Pensieri

Inquietudini…

04.01.2024
(7)
Sono entrato dal barbiere con la disposizione consueta, col piacere che mi dà il fatto di poter entrare senza imbarazzo nei luoghi conosciuti. La mia sensibilità al nuovo è terribile: mi sento calmo solo nei luoghi in cui sono già stato.
Mentre mi accomodavo sulla poltrona mi è venuto fatto di domandare al garzone che mi stava collocando intorno al collo un lino freddo e pulito, come stesse il suo collega che serviva alla poltrona accanto, quel tipo spiritoso, più anziano di lui, che era malato. Glielo ho domandato senza che mi premesse sapere: è stata una domanda suggerita dal luogo e dal ricordo. “E’ morto ieri,” mi ha risposto senza tono la voce che stava dietro di me e le cui dita stavano finendo di inserire l’asciugamano fra la mia nuca e il mio colletto. Tutto il mio immotivato buonumore è svanito all’improvviso, come il barbiere della poltrona accanto assente per l’eternità. E’ sceso il freddo sui miei pensieri. Non ho detto niente.
Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la vita.
Il vecchio anonimo dalle ghette sporche che mi incrociava quasi sempre alle nove e mezzo del mattino? Il venditore zoppo dei biglietti della lotteria che mi seccava senza successo? Il vecchietto tondo e rubizzo, col sigaro in bocca, che sostava sulla porta della tabaccheria? Il pallido tabaccaio? Cosa ne sarà di tutti costoro che, solo per averli sempre visti, hanno fatto parte della mia vita? Domani anch’io scomparirò da Rua da Prata, da Rua dos Douradores, da Rua dos Fanqueiros. Domani anch’io – l’anima che sente e pensa, l’universo che io sono per me stesso – sì, domani anch’io sarò soltanto uno che ha smesso di passare in queste strade, uno che altri evocheranno vagamente con un “che ne sarà stato di lui?”. E tutto quanto ora faccio, quanto ora sento e vivo non sarà niente di più che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi.
(34)
Oggi è partito per la sua terra natale, pare definitivamente, colui che viene designato come il fattorino, quello stesso uomo che ero abituato a considerare come parte di questa casa umana e dunque come parte di me e del mio mondo. Se n’è andato oggi. Nel corridoio, quando ci siamo incontrati casualmente per l’attesa sorpresa del commiato, gli ho dato un abbraccio che mi ha timidamente ricambiato, e ho avuto sufficiente coraggio per non piangere come, dentro il mio cuore, desideravano senza che io lo volessi i miei occhi caldi.
Ogni cosa che è stata nostra, seppur solo per accidente di convivenza o di visione, appunto perché è stata nostra diventa noi stessi. Oggi per me non è stato dunque il fattorino dell’ufficio a partire per un paesino della Galizia che ignoro, è stata una parte vitale, perché visiva e umana, della sostanza della mia vita. Oggi ho subito un’amputazione. Non sono più esattamente lo stesso. Il fattorino dell’ufficio è partito.
Tutto quanto succede nel dove in cui viviamo, succede in noi. Tutto quanto cessa in ciò che vediamo, cessa in noi. Tutto ciò che è stato, se lo abbiamo visto quando era, quando se ne va è tolto da dentro di noi. Il fattorino dell’ufficio è partito.
Più pesante, più vecchio, meno volitivo mi siedo all’altra scrivania e continuo la contabilità della partita di ieri. Ma la piccola tragedia di oggi interrompe, con meditazioni che devo faticosamente arginare, il processo automatico della contabilità della partita. Riesco a lavorare solo perché posso, con un’inerzia attiva, essere schiavo di me stesso. Il fattorino è partito.
Sì, domani o un altro giorno, o quando suonerà per me la campana senza suono della morte o della partenza, anch’io sarò colui che non è più qui, un libro di copia che sarà riposto nell’armadio del sottoscala. Sì, domani o quando il Destino lo dirà, avrà fine colui che ha finto in me di essere me. Andrò nel mio paese natale? Non so dove andrò. Oggi la tragedia è visibile per l’assenza, sensibile perché non merita che si senta. Dio mio, Dio mio, il fattorino è partito.
(104)
Mi sembra una sorta di mancanza di igiene, questa inerte permanenza della mia vita uguale e identica nella quale giaccio, rimasta come polvere o sporcizia sulla superficie del non cambiare mai.
Così come laviamo il nostro corpo dovremmo lavare il destino, cambiare vita come cambiamo biancheria: non per provvedere al sostentamento della nostra vita, come col cibo e col sonno, ma per quell’estraneo rispetto per noi stessi che giustamente si chiama pulizia.
C’è gente per la quale la mancanza di pulizia non è una disposizione della volontà ma un’alzata di spalle dell’intelligenza. E ci sono anche persone per le quali lo squallore e l’uniformità della vita non sono una forma di volontà o un naturale adeguamento a ciò che non volevano, ma una cancellazione della comprensione di se stessi, un’ironia automatica della conoscenza.
Ci sono persone sporche che detestano la loro sporcizia ma non se ne allontanano per quell’attrazione dell’abisso grazie al quale chi è terrorizzato non si allontana dal pericolo. Esistono persone sporche di destino, come me, che non si allontanano dalla trivialità quotidiana per il medesimo fascino che provano per la propria impotenza. Sono uccelli ammaliati dall’assenza di un serpente; mosche che volano cieche sui rami fino ad arrivare alla portata della lingua vischiosa del camaleonte.
Così porto a spasso lentamente la mia consapevole inconsapevolezza sul mio ramo d’albero dell’abitudine. Così porto a spasso il mio destino che avanza senza che io avanzi; e il mio tempo che procede senza che io proceda. E niente mi salva dalla monotonia, se non questi brevi commenti che tesso intorno a lei. Mi basta che la mia cella abbia delle vetrate dietro le grate, e scrivo sui vetri, sulla polvere del necessario, il mio nome in lettere maiuscole, la firma quotidiana del mio contratto con la morte.
Con la morte? No, nemmeno con la morte. Chi vive come me non muore: finisce, appassisce, cessa di vegetare. Il luogo dove egli fu resta senza che egli vi sia, la strada dove camminò resta senza che egli vi sia visto, la casa dove abitò è occupata da non-lui. E’ tutto e lo chiamiamo nulla; ma questa tragedia della negazione non può essere recitata neppure fra gli applausi, perché non sappiamo di sicuro se essa è nulla, noi, vegetali della verità come della vita, polvere depositata sull’esterno e sull’interno dei vetri, nipoti del Destino e figliastri di Dio che sposò la Notte Eterna quando essa restò vedova del Caos che ci ha creati.
(105)
L’olfatto è una vista strana. Evoca paesaggi sentimentali attraverso un disegno improvviso del subcosciente. Ho sentito questo molte volte. Percorro una strada. Non vedo nulla, o meglio, guardo tutto e vedo come tutti vedono. So di percorrere una strada e non so che essa esiste con i lati fatti di case diverse e costruite da esseri umani. Percorro una strada. Da una panetteria esce un profumo di pane che dà la nausea per il suo odore dolciastro: e la mia infanzia appare in un certo quartiere lontano, e un’altra panetteria sorge per me da quel regno di fate che è tutto quello che per noi è morto. Percorro una strada. All’improvviso c’è il profumo della frutta sul banco inclinato della piccola bottega; e la mia breve vita di campagna, non so più quando né dove, ha degli alberi in fondo e quiete nel mio cuore, indiscutibilmente fanciullo. Percorro una strada. Inaspettatamente mi sconvolge l’odore di casse del fabbricante di casse: oh, mio Cesàrio, mi appari; e finalmente io sono felice perché sono ritornato, attraverso il ricordo, all’unica verità, che è la Letteratura.
Fernando Pessoa, da “Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares”, 1986 – Traduzione di Maria Josè De Lancastre e Antonio Tabucchi
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In evidenza: Foto di Sonia Simbolo

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