Affabulazioni

Un guanto

03.09.2024
Ogni inizio è una minoranza. Ogni testo letterario è minoranza della lingua nella quale è scritto. La lingua lo riveste come la pelle dei vecchi. Più flessibile della letteratura che trascrive i suoi margini, li rimuove. Anche se questa letteratura viene creata in una lingua letta da tante persone .Come se la pelle e la poesia non si sovrapponessero. La lingua della letteratura è la lingua dell’inizio, la lingua di una minoranza. Se la lingua della letteratura è scritta contemporaneamente in una lingua con un piccolo numero di parlanti, la minorità è duplice. In questo senso intendo la lingua come un’interfaccia. Posta tra io e lo spazio che l’io riveste, c’è la lingua. Con la lingua l’io entra in contatto con lo spazio, se ne impadronisce, sposta le cose nello spazio, costruisce e demolisce. Con la lingua lo spazio entra in contatto con l’io, se ne impadronisce, sposta le idee che formano questo io, costruisce e demolisce l’io.
La lingua della letteratura è tattile. L’io rastrella, è un tentativo di rastrellamento. L’io è il tentativo dello spazio di costituirsi. Quando una lingua si muove nello spazio, quando diventa discorso, quando il discorso attraversa lo spazio, i suoi passi carrai e marciapiedi, il suo asfalto, i cubi di granito, i rifiuti e l’erba, l’io indossa i guanti. E quando parlo, mi muovo in maniera da camminare lungo le mani inguantate. E quando camminiamo per le mani, abbiamo il cielo come un baratro sotto i piedi.
Questa idea l’ho presa a prestito da Paul Antschel, che nel 1946 passò per la Slovenia. La Slovenia allora era parte della Jugoslavia e Paul Antschel, mentre passava per i luoghi dove le persone indossano i guanti della lingua nella quale scrivo, cambiò i suoi guanti. Paul Antschel era uno che possedeva più paia di guanti. I guanti erano anche l’unica cosa che gli era rimasta nella lunga marcia da Bucarest a Vienna. I guanti e la nuda vita. Si tolse i guanti della lingua tedesca, li rivoltò e li reindossò con la parte interna di fuori. In questo modo Paul Antschel divenne Paul Celan. Anche Paul Celan prese in prestito qualcosa. Pare che il prendere in prestito sia tra le attività principali delle persone inguantate. Chi parla è in debito ed allo stesso tempo rilascia un titolo di credito. L’orecchio è l’organo degli affittuari del debito, la bocca è l’organo di chi impresta.E le tracce degli scambi, materiale di debitori e prestatori, si intessono indietro nel tempo.
La storia forse non è null’altro che il tentativo di ricostruire l’intreccio degli scambi. Come se scegliessimo un solo capello nel salone del parrucchiere un sabato pomeriggio, quando c’è più gente. A terra c’è un mucchio di capelli. Uno si appiccica al mio guanto destro. È mio?
Lo sollevo alla luce. Di chi è? Su quale testa è cresciuto? Dove? Nel nostro caso, nel caso degli indebitati a mille, che instancabili rilasciano titoli di credito, non è possibile fare bancarotta. Non è possibile impedire che il debito aumenti. Stanti tutti i testi, tutte le librerie, tutto ciò che ricordiamo, ciò che non riusciamo a cancellare dalla memoria. Anche i sordi sentono. Il silenzio assoluto non esiste. Si può solo tacere. Ma gli uomini calvi continuano a parlare. Fanno domande. Le persone rapate a zero spesso non hanno più questa possibilità. La possibilità di attraversare lo spazio con la lingua viene loro negata. La lingua viene loro negata. Privati dell’ultimo guanto. Chi è a mani nude sta dietro un filo spinato.Tutti conosciamo i quadri di questi uomini che fissano da dietro il filo spinato.Dei quadri provenienti da diversi tipi di campi di concentramento.
Siamo diventati insensibili a questo genere di immagini. Siamo diventati insensibili agli incontri con persone che non parlano. Siamo abituati alle persone mute. Abbiamo individuato, per loro, degli spazi chiusi. Spazi dai quali solo qui e là giunge qualche voce. Chi cammina sulle mani, chi gode del privilegio di indossare i guanti.Chi cammina con la testa all’ingiù e con il baratro del cielo sotto i piedi.Chi si aggrappa a questo mondo, sapendo di doversene andare in qualsiasi momento. Chi tocca la pelle, rivoltata all’infuori. A questi l’orecchio cresce. A questi l’udito si sviluppa verso coloro che non parlano. Si sviluppa l’udito per il ricordo della terra dove si trova, mentre noi passiamo accanto. Si sviluppa il movimento, con esso solleva il capello che un soffio d’aria ha appiccicato al guanto, lo trasporta verso la luce. Tenta di seguire la testa sulla quale il capello è cresciuto.Non so cosa ho percepito di così spaventosamente e meravigliosamente definitivo al pensiero che il guanto potesse lasciare per sempre quella mano.
Racconta André Breton in Nadia. Questa è una delle teste attraverso cui è cresciuto quel capello.Un capello senza inizio? Privo della prima testa? Un capello senza testa con l’idea sul primo, sull’eletto, sul superiore. E sulla mia testa esiste poi la traccia del sottile, quasi trasparente luccicare di questo capello? Chiudo gli occhi. Intreccio di immagini, superfici più chiare e scure, luoghi, luoghi.Cerco di ricordarmi il marzo 2007.
Leipzig. Durante una lettura avevo perso un paio di guanti. I guanti li avevo avuti in regalo da una persona amata.Erano, come tutti i guanti, molto più che guanti. Erano un’interfaccia. Non suona strano, dunque, che perdere quei guanti sia stato simile ad una dislessia. Sono uscito dal taxi nella neve ed i guanti non c’erano più.Come una lettera che di colpo scompare dalla parola. Come una parola priva della lettera scomparsa, che di colpo modifica il senso della frase.Come una frase che per via dell’errore nella parola d’un tratto avvampa, diventa visibile. Come il fratello gemello della frase rovente, come la vecchia frase con la lettera mancante nella parola modificata, che scompare dalla testa.
Per due giorni ho cercato i miei guanti. Ho rintracciato il taxi.Sono tornato all’hotel. Sono tornato al ristorante.Sono tornato alla biblioteca dove avevo tenuto la lettura. Ho chiesto al cameriere, alla reception, alla donna delle pulizie, al tassista. Niente. Nessuno che parlasse di guanti. Nessun contatto.Nessun attraversamento dello spazio. Ero paralizzato, come sospeso tra la terra ed il cielo. Attorno a me si erigeva una recinzione. La terza sera ero seduto ad un bar con degli amici. Era quasi mattino quando il discorso cadde sull’idea di ciò che si getta via.L’idea dei rifiuti. L’idea del riciclaggio. L’idea delle favelas, costruite sui rifiuti.L’idea della conservazione artificiale del cervello dei morti.
L’idea dell’evoluzione. Il vecchio nel nuovo, il morto nel vivo, quanto è rifiutato in quanto si usa, quanto è di troppo in quanto è insostituibile. Uno dei presenti fa l’esempio dei guanti che ha trovato tre sere prima sulla balaustra della biblioteca.Guanti neri con cuciture marroni. Schiacciati e sgualciti, stavano sulla neve.Ora si stanno asciugando nella sua stanza d’hotel. I miei guanti. Come per miracolo.C ome per l’affinamento delle prospettive. Averli di nuovo. Come se non mi avessero lasciato attraversare mai più. Attraversare il mutismo. Come se perdendosi avessero voluto imprimere l’obbligo della mia attenzione.
Cosa accade perché qualcosa di irrisoriamente piccolo possa ottenere un valore immenso? (…)
Aleš Šteger (scrittore e poeta sloveno), da “Un guanto” – Traduzione di Michele Obit
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Nell’immagine in evidenza: Max Klinger, “Un guanto”, 1878, dall’omonimo ciclo di disegni successivamente incisi ad acquaforte e acquatinta

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