Tra le mie conoscenze ricorderò Qualsiasi. Nel mio taccuino trovo molti appunti che lo riguardano. Ecco il primo: «I secoli hanno lavorato per produrre questo individuo di stanche ambizioni, furbo e volubile, moralista e buon conoscitore del codice, amante dell’ordine e indisciplinato, gendarme e ladro secondo i casi. Nazionalista convinto, vi dice come si doveva vincere l’ultima guerra e a chi si potrebbe dichiarare la prossima. Evade il fisco ma nei cortei patriottici è quello che fiancheggia la bandiera e intima ai passanti: giù il cappello».
Q. è davvero un uomo qualsiasi: purtroppo egli è convinto di essere qualcuno. È però soddisfatto del suo nome, che porta con umile civetteria. Abita in una casa qualsiasi, che adorna di oggetti qualsiasi: spende molto per questi oggetti (ha vivissimo il senso della proprietà) ed è convinto così di allietarsi l’esistenza. Le sue macchine musicali sono potenti, egli le tiene in moto tutto il giorno, impedendo ai vicini di pensare. Segue il progresso pur nelle minuzie, ma non trascura la tradizione. Crede che la poesia sia fatta di buoni sentimenti, oppure di crudeli perversità. Non si stima molto abile, ma ha fiducia nel suo buon gusto: senza questo suo buon gusto il cattivo gusto non avrebbe tanto dilagato nel suo paese. Qualsiasi è padre affettuoso: ama i figli per le soddisfazioni che dovranno dargli in avvenire ed ha un unico vero amico: se stesso.
Se poi ci addentriamo ad esplorare le sue idee morali e politiche troviamo di che giustificare largamente le avversioni che hanno ridotto il suo paese nelle attuali deplorevoli condizioni e il Re a vivere in un albergo senza pagare il conto. Ha un animo senza dubbi, un cervello lucido: non si pone problemi che non abbia già risolti in anticipo. Potevo coglierlo a contraddirsi tre volte nella stessa frase, potevo metterlo alle strette con le sue stesse affermazioni. Allora, da uomo che rinuncia alla lotta per generosità, concludeva che – dopotutto – non gliene importava nulla.
Lo frequentai negli anni che seguirono la grande sconfitta; e ancora oggi giuoca a fare lo scontento. È scontento di sé e del suo paese che vorrebbe tranquillo, confortevole, simbolico come la Svizzera – un paese dove non si rubano le biciclette. La folla lo infastidisce con le sue eterne, malformulate minacce, ed è convinto che il popolo non ami le cose belle, che lui ama, e che non abbia ideali disinteressati – che lui ha. «Il popolo» dice spesso «è sporco, si accanisce nella piccola compravendita, è superstizioso, pronto a derubarvi, prontissimo alle barricate, soprattutto se si tratta di farle coi vostri mobili». Egli sente, quindi, come massimo dei suoi doveri, di controllare il popolo, di impedirgli di far pazzie. Miglior alleato in quest’impresa gli sembra l’esercito, il quale, se non ha generali abbastanza abili per vincere le guerre, ne ha sempre per tenere a bada chi non vorrebbe farne.
Qualsiasi è anche scontento della storia che lo sovrasta. Per la verità si tratta di una storia ingrata, che gli ha limitate tante aspirazioni. Gli ultimi avvenimenti hanno insinuato nel suo animo questa verità: che la morale si modella sull’economia. Si meraviglia perciò, anzi finge di meravigliarsi, che certi concetti una volta tenuti in gran conto – come l’Onestà, l’Onore, la Tolleranza, l’Umanità – siano scaduti a tal punto da essere invocati da tutti e osservati da nessuno. Non si chiede se, per caso, quei concetti non servirono troppo a difendere la sua concezione dell’esistenza, cioè la sua stessa esistenza, a scapito di quella degli altri.
Un confuso scetticismo lo invita a conquistarsi un benessere personale ad ogni costo. Sospirando ammette che «siamo in un paese di ladri»: si difenderà col furto. Il furto è talmente entrato nelle sue abitudini che ruba senza accorgersene: vi chiede la matita per segnare un indirizzo e dopo se la mette in tasca. Dai massacri che hanno insanguinato la sua terra, ha cavato l’insegnamento del suo diritto alla vita comoda, difesa dalle leggi e dalla polizia.