Affabulazioni

L’ultimo comunista

17.09.2023
Gli anni Settanta del secolo scorso sono stati anni difficili per l’Italia. Il carattere nazionale è stato messo a dura prova e ha prodotto una varietà di tipi umani, ognuno dei quali, debitamente raccontato, potrebbe essere proposto come rappresentativo per l’intero decennio. Il tipo piú interessante, però, e forse anche piú emblematico di quegli anni, io credo di averlo incontrato un po’ di tempo dopo, alla fine del decennio successivo. Forse nel 1987, o nel 1988.
Abitavo già in campagna e un giorno mi arriva una lettera di un circolo culturale, che mi invita per un incontro-conferenza in una piccola città a nord di Milano. Ricordo il tema dell’incontro e ricordo anche il titolo complessivo dell’iniziativa, ma naturalmente non lo trascrivo perché l’autore di quel titolo, che poi è anche la persona di cui intendo parlare, deve restare indeterminato. Un italiano degli anni Settanta.
Fin qui, tutto normale. Adesso incomincia la storia.
Allegato alla lettera c’è un biglietto da visita di un tale che, nel biglietto, si dichiara «comunista», senza altri titoli né qualifiche. Tal dei Tali, comunista. Sul biglietto, o sul retro del biglietto, c’è scritto a mano: «Nei prossimi giorni ti telefonerò e ti verrò a trovare, cosí parleremo di questa iniziativa».
Il nome Tal dei Tali mi è ignoto, ma l’uso confidenziale del «tu» anche tra sconosciuti è già largamente diffuso nell’epoca di cui ci stiamo occupando; e, del resto, è il minimo che ci si può aspettare da un comunista. L’ultimo dei comunisti rimasto tenacemente attaccato al «lei», in Italia, era Togliatti: che però, all’epoca di questa storia, è morto da piú di vent’anni…
Dopo qualche giorno, il Comunista viene a farmi visita. Arriva su una Mercedes nera con radiotelefono (autentico. In quegli anni che precedettero l’avvento dei telefonini, l’Italia era piena di Fiat Uno con antenne iperboliche che dovevano simulare la presenza a bordo di un radiotelefono, naturalmente assente. Sulla Mercedes del Comunista, invece, il radiotelefono c’era davvero).
Il mio primo impulso, quando lo vedo, è quello di mettermi le mani nei capelli: ma riesco a trattenermi. L’uomo ha piú o meno la mia età ed è «griffato» dalla testa ai piedi, cioè dagli occhiali scuri alle scarpe. Ci sediamo in giardino, sotto un grande albero di cachi che è (era) l’elemento piú caratteristico della casa dove abitavo allora e adesso non abito piú. Incominciamo a parlare e il Comunista, pian piano, mi appare sotto un’altra luce. Mi diventa addirittura simpatico.
Scopriamo di essere stati studenti alla Statale di Milano, piú o meno negli stessi anni: Lettere per me e Legge per lui. Finiti gli studi a metà degli anni Sessanta, ognuno imbocca la sua strada. Io, piú povero, devo dedicarmi per qualche anno all’insegnamento; lui, di famiglia medio-borghese e senza particolare urgenza di guadagnarsi da vivere, può prendersela con piú comodo. Si guarda attorno, fa qualche viaggio. Insieme ad alcuni amici d’infanzia, incappa nel Sessantotto: diventa Comunista e vive, per qualche anno, in una specie di delirio che ora mi racconta lucidamente, con il senno del poi.
«A quell’epoca, – mi dice per giustificarsi, – le teste volavano».
Io faccio segno di sí perché me la ricordo benissimo, quell’epoca, e il Comunista continua a raccontare la sua storia: una storia che non mi sarei mai aspettato di ascoltare in quel pomeriggio di giugno e da quella persona, poi! Una storia italiana degli anni Settanta. Mi racconta di essersi inoltrato nella pazzia di quegli anni, fino alla soglia della clandestinità e della lotta armata. Di avere capito, fortunatamente, che quella soglia era senza ritorno. Di essersi fermato in tempo.
Mi racconta di un suo amico d’infanzia che è ancora in carcere nel momento in cui ne parliamo. E poi, di un altro amico che una notte d’estate si presenta a casa del Comunista, con una cassetta piena di armi. Gli dice: «Tienile tu, perché io devo scappare».
«Quella notte – mi confida il Comunista – è stata il momento centrale della mia vita. Sono andato a Cremona, sul ponte del Po, e ho buttato la cassetta giú dal ponte. Poi sono risalito in macchina e ho continuato a guidare, a caso, senza sapere dove andassi. Seguivo il corso dei miei pensieri. Ero diventato una persona adulta e, a mio modo, normale».
«Però, sono rimasto comunista».
Mi dà l’altro suo biglietto da visita, quello ufficiale con il titolo di avvocato e la qualifica, in inglese, del ruolo che svolge presso non so piú quale azienda o società finanziaria. Ha fatto carriera e, ora che mi ha raccontato la sua storia, sente il bisogno di scusarsi per i vestiti griffati e per il radiotelefono: «Sono la mia tenuta da lavoro».
Mi spiega che la parola comunista sul biglietto da visita significa disponibilità per gli altri esseri umani, e che la politica non c’entra piú. Lui, attualmente, dedica una parte dei suoi soldi e del suo tempo libero a un’organizzazione che assiste, in tutto il mondo, le persone piú disgraziate e piú povere; e ha fondato, nella sua città, un circolo culturale, per dare vita a delle iniziative che altrimenti non esisterebbero.
Il comunismo, mi dice, è anche questo: «È aiutare la gente a pensare con la sua testa, anziché con la televisione».
La storia dell’ultimo comunista finisce qui. Da allora, sono trascorsi vent’anni e io non ho piú avuto occasione di rivedere il mio personaggio. Non so piú niente di lui.
Non so se ha ancora i due biglietti da visita o se ha conservato soltanto quello ufficiale, dell’avvocato e della qualifica in inglese. Non so se si dichiara ancora comunista. Non so nemmeno se è ancora vivo. Forse è morto.
Ogni volta che penso agli anni Settanta penso a lui. Nella mia memoria, lui è l’Italiano di quegli anni.
Sebastiano Vassalli, in Eraldo Affinati, “Questo terribile intricato mondo”, 2008

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