Linguaggi

La carovana di sale

28.07.2024
LA CAROVANA DI SALE
(preistoria del poema)
“lo credo nella poesia.
E credo che la poesia non ha vinti né vincitori né graduatorie.
lo credo che la sua potenza sia disarmante: toglie armature, duelli, eroismi, tattiche sanguinarie per la conquista della corona. Disarmante, appunto, perché scintilla nella sua nudità. Folgora, perché è estranea a ogni misura.
lo credo che le prefazioni non siano necessarie alla poesia.
A meno che non si radichino come torcia illuminante, innestandosi all’opera con la propria sostanza luminosa.
lo credo che la poesia abbia un petto splendido in grado di cantare da solo, intensamente, intimamente, verso chi è disposto all’ascolto senza distrazioni, corpo a corpo.
lo credo nel credere.
Per credere faccio l’orto e il pane. E imparo ogni giorno a tacere lavorando, tessendo il tempo, accettandolo.
Imparo i significati del fare, del rispettare e amare le creature che sorgono e, sorgendo, immediatamente invecchiano.
Benedico l’invecchiamento: il mio, prima di tutto. Canto la poesia dentro di me, prima ancora di agire nell’alfabeto. Viaggio non verbale tra gli elementi.
Sono nata in un unico destino: coniugo il verbo amare. Per viverlo conosco lo scarto, la morte in corso e l’ostinazione per la resurrezione.
Ho visto una carovana di sale scarnificarsi per una improvvisa tempesta di vento e di sabbia. Ho ritrovato quegli stessi cammelli tragici alla mia porta, quasi estinti, consegnarmi la loro eredità.
Abito una casa sul fianco di un monte, ma anche una tenda e un tappeto. Sono stanziale, radicata negli strati minerali vegetali ignei e acquiferi dell’Appennino Umbro, e quasi in un foglio che si trasforma in polline; sono nomade per il mio andare, custodendo interiormente la matrioska.
Pratico la poesia: l’ orto, la madre, il sale del deserto, l’amante che mi aspetta accanto al pozzo dell’oasi, il canto che canta dentro il pozzo dell’ oasi.
Imprimo in me i verbi che appartengono alla biografia del sale: sciogliersi, conservare, preservare, disinfettare, rimarginare ferite, dare sapore, barattare. Così intrecciati ai verbi del canto. Anche a quelli del canto interiore.
Mi sono detta: voglio concentrare la mia energia in una forma. Cantarla. E vaporizzarla in aria.
Ho in corpo un quaderno e una matita rossa.
Scendere in sé una parola e ossigenarla dentro.
Ruminarla fino a renderla un’ opera da affidare ad altri, che la portino come sale in viaggio verso un paese lontanissimo.
Consegnare quietamente il proprio poema all’uno. O alla comunità.
Ripartendo poi umilmente. Di nuovo, con l’io dentro
l’abse.
La carovana di sale entrò nel deserto
con una fragilissima ampolla di olio
C’è una lampada nell’oasi che canta un cono e atto di luce
Qual è dov’è la mia casa nell’abse?
Scrivo sull’anima del ciliegio, cioè sulla mia scrivania dove la mia mano e la parola cadono come se rompessi un uovo sul foglio. La lampada è presente. Crea un cerchio di luce: un menhir dentro cui vivo la concentrazione. La mia lingua e quella nel camino sono fuoco, mentre, oltre il vetro, la notte.
Dedico il mio lavoro a Tereska, una bambina cresciuta in un campo di concentramento, fotografata da David Seymour nell’ atto di disegnare la sua casa dentro il nero di una lavagna, in un centro psichiatrico, in Polonia nel 1948. La sua faccia brucia e nevica nello tesso tempo: mi chiede di restituire il mio lusso, di essere onesta fino in fondo, di rispondere a voce alta del mio fare, del mio andare, della mia letteratura grassa che manca ancora di rispetto verso i poveri, i fulminati, le creature che con il proprio petto strappano il filo spinato, liberando i prigionieri.
Ho trovato la sua fotografia tra mille altre, su un banco, durante uno dei miei viaggi. Da allora è dentro di me, come un’eredità che scalza di netto il superfluo, impegnando la mia aorta.
Cammino tra la faccia carnivora della televisione e le lingue radioattive che bruciano i gigli dei campi, gli uccelli dei cieli, le teste secche. Quelle teste che si confondo­no, si fondono: hanno il terrore di invecchiare mentre si svuotano della memoria, personale e collettiva, del significa della bellezza. Desiderano l’ evasione e l’abbaglio. Non curano la cosa comune, la gioia condivisa, il dettaglio nella parsimonia, l’utilità della piazza, la parola al vicino, non usano riconoscenza, non esigono, nella propria umiltà, il confronto.
Cammino tra le mascelle affamate dei governanti e il loro cervello autistico che ha perso il corpo e il popolo.
Cammino tra chi scrive versi ignorando la poesia, mirando solo al riconoscimento.
Creo i passi, respirando dai talloni, leggendo le impronte nella neve.
Curerò la neve con il latte. Ho una borraccia a tracolla e una tasca di pane.
Un piede dopo l’altro, sono qui, all’inizio del paese, da­vanti alla porta: la porta senza porta.”
Anna Maria Farabbi, da “Abse”, 2013
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Nel’immagine: David Seymour, “Teresa”, Polonia 1948

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