno scrisse tutto è vano.
Messaggio per la regina
Serba questi versi. Non dire alla regina
quando mi hai visto, né in quali sentieri
del nascosto giardino. Non raccontarle
che ho parlato nel sonno di tigri e di uccelli,
né che insonne ho visto il purgatorio
in un libro di pagine stellate.
Le scrivo cose belle e notturne
dell’arancio e delle porte. Di’ soltanto
che uscendo dal castello sono stato chiamato.
Conserva questi versi, ne va della mia vita.”

Giovanni Quessep, “Lettera immaginaria”, da “Ulisse e Nausicaa”

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“Gruppo di Polifemo”,  copia romana in marmo di un’opera degli scultori Agesandro, Atenodoro e Polidoro, databile al I secolo a.C. circa (Museo archeologico nazionale di Sperlonga)

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Ulisse

“Io non sono mai partito da Itaca né ad Itaca sono mai tornato.
Non ho visto Priamo piangere sul corpo del figlio, né odorato
il profumo del legno con cui erano fatte le assi del cavallo
da cui sbucarono a notte i guerrieri che avrebbero distrutto
una città e fondato l’impero di una civiltà. Non ho rubato le armi
di Aiace né mai ho convinto Circe o Calipso a donarmi
per amore il corpo o la giovinezza, l’estasi o l’oblio.
A casa non ho mai avuto Penelope ad attendermi né Telemaco
ha mai cercato il padre che non sono mai stato.
Sono arrivato qui per caso,
qui dove non fioriscono gli ulivi e le mandorle non hanno il sapore
dell’estate e della sete. Ho visto molto, ho visto troppo
o troppo poco. Quanto basta per capire che in quel poco di spazio
che c’è tra un pianeta e le stelle c’è posto per tutto,
e che ogni giorno è felice se vuoi che lo sia;
e pieno di dolore, se non sai farne a meno.
Ora sogno di varcare un giorno le colonne d’Ercole
e d’incontrare, su una montagna bruna che esce dal mare,
un uomo che abbia il mio volto, le mie mani, i miei occhi
e mi dica: eri tu che io aspettavo, eri tu.
Non incontrerò mai quell’uomo, eri tu.
Non incontrerò mai quell’uomo, lo so,
ma a notte, mentre una donna che somiglia a Penelope
mi carezza con una tenerezza che Penelope non ha mai avuto,
sento che quell’uomo, nel buio, mi guarda
e mi parla di un’isola lontana, dove non sono mai stato,
dove non andrò mai perché è tempo ormai
di essere felice, qui, in questa via chiassosa di Manhattan
dove guardando un fast food intuisci
che il tempo è un’invenzione degli dei
che hanno invidia per gli uomini che muoiono.”

Emilio Piccolo (eteronimo di Luther Blissett)

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Odissea 2001
(Cape Canaveral, aprile 2001)
“Odisseo parte alle quattro del mattino
attraverso l’Universo piatto
un parametro
tra l’altro
dell’asse spazio-tempo.
Viaggia su Marte,
alla ricerca della vita
nel gelo
e nei camini vulcanici.
A navigare
attraverso tutte le sensazioni
nel Mare Pontino del vuoto interstellare
tormentato.
Morirà
per ritornare
in qualsiasi Terra,
qualsiasi Itaca, devastata da spasimanti,
qualsiasi patria
che una volta si produsse tra le stelle.
Ritornerà.
A svanire
nel primo istante d’amore
possibile.”
Zhivka Baltadzhieva (poetessa, traduttrice, ricercatrice bulgara) – Traduzione di Marcela Filippi
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Nell’immagine in evidenza: John William Waterhouse, “Ulisse e le sirene”, 1891

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