“La cipolla è rugiada
racchiusa e mite.
Rugiada dei tuoi giorni
e le mie notti.
Fame e cipolla,
gelo nero e brina
grande e rotonda.
Nella culla della fame
il mio bimbo stava.
Con sangue di cipolla
s’allattava.
Ma è il tuo sangue, figlio
brina di zucchero,
cipolla e fame.
Una donna di rame
velo di luna
si sparge filo a filo
sopra la culla.
Ridi, piccino:
quando tu lo vorrai
ti porterò la luna.
Il tuo riso è la spada
più vittoriosa,
vincitore dei fiori
e delle allodole.
Rivale del sole.
Futuro delle mie ossa
e del mio amore.
A otto mesi ridi
con cinque fiori.
Con cinque denti,
come cinque boccioli
adolescenti.
Vola, il mio bimbo,
nella sua doppia
luna del petto:
lacrime di cipolla,
ti tengono sveglio.
Dormi mio bimbo,
che tu possa ignorare
ciò che fuori ti aspetta
e che qui avviene.”
Miguel Hernández
Miguel Hernàndez compone questa poesia per il suo bambino, Manuel Miguel. Quando la scrive, Miguel è in carcere: il regime franchista, dopo averlo condannato a morte in quanto militante repubblicano, ha commutato la pena in quella di carcere duro, che Miguel sconterà prima a Palencia, poi ad Alicante, dove morirà di tubercolosi a soli 31 anni. E proprio qui, in carcere, riceve una lettera della moglie Josefina: lei e il bambino soffrono la fame, non hanno altro da mangiare che pane e cipolla. E lui risponde con questi versi struggenti, in cui il piccolo si attacca con forza “alla doppia luna del petto” di sua madre, anche se quel petto gronda “lacrime di cipolla”, che non riescono a togliergli la fame.
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Berthe Morisot, “La culla”, 1872
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Ninna nanna per una città all’imbrunire
“Addormenta i tuoi alti palazzi
che vegliano all’ombra delle pietre.
La notte già libera i suoi gufi.
È ora di mettere via tutte le auto.
Chiudi le palpebre del ponte
affinché riposi il fiume,
i vetri delle finestre che tremano di freddo,
ricopri le tue statue.
Spegni i lampioni che bevono
il rancore di uomini stanchi.
Lascia che le donne sognino il loro desiderio
nel mormorio delle felci.”
Eugenio Montejo, “Ninna nanna per una città all’imbrunire”
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Giuseppe Magni, “La ninna nanna”, 1910 circa
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Ninnananna dei residui
“Quasi tutto lascia dei residui.
Quasi tutto, perché ci sono cose che si rifiutano.
Quello che certamente hanno i residui
è la grande varietà.
E questa varietà dipende dall’altro.
Perché ci sono cose intangibili,
che lasciano residui intangibili.
Per contro, ci sono cose così dense, così spesse, che lasciano residui come il piombo.
La disgrazia è di piombo
e l’allegria è trasparente.
Con i residui accadono cose molto strane:
all’inizio ispirano poco rispetto,
tendiamo a considerarli come scarti.
E c’è da dire che, in genere, lo sono,
ma è altrettanto certo che la varietà suole definirli. Perché l’altro marca una distanza,
un modo ingovernabile di esistere
e persino di scomparire.
Le illusioni sono un buon esempio:
appartengono al mondo residuale dell’utopia,
ma a volte sembrano figlie della Legge,
implacabili guardiane.
Lo scarto propriamente detto
è meno appiccicoso del residuo.
Il residuo ha un che di conclusione,
e che resiste a scomparire,
e tuttavia inspiegabilmente si impegna ad esaurirsi. Forse per questo il residuale ci sembra essere tanto.
Qualche volta dovemmo essere qualcosa di completo
e ora siamo questo residuo,
questo rimpianto di quel brandello o scarto
che un tempo
noi contemplammo intatto.”
Francisca Aguirre, “Ninnananna dei residui”, da “Paesaggi”
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Si te veco: me veco
“Si te veco: me veco.
Si mme vire: te vire.
Si tu parle, c’è l’eco
e chist’eco songh’i.
Si te muove: me movo.
Si te sento: me sento.
Si me truove, te trovo…
Si me trovo, si tu!”
Eduardo de Filippo (ninna nanna composta per il figlio Luca)