Affabulazioni

Le Alpi

18.02.2025
“Oggi che, a motivo dell’età, ho dovuto a poco a poco rinunciare alle arrampicate (avvenimento che un giorno mi sembrava assurdo, sinonimo di fine, e comunque estremamente lontano; e invece è toccato anche a me).
Oggi che, quando salgo dalla pianura, e vedo apparire in fondo alla valle le cime amate, e all’improvviso risplendono al sole le pareti con quel loro colore indicibile, che nessuno è mai riuscito a descrivere bene, e balenano sulle ultime creste le candide cornici di ghiaccio, come miraggio irraggiungibile.
Oggi che non mi viene più quel lungo brivido, trepidazione, smania, irrompere di desiderio quasi carnale, vibrazione profonda di tutto me stesso (ma un piccolo rintocco, sussulto quasi impercettibile, tuttavia ogni volta sussiste, benché io sappia che lassù non potrò ritornare e che ormai sarò costretto a guardare le rupi, i muraglioni, i colonnati, i canaloni sinistri, così come li guardano i forestieri estranei alla nostra setta delle Alpi, che della montagna non hanno mai saputo patire).
Oggi che, quando salgo in macchina, le vecchie crode, le fortezze stregate, le torri, le fatate cittadelle, le solitarie regge coi pinnacoli di filigrana, i vitrei minareti non mi chiamano più, non hanno più bisogno di me, non rivolgono più neppure i più facili inviti perché sanno che io stesso non so desiderarle più, non salirò più le loro pareti ed è perciò escluso che io possa morire per loro, sanno insomma che io sono diventato un estraneo, una formica senza senso.
Oggi che per me si è chiuso uno dei più bei capitoli della vita (anche se arranco ancora con gli sci, ma è una cosa completamente diversa, anche se la investitura delle Alpi, eclissata e mortificata di giorno, continua però ad accompagnarmi durante il sonno con l’ostinazione e la intensità dei tempi lontani, cosicché tutte le notti dell’anno, dico tutte, tranne quando mi trovo appunto in montagna, io le montagne le sogno: sgangherate, deludenti scalate che tuttavia mi offrono ancora il gusto dell’abisso).
Oggi che dunque è venuto il tempo di guardarsi indietro, ed è spontaneo fare il conto di quello che è stato, può sorgere un dubbio: che quella della montagna fosse soltanto una gratuita mania, una fissazione, un asservimento alla moda, una egoistica ambizione, fatua come tutte le ambizioni. E allora mi chiedo: perché mai la montagna esercita un così potente e singolare richiamo? Tanto che, quando la si lascia – è un sentimento condiviso da decine di migliaia di miei simili – ogni altro spettacolo della natura riesce al paragone scialbo, quasi meschino e mancante di qualche cosa.
(…)
Pensate che razza di sviluppi, di ripercussioni ha avuto appunto questo sentimento, questo amore della montagna, di cui le Alpi sono indiscutibilmente la patria: nel giro di poco più di un secolo ha trasformato, si può dire, il volto delle valli, ha dato ossigeno a organizzazioni gigantesche, ha creato meravigliose strade, sentieri, impianti di ogni genere, ha fruttuosamente dilagato nella letteratura e nell’arte (…).
Perché la montagna emana quel fascino tremendo? Il problema può essere attaccato da vari versanti e può dar luogo, me ne rendo conto, a soluzioni differenti, ciascuna delle quali con un suo costrutto. Per quanto io ho letto, una delle teorie più sistematiche e intelligenti è quella concepita da Samivel. Ma permettete, vi prego, che vi esponga la mia interpretazione.
Conviene prima di tutto sgomberare il campo da ogni pregiudizio, evitare i concetti confusi o evanescenti, tenersi alla larga da quel generico e dilettantesco misticismo, da quelle intemperanze nietzschiane e simili che infestano spesso la letteratura alpina.
Dopodiché, un primo passo consisterà nel determinare ciò che differenzia le Alpi dagli altri aspetti della vita selvaggia. E per fare questo il sistema migliore è di procedere per tentativi, eliminando via via le caratteristiche che non sono esclusive della montagna.
Quattro elementi si presentano subito all’esame: la solitudine, la immensità delle proporzioni, la selvatichezza e la lontananza. Ma se esse contribuiscono a formare quel fascino, né la solitudine, né le proporzioni, né la selvatichezza ne sono caratteristiche distintive perché altrimenti dovremmo provare identiche sensazioni davanti al mare, ai deserti, alle foreste vergini, i quali sono pure solitari, immensi e selvaggi.
Non si tratta neppure della lontananza, che di per se stessa promuove spesso in noi ineffabili desideri e speranze; e che in navigazione, per esempio, fa sembrare sommamente desiderabile, e diversa dalle acque che ci circondano, la striscia di mare all’ultimo orizzonte, sulla quale pare risplendere una luce speciale, promessa di sconosciute beatitudini.
La «differenza specifica» non può essere neanche la straordinaria fantasia e varietà delle forme e dei paesaggi, il trionfo, per così dire, del pittoresco; si deve infatti riconoscere che anche il mare, le pianure, le selve, possono offrire visioni non meno spettacolose e ispirate.
Ugualmente, scartiamo l’oscuro rispetto che ci incutono le cose antichissime. Ugualmente, il mistero (non sapendo noi, dal basso, che cosa vi si nasconda). Ugualmente, l’estrema pulizia, per cui leccare le alte rupi non ci darebbe alcun disgusto, e da cui nasce la sensazione di purezza incontaminata. Di tali qualità anche i mari e i deserti sono partecipi, ricavandone larga parte della loro spirituale bellezza.
Quali eccezionali attributi distinguono allora la montagna? lo credo di riconoscerne principalmente due: la ripidezza e la immobilità.
La ripidezza moltiplica la sensazione di lontananza e quindi le meravigliose speranze che prima dicevo; essa ci fa risultare remotissime, addirittura irraggiungibili, creste in realtà lontane appena alcune centinaia di metri. E accresce pure il senso di mistero perché tanto più un enigma ci affascina quanto più ardue e pericolose sono le barriere che lo proteggono.
Ma di gran lunga più importante è il secondo dei due attributi: l’immobilità, la quale appartiene sì anche ad altre forme della natura, per esempio ai deserti; mai però congiunta con la ripidezza. Inoltre nei deserti l’immobilità, come dire? è sparsa su una larghissima area, è quindi rarefatta, e la stessa piattezza del terreno sembra eludere ogni nostra partecipazione. Nei deserti l’immobilità si estrinseca in sole due dimensioni, mentre in alta montagna si impone con masse grandiose, tridimensionali, insomma con la massima evidenza. In questo senso l’immobilità di un modesto picco riassume in breve spazio una porzione di immobilità pari a quella di una vastissima landa. Del resto è innegabile che spesso i deserti, appunto a motivo di tale proprietà, suscitano una emozione non molto dissimile da quella che si prova in alta montagna.
Ora resta da spiegare perché dalla staticità delle masse montane possa avere origine l’impareggiabile commozione che ci prende al loro cospetto. Il motivo, secondo me, sta nella fatale tendenza dell’uomo a uno stato di tranquillità totale.
A che si affanna la gente, giorno e notte, a quale scopo lavora, ammassa denari, persegue fama e potenza, se non per poter un giorno godere i frutti di tanto travaglio, per poter un giorno essere completamente libera da ogni impegno e soggezione, e quindi riposare? È questa una verità antichissima, illustrata da troppi filosofi perché ci sia il bisogno di nuove dimostrazioni.E non importa se si tratta di una pura illusione, perché l’uomo, una volta raggiunta la possibilità di sostare, si guarda intorno smarrito, misurando come non mai la miseria della sua condizione, e rimpiange i tempi dell’esecrato lavoro (contraddizione amarissima che è la nostra antica condanna).
Sì, l’uomo tende inconsciamente a conquistare la quiete. E proprio perciò la vista della montagna, modello perfetto dello stato a cui tende, procura un senso di appagamento. Non solo: sorge nell’uomo il confuso desiderio di aderire, di adeguarsi, di identificarsi in qualche modo con tanta immobilità, di prenderne infine possesso. E di qui l’alpinismo (il fatto che le montagne terminano a punta sollecita e facilita la nostra aspirazione a possederle; ciò che nel caso di un deserto sarebbe invece impossibile, ogni suo punto equivalendo a qualsiasi altro e mancando quindi una «presa»).
Ma andiamo oltre: l’immobilità dell’alta montagna probabilmente ci appare quale massimo simbolo della suprema quiete a cui l’uomo è tratto per vocazione e tentazione invincibile, quiete che porta comunemente il nome di morte. E nello stesso tempo, per il contrasto con tutto ciò che si muove, eccita nel nostro inconscio il ricordo del comune destino, quasi dicesse: noi montagne non ci saremo spostate di un millimetro e voi da secoli sarete polvere e nulla. Dovremmo dedurne che il sentimento della montagna è essenzialmente triste? Proprio così. Lo si constata ogni qual volta dal movimento, dall’eccitazione e dal travaglio di una salita passiamo a uno stato di inattività e di solitudine. L’animo allora è quanto mai sereno, ma pure nelle ore di sole, mentre sdraiati contempliamo rupi e ghiacciai poche ore prima conquistati, cala su di noi una incomprensibile mestizia.
A confermare la nostra interpretazione c’è del resto una circostanza: parecchie persone, anche di grande intelligenza e sensibilità, non sopportano la montagna. Non che restino indifferenti. Proprio la aborrono, provandone una specie di oppressione. Probabilmente si tratta di uomini in certo senso meno ingenui di noi, i quali afferrano più chiaramente, pur senza esserne consapevoli, la crudele verità che le eterne rupi sottintendono, e sono indotti a rifuggirne.
Va anche detto che la tentazione di morte racchiusa in quegli ermetici profili e il conseguente bisogno di trovare sostegno in qualche cosa di sovrumano, nobilitano senza dubbio l’alpinismo propriamente detto; il quale, se privo di tale sentimento, va considerato alla stregua di qualsiasi altro sport pericoloso come il motociclismo, l’equitazione e il salto mortale. Dalla vaga coscienza di tutto ciò proviene infine il non retorico culto per la memoria degli scalatori morti in ascensione. Noi infatti intuiamo come, tra quanti amano la montagna, soltanto costoro hanno saputo veramente obbedirle.
Ecco dunque la mia piccola teoria, che mi sembra possa spiegare tante cose. E che non può contristare in alcun modo il lettore, all’inizio della festa, visiva e intellettuale, che questo libro promette. Anzi. Non è bellissimo che proprio a motivo di tali radici così profonde, che toccano le recondite leggi del fato, l’incantesimo delle Alpi ci abbia dato tante gioie, tanta giovinezza, salute, poesia, tante felici illusioni?”
Dino Buzzati, Prefazione a “Le Alpi”, da “Selezione Dal Reader’s Digest”, settembre 1971
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In evidenza: Dino Buzzati, china su carta per Bàrnabo delle montagne, 1930

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