Affabulazioni

Tenacia femminile

13.12.2023
Da bambino ricordo di aver visto, a casa dei nonni materni, una foto che ritraeva alcuni uomini vestiti a festa in piedi su di un promontorio che sovrastava una città di mare. Il paesaggio alle spalle di questi uomini, tra i quali c’era mio nonno, era carico di suggestioni. Il porto, le navi, il golfo, apparivano disegnati da quanto erano perfetti e il bambino ne rimaneva affascinato. Sul retro della fotografia una fugace nota ricordava l’occasione e il luogo in cui era stata scattata: Pasqua del 1940, Durazzo, Albania.
Fu con quell’immagine in mente che, cinquantuno anni dopo la data riportata sulla foto, aprii gli occhi sulla realtà dell’Albania e di quella città che mi era apparsa così suggestiva da bambino. Nel mese di marzo del 1991, dallo stesso porto dove era sbarcato mio nonno per sostenere le ambizioni imperiali del Duce, partivano vecchie navi cariche di uomini e donne di ogni età. Più tardi si contarono in circa ventimila gli albanesi che, quasi presi da un raptus escapistico, nell’arco di poche settimane erano saltati a bordo di questi scafi malandati con l’idea di raggiungere l’Italia e sfuggire così dalle incertezze dell’Albania post-comunista.
Ana e le sue tre bambine erano a bordo di una di queste navi.
Alcuni mesi prima, nell’estate del 1990, l’Abania era stata scossa dalle prime manifestazioni di protesta pubbliche in quarantacinque anni, quanto era durato il duro regime nazional-comunista retto per quasi tutto il tempo da Enver Hohxa, morto nel 1985. Migliaia di persone si erano riversate all’interno delle ambasciate dei paesi occidentali chiedendo asilo. Circa 800 di esse vennero accolte in Italia, ricevute con benevolenza in quanto “dissidenti” di un regime in via di sfaldamento in un paese con forti legami con il nostro. Per loro, i primi immigrati albanesi, la strada dell’asilo politico non fu difficile, ma bastarono pochi mesi e un certo numero di navi perché il clima generale cambiasse, e degli albanesi si cominciasse a parlare con toni diversi, sempre più orientati verso l’allarmismo, l’insofferenza, per finire nel razzismo.
Fra quei primi fortunati accolti da profughi in Italia c’era il marito di Ana, anzi l’ex marito, visto che da circa un anno vivevano separati. Oggi entrambi risiedono in Friuli, in paesi diversi della provincia di Udine. Lei ha con sé le tre bambine, ormai diventate ragazze, e convive con un friulano.
Ana è una donna minuta di 46 anni, ha uno spirito istintivamente comunicativo e gioviale. Mentre mi racconta la sua storia, le sue tre figlie, due gemelle di quindici anni e la maggiore di venti, siedono attorno a noi, sedute sul divano e sul tappeto, intervenendo con commenti e richieste di chiarimenti. Parte della storia familiare è poco nota anche a loro, che sono cresciute in quello che considerano, legittimamente, il loro paese. Per la mamma è diverso, anche se tutti i suoi parenti ormai vivono in Italia il legame con l’Albania è ancora forte.
«Se non ci fossero state le bambine, sarei tornata in Albania», dice riferendosi ai primi tempi.
Ma oggi la situazione è cambiata. Da alcuni anni si è legata ad un uomo di qua, che ha costruito con lei, le sue figlie e la nonna arrivata dall’Albania, una nuova famiglia. Insieme hanno deciso di comprare casa e per questo stanno pagando un mutuo.
«Per comprare casa ho dovuto vendere il mio appartamento a Durazzo e un po’ mi dispiace. Se avessi soldi, mi piacerebbe avere una casa anche là per andare a trascorrere le vacanze. Quella rimane pur sempre la mia terra».
In Italia Ana in un primo momento non ci voleva venire. In Albania aveva un lavoro da infermiera, un lavoro che le dava soddisfazione. Aveva lavorato per molti anni nell’ospedale cittadino e dopo il parto gemellare era passata in servizio presso un istituto per bambini abbandonati. Riusciva a gestire la sua vita professionale anche con le tre bambine, che dopo la separazione dal marito aveva scelto di crescere da sola, con l’aiuto dei familiari. Raggiunta rocambolescamente l’Italia, l’ex marito aveva tuttavia cominciato a scriverle. Nelle sue lettere le descriveva la nuova situazione, diceva di essere cambiato, le faceva promesse di una nuova vita, lontana dalle tensioni che scuotevano quello che era stato il paese più silenzioso del mondo. La moglie e le bambine costituivano ancora la sua famiglia, una famiglia che in Italia diceva di voler riprovare a tenere unita. Ana per alcuni mesi tentennò di fronte alle promesse dell’uomo.
Quella sera, era tardi, le undici passate, quando un fratello dell’ex marito suonò alla sua porta dicendole di prendere le bambine e seguirlo subito al porto dove stava salpando una nave per l’Italia, lei disse istintivamente di no. Non voleva gettarsi in un’avventura. Il cognato insistette, disse che una donna sola con tre bambine nell’Albania di quei giorni non ci poteva stare. Nella sua vita serviva la presenza di un uomo, e quell’uomo era il marito che le voleva in Italia.
«Mia madre mi disse di non fidarmi del mio ex marito, che non sarebbe cambiato neanche in Italia».
Arrivarono al porto in mezzo ad una grande confusione. La “Tirana” era zeppa di persone ma nessuno controllava quante ce ne potessero stare.
«Secondo me c’era un accordo tra i governi, non mi spiego come fu possibile che le navi partissero in quelle condizioni».
La partenza venne ritardata da un incidente avvenuto nel porto, un incendio scoppiato su di un’altra nave ferma nella rada. La tensione saliva, nessuno capiva e spiegava niente, la gente cominciò a scendere precipitosamente, Ana prese le bambine per mano e tornò a casa.
«Io in Italia così non ci vado», disse ai parenti. Ma il giorno dopo uno dei suoi fratelli venne ad avvisarla che la nave quel giorno sarebbe effettivamente partita e lei doveva esserci. Doveva portare le bambine lontano dal caos.
Erano giornate terribilmente confuse. Pochi giorni prima, il 20 febbraio, a Tirana gruppi di manifestanti avevano demolito la grande statua di Enver Hoxha senza che la polizia intervenisse. In un paese che aveva convissuto con il più longevo e spietato culto della personalità dell’intero blocco comunista, era un segnale inequivocabile di una situazione ormai fuori controllo. Il governo di Ramiz Alia, il successore di Hoxha, vacillava di tronte alla crisi economica, alle proteste popolari e alle promesse populiste di Sali Berisha e del suo Partito democratico, ben presto finanziato dalla potente comunità albanese degli Stati Uniti.
«Mi convinsi a partire per le bambine. In Albania non si stava tranquilli, c’erano furti, violenze, cose mai viste prima».
La sera successiva alla partenza fallita, la nave alfine riuscì a salpare.
Ana dice di aver rimosso tutto quello che successe nelle venti ore successive, quante ne passarono prima di raggiungere Brindisi e l’Italia. Rimase stordita dal fatto di trovarsi sul ponte ammassata accanto ad altre persone senza una valigia, una borsa, nulla. Tutti erano saliti sulla nave con indosso solo i vestiti e una speranza senza fine. Anche lei e le sue bambine non avevano portato bagagli, solo una borsa con un po’ di cibo. La figlia più grande, che al tempo era una bambina di sette anni, ricorda che erano gli unici ad avere del cibo e dell’acqua.
«Quello che avevamo portato finì in pochi minuti, non potevamo mangiare solo noi con tutti quegli occhi di bambini che ci guardavano», dice la ragazza.
Ana visse il viaggio con l’angoscia di proteggere le sue bambine da una situazione assolutamente precaria. Non c’era modo di utilizzare dei servizi igienici, tutto avveniva sul ponte, allo stesso modo per i grandi e per piccoli, con le conseguenze che si possono immaginare.
La nave arrivò a Brindisi la sera successiva ma lo sbarco venne autorizzato solo il mattino dopo. Pur nella confusione generale, l’accoglienza fu positiva. La madre con le tre bambine venne fatta scendere tra i primi e accompagnata in ospedale per un controllo. Poi furono accompagnate in un campo di accoglienza dove, a distanza di un giorno, vennero raggiunte dal marito e padre.
«Oltre all’angoscia per quel viaggio, dentro di me non ero tranquilla, mi ero portata dietro un grande dubbio, non ero convinta di riprendere la vita con lui, ma decisi di dargli fiducia».
Max Mauro, da “La mia casa è dove sono felice. Storie di emigrati e immigrati”, 2005
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Nell’immagine: Foto “The Vision”

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