“In un primo momento volevo dedicare questa conferenza tutta alla luna: seguire le apparizioni della luna nelle letterature d’ogni tempo e paese.
Poi ho deciso che la luna andava lasciata tutta a Leopardi. Perché il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare.”
(Italo Calvino, da “Lezioni americane”, 1985)
“La luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce, e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un canneto, una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo, oggetto, ec. Dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo odo oggetto ec. Dov’ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori, e in una loggia parimente ec. Quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. Colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell’ombra, in modo che ne siano indorate le cime; il riflesso che produce, per esempio, un vetro colorato su quegli oggetti insomma che per diverse materiali e menome circostanze giungono alla nostra vita, udito ec. In modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell’ordinario ec.”
(Giacomo Leopardi, da “Zibaldone”, 20 Settembre 1821)
“É piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella é frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista del’astro luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non vedere tutto, e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò che non si vede. Similmente dico dei simili effetti, che producono gli alberi, i filari, i colli, i pergolati, i casolari, i pagliai, le ineguaglianze del suolo ec. nelle campagne. Per lo contrario una vasta e tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, né ostacolo; dove l’occhio si perda ec. é pure piacevolissima, per l’idea indefinita in estensione, che deriva da tal veduta. Così un cielo senza nuvolo. Nel qual proposito osservo che il piacere della varietà e dell’incertezza prevale a quello dell’apparente infinità, e dell’immensa uniformità. E quindi un cielo variamente sparso di nuvoletti, é forse più piacevole di un cielo affatto puro; e la vista del cielo é forse meno piacevole di quella della terra, e delle campagne ec. perché meno vari (ed anche meno simile a noi, meno propria di noi, meno appartenente alle cose nostre ec.). Infatti, ponetevi supino in modo che voi non vediate se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una sensazione molto meno piacevole che considerando una campagna, o considerando il cielo nella sua corrispondenza e relazione colla terra, ed unitamente ad essa in un medesimo punto di vista. É piacevolissima ancora, per le sopraddette cagioni, la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle, o di persone ec. un moto moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un ondeggiamento vago ec., che l’animo non possa determinare, né concepire definitivamente e distintamente ec., come quello di una folla, o di un gran numero di formiche o del mare agitato ec. Similmente una moltitudine di suoni irregolarmente mescolati, e non distinguibili l’uno dall’altro ec ec. ec.”
(Giacomo Leopardi, da “Zibaldone”, 20 Settembre 1821)
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