Affabulazioni

Leggenda privata

04.01.2024
Nacqui d’inverno, concepito in un raptus. Mia madre tutto fuorché volgarotta. Solo talento e intelligenza, ma talmente distruttiva da diventare l’ultracorpo di se stessa, una perfetta macchina di dolore. Ma alla fine la vidi solo come un’aliena, di giorno l’ultracorpo triste, di sera l’ultracorpo sorridente, nei sogni l’ultracorpo che urla. È slava, tua mamma? Quante volte me lo sono sentito chiedere. Slava no schiava sí, l’etimo è lo stesso.
Non ci vuole molto a cogliere l’antifona: cristallizzandomi, mi sono falsificato: e vivendo e scrivendo, e scrivendo della mia vita e vivendo nella mia scrittura. Così, ora, mi chiedono un nuovo romanzo, per il quale hanno già scelto il titolo: “Autobiografia”.
Ho dovuto fare tutto da solo per tutta la vita, vi ho dovuto supporre, fingendo che i miei monologhi fossero dialoghi: e adesso che vi ho consegnato alla forma e vi ho reso storia, adesso vi fate vivi e volete incominciare a giocare. Per questo siete orrendi, non perché siete veri, ma perché siete veri tardi.
Uscitone, e considerandolo dalla specola alta, tutta quella pena e quel turbamento diventano letteratura: ma a starci dentro garantisco che non lo erano, letteratura.
Fuggire dai piccoli orrori della vita, fuggire dalla famiglia per essere ghermiti dai demoni non è un grande affare: o meglio lo è sotto l’aspetto estetico-romanzesco, ma per il resto, credetemi, cinghia per cinghia… urlo per urlo…
Riconoscersi-progettarsi nel figlio è cosa buona e giusta, nell’ammissione dell’alea, del divenire; altra cosa è pretendere un figlio a propria somiglianza ed imago.
Essere un Mari significava anche questo: assomigliarsi molto, salvo giocarsi ognuno per conto suo la propria drammatica unicità.
Non era un bluff: sono stanco. Stanco di fare sempre un passo di lato per vedermi: e scriverne.
Ho sempre messo a forza me stesso in tutti i paesaggi narrativi che ho creato. Oggi, tradendo quel pudore classicistico per cui la confessione è disdicevole, ricattatoria, piagnucolosa, l’ho fatto direttamente. Diciamo che nel fondo di ciò che ho scritto ho sentito agitarsi l’animale biopsichico, il grumo esistenziale non sempre intuibile o traducibile in scrittura. Ho cercato di recuperare aspetti della mia vita che avevo nella penna ma per lungo tempo senza l’estro o la forza di raccontarli. E quando questo è accaduto ho capito che non dovevo edulcorarli, abbellirli. Ho capito che l’affetto che porto verso certe persone passa anche attraverso la guerra e il conflitto. La mia giornata tipo è indolente; si svolge in una reclusione casalinga. La mia creatività finisce alle sei del pomeriggio. Dopo quell’ora non combino più niente di significativo. Per esempio non ho mai scritto dopo cena. Ho una vita sociale molto ristretta. Riesco a stabilire rapporti profondi solo con il genere femminile. Credo dipenda dalla vita vissuta in famiglia. Ho una visione foscoliana: le donne sono ninfe neoclassiche, gli uomini barbari e predoni. L’unico ambito in cui mi sono trovato bene tra maschi è il calcio.
«Se la madre non lo difendeva, si formava talvolta nella mente del figlio la delirante intenzione di difenderla lui, come si evince da una fotografia scattata dal padre: autentico scudo umano, il figlio si frappone con uno sguardo che dice: “Dovrai passare sul mio cadavere”».
L’Accademia dei Ciechi ha deliberato: Michele Mari deve scrivere la sua autobiografia. O, come gli ha intimato Quello che Gorgoglia, «isshgioman’zo con cui ti chonshgedi». Se hai avuto un padre il cui carattere si colloca all’intersezione di Mosè con John Huston, e una madre costretta a darti il bacino della buonanotte di nascosto, allora l’infanzia che hai vissuto non poteva definirsi altro che «sanguinosa». Poi arriva l’adolescenza, e fra un viscido bollito e un Mottarello, in trattoria, avviene l’incontro fatale: una cameriera volgarotta e senza nome che accende le fantasie erotiche del futuro autore delle “Cento poesie d’amore a Ladyhawke”… Ma è davvero una ragazza o un golem manovrato da qualche Entità? Assieme a lei, in una «leggenda privata» documentata da straordinarie fotografie, la famiglia dell’autore e il suo originalissimo lessico. E poi la scuola, la cultura a Milano negli anni Sessanta e Settanta, e alcune illustri comparse come Dino Buzzati, Walter Bonatti, Eugenio Montale, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber. Chiamando a raccolta tutti i suoi fantasmi e tutte le sue ossessioni (fra cui un numero non indifferente di ultracorpi), Michele Mari passa al microscopio i tasselli di un’intera esistenza: la sua. Un romanzo di formazione giocoso e serissimo che è anche un atto di coerenza verso le ragioni più esose della letteratura.
Michele Mari, da “Leggenda privata”, 2017

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