Pensieri

Io li odio, i miei libri, a volte…

12.12.2023
Io li odio, i miei libri, a volte, perché pretendono attenzioni che non posso dare a tutti, e che comunque sottraggo agli umani, e perché mi rimproverano in un modo più potente di quanto non facciano i miei familiari. Ogni copertina è una promessa e un rimprovero: leggimi, ti cambierò la vita, vedrai come sono bello, come ti farò sentire, che cosa ti insegnerò, amico mio, e invece tu non mi hai letto, bastardo. L’intensità della loro promessa e del loro rimprovero varia, naturalmente, in base agli autori, ai titoli, alle edizioni. Chi vive tra i libri e ci lavora lo sa, leggere è soltanto una delle cose che si possono fare con i libri, e non sempre la più importante. I libri li giudichi anche guardandoli, toccandoli, aprendoli. I più molesti sono i manoscritti degli amici o dei vicini di casa: roba di gente a cui hai promesso un parere per simpatia affetto gratitudine e che, però, detesti perché sai già che ogni riga scritta da loro sarà una riga sottratta allo sconfinato oceano dei capolavori ancora ignorati e alle più modeste righe che potrai scrivere tu. Sono ancora più fastidiosi i libri che non vuoi avere in casa e di cui dovrai liberarti, le novità che ignorerai pervicacemente e in piena coscienza, e in questo caso quello risentito sei tu, perché non capisci come quei libri inutili possano osare richiedere il tuo tempo e la tua attenzione.
All’estremo opposto ci sono i classici intonsi, i libri che non hai mai letto, anche se sai che avresti dovuto, perché ti annoiavano dopo poche pagine, perché l’incontro non è scoccato nel momento giusto, perché ti stavano antipatici: il loro rimprovero sconfina nel risentimento e nel disprezzo: hanno la faccia autorevole e offesa: il loro sguardo passivo-aggressivo ti fa sentire in colpa.
L’ho imparato anni fa in una delle più mostruose giornate della mia vita. I libri ci guardano, e in qualche misura ci leggono, e il loro giudizio su di noi cambia a seconda delle circostanze. Era un inizio di agosto, per rimbiancare la casa avevo svuotato le librerie e portato i libri in cantina, imballati dentro scatoloni sigillati che avevo posato sugli scaffali o sul pavimento della cantina, dopo averli isolati per l’umidità stendendo teli di plastica e cartone. Inutilmente. Agosto a Milano, anche prima di oggi, è sempre stato un mese di nubifragi e piogge torrenziali che gonfiano i fiumi, allagano le strade e scorrono ovunque, infiltrandosi perfino dentro le finestrelle alla base dei palazzi per dare un po’ di luce e aria alle cantine. Era l’inizio di settembre, quando andai a recuperare i miei libri. Mi accorsi subito che qualcosa non andava: la luce era saltata – ma non ci diedi peso. Illuminando la scena con una torcia mi chinai a sollevare il primo scatolone, ma quando lo alzai il fondo rimase come appiccicato alla terra. All’inizio non compresi. Non vedevo, era buio. Provai a sollevarne un altro, ma il fondo si staccò di nuovo. Feci luce con la torcia, tenendola in bocca, e ci misi dentro le mani. Gli strati più bassi degli scatoloni pieni di libri – una quarantina – erano completamente marciti. Via via che li riportai in superficie, mi resi conto delle dimensioni della catastrofe. (…)
C’erano Gettoni, Meduse, Fenici che si dice rinascano dalla cenere, ma non dalla pioggia. Immergevo le mani negli scatoloni per scegliere, uno per uno, chi era perduto e chi potevo salvare, ed erano molti di più quelli da buttare, perché la maggior parte era irrecuperabile, formavano una pasta, l’inchiostro nero colava sul bianco. Quando viene bagnata, la carta regredisce a un impasto di cellulosa primordiale, le pagine sembrano riprecipitare nel mondo vegetale da cui provengono, allo stato di fogli-cortecce-papiri, ma prima di ritrasformare i libri nell’informe, l’acqua li risveglia.
Anche nella poesia L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, che Montale scrisse il 27 novembre 1966 dopo lo straripamento dell’Arno a Firenze, l’acqua si mangia i libri e li fa cantare per l’ultima volta – i marocchini rossi, le sterminate dediche di Du Bos, / il timbro a ceralacca con la barba di Ezra, / il Valéry di Alain, l’originale / dei Canti Orfici –, l’acqua rimette in disordine il filo delle parole, lo ingarbuglia di nuovo in modo che non sia più districabile, riporta il linguaggio all’orrore, a un mondo in cui nulla è stato ancora detto. L’ultima immagine di quella tragica mattina è l’ultimo libro buttato: L’ultimo giorno di un condannato, edizione SE. Rivedo la copertina nella mente, come se fosse oggi: Victor Hugo a braccia incrociate dentro un cassonetto, sopra una fossa comune di libri, che mi fissa furioso. (…)
Ma c’erano anche i libri che avevo scritto io, per esempio le ultime copie esistenti della prima edizione di Accusare. Storia del Novecento in 366 foto segnaletiche. Ricordo che non provai un particolare dolore. Era come se il disastro rendesse i libri uguali, come dovrebbero esserlo gli esseri umani, ma soprattutto raccontasse che erano tutti legati tra loro, che ogni riga è una stringa che misteriosamente, in segreto, è annodata ad altre righe di altri libri scritti in altre epoche e provenienti da altri mondi, e che questa è l’essenza di ogni biblioteca e di ogni libreria, le relazioni invisibili, mai notate oppure dimenticate, che i libri intrattengono tra loro in segreto, anche quando stanno chiusi sugli scaffali per decenni, mentre noi siamo usciamo dalla stanza o dormiamo oppure scriviamo ignorando che ogni nuova pagina, paragrafo, riga, parola che scriveremo, per quanto originale possa essere, si annoderà necessariamente ma misteriosamente a pagine, paragrafi, righe, parole scritte da altri esseri umani e sepolte nei libri che abbiamo letto e dimenticato, ma anche in quelli che continuano a guardarci.
Giacomo Papi, in Carlotta Sanzogni, Pietro Baroni, “Dove si scrive, come si scrive”, 2023
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Nell’immagine: Egon Schiele, “Natura morta con libri”, 1914

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