Affabulazioni

L’ultimo giorno di scuola

03.11.2023
Non posso ricordare senza un brivido il mio ultimo, terribile giorno di scuola a Brusino, su un certo lago mezzo italiano e mezzo svizzero che non vi dico. Perché terribile? Giudicate voi stessi. La mia classe era una quarta mista, ma così mista che nei primi banchi erano rimasti non pochi scolari di terza. Verso le dieci mi accinsi a dettare il tema che, nelle mie intenzioni, doveva solennizzare la chiusura dell’anno scolastico e — durante lo svolgimento — permettermi di completare una poesia cominciata la sera prima. Lo confesso, e voi perdonatemi: facevo le poesie a scuola. Ero un pessimo maestro e un pessimo poeta. Ma è acqua passata.
Nel dettare mi trovai alle spalle del solito Orlando Parini. Quello era senz’altro un ottimo punto di osservazione, se mi andava di sorprendere al volo un errore di ortografia e di commentarlo con qualche battuta di spirito. Il bravo Orlando riusciva spesso a mettere un errore anche nell’articolo «il», e nemmeno quella volta mi deluse, perché — senza mai cessare di mordersi coscienziosamente la lingua — lo vidi scrivere tutto soddisfatto:
— Oggi è l’ultimo giorno di squola.
Proprio così: squola, con una bellissima «q» che avrebbe fatto la felicità di un acquedotto.
— Caro e degnissimo signor Orlando… — cominciai. Ma non potei finire la frase, perché in quello stesso momento la porta si aprì, e nell’aula fece il suo ingresso uno sconosciuto. Egli mi fece un profondo inchino, permettendomi così di notare che portava sul capo la metà di un berretto del genere di quelli che usano i ferrovieri: e quella pericolante metà era assicurata alla testa per mezzo di una cordicella.
— Il signor maestro ha chiamato? — domandò il personaggio, risollevandosi dal suo inchino.
— Non ho chiamato nessuno, — risposi il più gentilmente possibile, — ma comunque non avrei chiamato lei, della cui esistenza ero del tutto ignaro fino a trenta secondi or sono. Vuol avere la bontà di presentarsi?
— Ma sono il bidelo, — disse lo sconosciuto, indicando con un dito il suo mezzo berretto.
— Vorrà dire il bidello, — corressi, — con due elle, signor mio: bidello.
— Eh, magari, — sospirò il mezzo berretto, — magari fosse come dice lei! Purtroppo sono soltanto un bidelo.
— Sarà, ma noi abbiamo invece una bidella, e quella ci basta. Tanto più che è anche grassottella.
— Per favore, — disse il personaggio, — guardi dalla finestra.
Troppo meravigliato per invitarlo ad occuparsi dei fatti suoi, gettai un’occhiata attraverso i vetri. Aiuto e misericordia! Dove era il magnifico panorama da me cantato in tanti sonetti? Il lago era scomparso. Scomparsi i cigni, gli abeti, le ville, i battelli. Scomparso il paese. Il nostro caro edificio scolastico era circondato da uno spaventoso deserto, nel quale crescevano qua e là alberi orribili, ficcati nella terra con la chioma all’ingiù e con le radici al vento.
— Che succede? — mormorai. — Dove ci troviamo?
— Sul pianeta sbaliato, — rispose il bidelo.
— Vorrà dire «sbagliato», con la «g», — corressi.
— Ma è «sbaliato» appunto perché non ha la «g»! La vuol capire o no?
— Insomma, cosa c’è da capire?
— Signor maestro, una cosa semplicissima: un suo scolaro deve aver fatto un errore di ortografia più grosso del solito, per colpa del quale l’intera scuola è precipitata nel Pianeta Sbaliato, detto pure Pianeta degli Errori. Difatti è qui che si radunano, da tutte le parti dell’universo, gli errori di ortografia e le loro conseguenze.
Gli occhi mi caddero sul quaderno di Orlando, su quella «squola» con la «q»… Tutto era chiaro, ahimè, ahinoi! Ma non ebbi cuore di rimproverare il colpevole, che mi guardava mite e affettuoso come sempre, e non si rendeva conto di nulla.
— Non se la prenda, — disse il bidelo, — anch’io sono qui per un errore. E per giunta con solo metà del mio berretto: per averlo intero mi è mancata una «elle».
— E ora che succederà?
— Oh, niente. Tutta la scuola rimarrà su questo pianeta fino al momento in cui tutti gli scolari riusciranno a scrivere una riga intera senza erróri.
Detto ciò, il bidelo mi regalò un secondo inchino e disparve.
— Ragazzi, — dissi, — non perdiamo tempo. Svolgete il vostro tema con la massima attenzione. Mi raccomando l’ortografia che a questo punto, per noi, è questione di vita o di morte. Orlando, siamo intesi?
Orlando mi sorrise beato. Le teste si chinarono sui banchi, le penne aggredirono i calamai…
— Signor maestro, — protestarono diverse voci, dai diversi punti cardinali, —quest’inchiostro non scrive.
Come se fosse stato dietro la porta a origliare, ricomparve miracolosamente il bidelo, per annunciare tra due inchini: — Per forza non scrive: è inchiostro senza «acca», semplicemente «inciostro». Non macchia nemmeno i pantaloni. E purtroppo non vi posso essere utile in altro modo: la mia pena ha una sola enne, ed è assolutamente inservibile…
Distribuii delle matite e mi disposi a sorvegliare Orlando, deciso — se non proprio a suggerirgli — a tentare di trasmettergli le correzioni col pensiero. Ma ecco di ritorno il diabolico bidelo:
— Signor maestro, non viene più acqua dai rubinetti.
— E cosa vuole che me ne importi?
— Dicevo per dire. Forse qualcuno dei suoi scolari ha scritto «acua» senza «q», e ha provocato un guasto degli impianti…
— È stata Clara! — gridò Rosetta, additando la sua compagna di banco.
Clara scoppiò in singhiozzi. Tre banchi avanti le risposero i singhiozzi della sua gemella, Albertina. Le due bambine si amavano teneramente, e se piangeva l’una piangeva anche l’altra.
— Per l’amor del cielo! — gridai. Stavo proprio per perdere la pazienza, quando il mezzo berretto dell’eterno bidelo si riaffacciò. Portava una carta geografica.
— Ma che fa? Che vuole? Le ho forse chiesto qualcosa?
— Io ubbidisco alle disposizioni superiori, — protestò il bidelo. — Ecco guardi: questo qui ha scritto «Itaglia» con la «g».
«Questo qui» era Ossola Giuseppe di Giuseppe (così chiamato per distinguerlo da Ossola Giuseppe di Carlo e da Ossola Giuseppe di Antonio).
— Ed ecco il risultato, — trionfò il bidelo, mostrando alla scolaresca la carta geografica. Vi era raffigurata una povera Italia sopravvissuta a qualche spaventoso cataclisma: la Sicilia era al posto della Lombardia, Milano galleggiava con l’isola d’Elba nel golfo di Napoli, Roma era in cima al Monte Bianco… Povera patria, tutta sbagliata! Ma sospirare e rabbrividire non serviva a nulla. Intanto ci accorgemmo con ribrezzo che dalla porta, lasciata semiaperta dal bidelo, scivolavano dentro topi a dozzine, zampettando e squittendo come se li avesse chiamati il pifferaio di Hammelin.
— Al solito, — commentò il bidelo. — Dai topi non ci possiamo proprio difendere, sa? Abbiamo solo trapole con una «p» sola: scappano fuori che è un piacere. E il bello è che…
Ma non saprò mai che cosa fosse «bello» per il mio bidelo, perché nel bel mezzo della frase egli scomparve. E scomparvero con lui i topi. E sul muro la carta geografica si ricompose, e l’Italia assunse l’usata forma di uno stivale. E fuori dalla finestra ricomparvero i cigni, il lago, i boschi, il villaggio. Eravamo tornati sulla terra! Vittoria! La fatidica riga senza errori era stata scritta. Guardai sul quaderno di Orlando e vi lessi: «Mi dispiace lasciare il mio caro maestro». Orlando mi restituì lo sguardo, beato; ma stavolta aveva il diritto di sorridere, perché non aveva fatto il minimo sbaglio.
— Basta così, — ordinai, prima che un nuovo errore ci esiliasse per la seconda volta sul Pianeta Sbaliato. — Basta così, per oggi e per quest’anno. Buone vacanze a tutti!
Gianni Rodari, da “Il libro degli errori”, 1974

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