“Ho già visto tutto questo, i conflitti ricadere sulle spalle delle donne. Non è il momento di pensare, ora, è il momento di fare.” Questo è l’automatismo di Palwasha.
Ognuno, in Afghanistan, ha una risposta diversa allo stesso stimolo uguale che si chiama guerra.
Nel 1995, un anno prima che i talebani prendessero il potere, la Hassan aveva fondato Awec per supportare le donne nelle aree rurali dell’Afghanistan, e scolarizzate i bambini. In venticinque anni ha lavorato con i bambini di strada, con le donne in carcere, con gli orfani e le spose bambine. Solo a Kabul la sua associazione ha offerto a ventimila ragazzi ex combattenti la possibilità di studiare e ottenere in due o tre anni il diploma di scuola elementare.
È una donna robusta e tenace, non le piacciono le letture scontate, le semplificazioni la innervosiscono.
Sul suo viso oscillano continuamente due espressioni: il sorriso delicato di chi sa prendersi cura delle cose e la rigidità di chi mal tollera gli stereotipi.
“Voglio raccontarti la mia versione dei talebani,” dichiara, prendendo dal piatto al centro del tavolo che ci separa una manciata di anacardi e qualche noce.
E per raccontarmi la sua versione della storia parte da lontano, dai patti tribali, dalle gerarchie delle comunità che scandiscono la vita quotidiana tra le brulle valli afghane.
“Se vuoi migliorare la vita delle persone devi guadagnare la fiducia e il supporto delle comunità, a partire dagli anziani. I miliziani parlano un’altra lingua, hanno la lingua delle armi, la loro molla è la violenza. La donna non è mai pari: in una stanza in cui si parla la lingua della guerra, una donna, per fare un passo, ha bisogno dell’appoggio e dell’approvazione della comunità. Anche se i leader sono talebani,” dice.
Poi prende due fogli e due matite colorate, una nera e una grigia, e comincia a colorare il primo foglio bianco, che divide in due, marcando la metà della pagina con l’unghia lunga del pollice destro: “Per voi la realtà è così, bianca e nera. Bianca o nera.” Per lei invece la realtà è a scale di grigio, come il secondo foglio, che continua a colorare, parlando del passato. (…)
Le parole usate da suo padre, convivenza e negoziato, sono diventate nella sua pratica quotidiana traduzione e interpretazione. (…)
“Non volevo né potevo lavorare sui diritti delle donne senza coinvolgere i talebani, e per farlo ho imparato a tradurre i diritti in una lingua che fosse per loro comprensibile. Le parole non hanno lo stesso significato per tutti, e non hanno lo stesso significato in luoghi diversi del mondo. Ho sempre creduto che la soluzione consista nel portare i talebani al tavolo invece di ricorrere alla violenza come risposta alla violenza”.
Molte donne le chiedevano perché dialogare con i talebani, perché negoziare con chi aveva ucciso loro i mariti e i figli. Lei rispondeva che in guerra perdono tutti, ma le donne di più. E per perdere meno bisogna fare la pace. Anche se costa compromessi.