Anna Spissu, “Famiglia”
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Famiglia
“Nella mia famiglia non ci sono poeti.
Però mio nonno Gregorio,
quando annaffiava l’orto a Belinchón,
è rimasto così tanti pomeriggi
a osservare il canale, mormorando:
Non beviamo
l’acqua: è essa a berci.
L’acqua
è
la donna.
No, nella mia famiglia non ci sono poeti.
Ma una volta, da bambina, trovai dei gusci
di un uovo azzurro
ai piedi del mandorlo.
Li mostrai a mio padre e mio padre, silenzioso,
mi insegnò a costruirgli un nido
con i rametti;
e mi spiegò perché: ci sono pezzi di vita
che valgono
interi sogni.
Nella mia famiglia, vi dico, non ci sono poeti.
Ma quando la mia bisnonna
Asunción
vide per la prima volta il mare
– la prima e l’unica -,
mi dicono che restò molto seria, tacendo
a lungo, prima di dire:
Grazie
per
gli occhi.
Non so da dove vengo. Nella mia famiglia
non ci sono poeti
cattivi.”
Martha Asunción Alonso, “Mutazioni poetiche”, da “Wendy”, 2015
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Adriaen van Ostade, “Famiglia di contadini in un cottage”, 1661
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Ode a nonno H.
“Mio nonno aveva occhi di pervinca,
sapeva di tabacco e parlava poco…
Mio nonno aveva un casco di cuoio
ed una vecchia moto con la sidecar
con la quale portava la nonna
a fare la spesa…
Mio nonno è stato giudicato troppo giovane
per esser arruolato nella prima guerra mondiale
e troppo vecchio per far da soldato in quella seconda:
ma entrambe lo hanno minato nell’anima…
Mio nonno aveva molti fratelli, molti zii e molti cugini…
Due fratelli
Tre zii
Tre cugini
videro il loro ultimo sole sui campi di battaglia
della “grande guerra”:
forse uccisi dal gas nervino…
forse da un colpo di baionetta…
forse da una mitragliata…
forse da stenti…
Mio nonno aveva molte sorelle, molte zie e molte cugine…
Una sorella
Tre zie
Quattro cugine
non videro la bianca colomba di pace:
forse uccise dalla carestia…
forse dalla spagnola…
forse dal crepacuore…
Mio nonno era nato tedesco ed odiava il Kaiser.
Mio nonno era un atleta…
Faceva la lotta greco-romana,
correva come una lepre,
sollevava i pesi,
saltava in alto e tirava di fioretto…
Mio nonno era un pittore…
Dipingeva monti innevati,
campagne fiorite,
mari che non aveva mai visto,
marinai cotti dal sole
che avevano facce dei suoi fratelli morti…
Mio nonno aveva un allevamento di pastore tedesco…
I suoi protetti erano campioni riconosciuti,
ammirati per la bellezza e per l’addestramento…
Mio nonno amava i suoi cani…
Poi vennero i nazisti e smembrarono l’allevamento
portando chissà dove i cani adulti ed i cuccioli…
Mio nonno era nato tedesco ed odiava i nazisti.
Mio nonno aveva una moglie e tre figli
perennemente affamati…
Prigionieri della città
dove si sopravviveva
con scarse razioni di cibo
che non bastavano mai…
E quando il rumore di stomaci vuoti
superava la paura…
mia nonna si faceva il segno della croce,
stirava la camicia di nonno più bella,
spolverava la giacca con risvolti di velluto
e pantaloni alla zuava…
lucidava gli stivali di cuoio…
E lui, mio nonno…
si vestiva di tutto il punto,
prendeva una grossa valigia di cartone
ed un cappello con la piuma,
e saliva sul treno
per andare in campagna
dove per un orologio,
un gioiello della moglie,
le lenzuola di lino del corredo…
il contadino amico
gli donava qualche uovo,
farina, burro, fagioli…
carne, se andava bene…
E, di ritorno, in stazione…
con la valigia che pesava,
di cibo e di terrore…
lui,
con i suoi stivali lucidissimi
che volevano correre…
camminava lento
lentissimo
e faceva “heil hitler”
a tanti soldati in pattuglia
sorridendo
e sudando freddo
rischiando la vita
ogni volta
ogni volta…
perché il procurarsi cibo
per cercare di sfamare i figli…
era un reato
punito con la fucilazione sul posto.
Mio nonno era nato tedesco ed odiava Hitler.
Mio nonno aveva una palazzina in città
ed un terreno in campagna…
Durante la guerra
sul campo stazionavano i carri dei tedeschi
e la casa era occupata dalle loro famiglie…
Dopo la guerra
I nuovi re giudicarono la casa ed il campo
troppo grandi per una sola famiglia
ed in nome della giustizia comunista
assegnarono a nonno
un pezzo d’uno dei suoi appartamenti
ed un piccolo appezzamento di terra…
per le sue coltivazioni private,
dissero…
Mio nonno era nato libero ed odiava le dittature.
Mio nonno ha conosciuto due guerre
ma non si era temprato
dal fragore della morte,
dal terrore delle carni lacerate,
dal sopruso del vincitore,
dall’umiliazione del vinto,
dagli occhi dei bimbi orfani,
mutilati,
violati,
vilipesi.
Gli occhi di mio nonno contenevano il cielo…
anche quello delle ultime battaglie…
casa per casa…
cortile per cortile…
strada per strada…
tra russi e tedeschi
in quel maggio 1945
dove neanche i fiori sbocciati
riuscivano a coprire l’odore di morte.
Arruolarono i vecchi ed i ragazzini
i tedeschi…
nel nome di un nulla,
di una guerra persa,
d’insensata voglia
di altri spargimenti di sangue
inutili
E questi miseri soldati improvvisati
morivano come mosche
nel nome di un nulla
nel nome della follia
nel nome di un Dio
che non guardava più…
Mio nonno nascose mio padre in soffitta
per non correre i rischi…
perché era nato tedesco
e mio padre aveva quasi quindic’anni…
Quindic’anni da compiere…
poteva voler dire “uomo”
per qualche invasato…
E lui…
sotto un vecchio tavolo
respirava la polvere
e si tappava le orecchie
per non sentire il rumore
assordante
dell’artiglieria,
dei cingolati,
dei lanciarazzi russi…
delle mitraglie dei tedeschi…
per non sentire il pianto di terrore
dei suoi fratelli più piccoli
ed il gocciolare, lento, delle sue stesse lacrime…
La gente uscì per strada, festante
La guerra è finita!
Gridavano,
cantavano,
si baciavano…
Festeggiavano…
I soldati russi,
ubriachi di vodka e di vittoria
ballavano per le strade…
tra i cadaveri dei tedeschi,
tra i corpi ammassati dei civili,
tra i miseri resti dei loro commilitoni…
La città aveva la libertà
ma puzzava di morte…
Mio nonno si rimboccò le maniche
e con altri come lui
formarono le squadre di civili
per riportare ordine e vita tra la gente…
E per giorni,
giorni e giorni…
per settimane…
raccolsero i cadaveri
per seppellirli
in fosse comuni…
con la morte nel cuore,
con gli occhi che non vedevano più
per le lacrime,
per l’orrore,
per umana pietà,
per quel mezzo litro di vodka al giorno,
l’unica paga per un lavoro
necessario,
terribile,
massacrante…
E venne il giorno
in cui mio nonno
trovò un mucchio di cadaveri
ai piedi del muro di Špilberk…
ragazzi e vecchi
ragazzi e vecchi…
Ragazzi privati dal futuro
ragazzi dagli occhi grandi
spalancati
azzurri solo dal cielo…
immobili…
Ragazzi in buffe uniformi tedesche
più grandi dei loro corpi
ancora acerbi…
Ragazzi
con un fucile tra le mani
che non era un giocattolo…
Ne riconobbe due…
Due ragazzi
compagni di scuola di suo figlio…
e da allora
quel mezzo litro di vodka
in dotazione
non bastò più
non bastò più
non bastò più…
Mio nonno era nato tedesco ed odiava la guerra.
Mio nonno aveva un orologio a cucù
con i pendoli a forma di pigna,
una pipa di legno rosa
e mani d’oro.
Mio nonno riparava tutto,
tutto rinasceva tra le sue mani
a nuova vita…
a nuova vita…
Mio nonno era un artista…
dipingeva tristi paesaggi…
mari in burrasca…
i ragazzi dai capelli rossi
con le facce di quelli morti
che aveva seppellito…
Già… mio nonno era un artista
quando non beveva
quando non beveva
quando non beveva…
Mio nonno aveva una moglie,
tre figli,
quattro nipoti,
dieci pronipoti, non tutti conosciuti…
ed una bottiglia…
A volte l’ordine cambiava e
mio nonno aveva una bottiglia,
tre figli,
quattro nipoti e dieci pronipoti
che si vergognavano di lui.
La bottiglia mai…
lei ne andava fiera
anche quella volta,
a guerra finita,
quel giorno
che a nonno dissero:
sai, i tuoi cani,
i tuoi bellissimi,
amatissimi,
addestratissimi cani…
facevano da guardia
in campi di concentramento
per non far fuggire i prigionieri
più morti che vivi
ed ancora più terrorizzati
dal ringhiare feroce
dei tuoi cani
dei tuoi cani
dei tuoi cani…
Mio nonno era nato tedesco ed amava i cani…
ma non ne ha mai più voluto uno.”
Vera Somerova Cordublas, “Ode a nonno H”
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Mio nonno
“Mio nonno era il fiume che fecondava queste terre.
Pieno d’innumerevoli mani e occhi e orecchie.
E, nello stesso tempo, cieco e taciturno come un albero.
Era la barba antica e la voce profonda della casa.
Era il seminatore e il frutto. Il ceppo rugoso.
L ‘indice del tempo e il sangue propizio.
Mio nonno era l’inverno con le mani fiorite.
Era il fiume stesso che popolava le terre.
Era la terra stessa che moriva e rinasceva.
Mia nonna era il ramo incurvato dalle nascite.
Era il volto della casa seduto in cucina.
Era l’odore del pane e della mela conservata.
Era la mano del rosmarino e la voce della preghiera.
Era la povertà dei lunghi inverni
avvolta nello zucchero come un’umile ghiottoneria.
Quindici figli mangiarono dalle sue mani miracolose;
Quindici figli dormivano col suo sonno d’aquila.
In molti nipoti e pronipoti abbiamo continuato
a passare nelle sue braccia secche.
Ma lei è sempre la mano che mescola l’acqua e la farina.
È il silenzio delle notti pieno d’uccelli addormentati.
È il braciere dell’infanzia con la focaccia che scappava.
Mio padre era quello che assomigliava di più alla terra.
Deve essere nato insieme con il frumento o il grano.
Mio padre era bruno.. e dormiva sul cavallo.
Era come il cavaliere lento della primavera.
Gli altri miei zii assomigliavano tutti agli uccelli locali.
Tutti avevano qualcosa degli alberi e delle montagne.
Alcuni erano possenti come i cavalli normanni.
Altri avevano il volto di pietra o di grano tostato.
Ma tutti ricordavano le cose prossime alla terra.
Era uno sciame turbolento che riempiva la casa.
Era una banda di pavoncelle che preannunciava la pioggia.
Erano le cesene che rubavano le ciliegie.
lo nacqui quando erano già vecchi;
quando mio nonno aveva i capelli bianchi,
e la barba l’allontanava come nebbia,
io nacqui quando ardevano i falò di maggio.
E la prima cosa che ricordo è la voce del fiume e della terra.”
Efrain Barquero
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Mia nonna
“Mia nonna era il ramo incurvato per i parti.
Era il volto della casa seduto in cucina.
Era l’odore del pane e della mela conservata
Era la mano del rosmarino e la voce dell’incantesimo.
Era la povertà dei lunghi inverni
avvolta nello zucchero come un’umile dolcetto
Quindici figli hanno mangiato dalle sue mani miracolose
Quindici figli hanno dormito col suo sonno di aquila…”
Efraín Barquero, “Mia nonna”
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Giovanni Pezzota, “La memoria del nonno”, 1883
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Nonno
A Bruna, madre di mia madre
“Aveva dentro racconti di cose mai
viste, sfollamenti, ritorni
mancati e altri, misteriosi,
dai geli della Russia.
E anni senza marito, due figlie
appese al collo sulle navi
tra Genova e l’Etiopia.
Aveva dentro uno spartito
con mille note che io
non ho mai sentito, una gran
copia di emozioni che chi di noi
ha mai vissuto…
Aveva negli occhi il ridere
d’avere conosciuto il suo uomo
davanti alla gabbia dei conigli
in un mattino aspro e gentile
quando lui salutò con due battute
volgarotte e celestiali.
Il suo uomo grande
partito prima di lei, servito
come un re
e come un bimbo poi
accompagnato fino all’ombra.
In lei,
gran madre,
era ospitale
anche il vago cenno
erano vere le apprensioni
persino l’ira che pungeva
a volte in fondo agli occhi.
Per il mondo?
Sì, per quello.
Ad ospitare ogni cosa
si soffre, molto.
Occorre
una felicità dura, di più generazioni.”
Davide Rondoni, da “Una felicità dura, di più generazioni”
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Vincenzo Irolli, “Donna alla finestra”
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Sta sulla strada la notte quest’uomo
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Foto di Jolanta Z.Jazdzyk
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Mia moglie
“Quando triste rincaso e lei m’aspetta
alla finestra, se la bella e cara
moglie, ad un gesto, il mio male sospetta,
se il disgusto mi legge, od altro, in faccia,
tosto al mio collo le amorose braccia,
come due serpi vigorose, getta;
me solo accusa la sua voce amara.
«E così – dice è così che mi torni.
Non un bacio per me, non un sorriso
per tua figlia; stai lì, muto, in disparte;
si direbbe, a vederti, che tu hai l’arte
di distruggerti. Ed io… guardami in viso,
guarda, se alle parole mie non credi,
questi solchi che v’ha lasciato il pianto.
Ero qui sola ad aspettarti; intanto
la nostra casa io l’ho rimessa, vedi?
come nel primo giorno.
Ma tu già non m’ascolti. Che passione,
e che rabbia mi fai!
Non s’ha il diritto, sai,
quando si vive con altre persone,
di tenere per sé le proprie pene;
bisogna raccontarle, farne parte
ai nostri cari che vivono in noi
e di noi».
«Quanto, quanto m’annoi»,
io le rispondo fra me stesso. E penso:
Come farà il mio angelo a capire
che non v’ha cosa al mondo che partire
con essa io non vorrei, tranne quest’una,
questa muta tristezza; e che i miei mali
sono miei, sono all’anima mia sola;
non li cedo per moglie e per figliola,
non ne faccio ai miei cari parti uguali.”
Umberto Saba
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La nonna
“Un giorno moriremo, ma il canto viene prima.
Nonna tu nei cortili dell’estate, già alzata all’alba,
sola ad aprire imposte e ricevere il sole,
accompagnando la febbre dei miei ultimi sogni con lo strofinio appena udibile dei tuoi passi,
entrando dalla parte del giorno a restituirmi il mondo nella fragranza del caffellatte.
Non dimentico nulla, io crebbi sulla sponda della tua vestaglia e dei tuoi scialletti,
del tuo gusto per il lillà che ti fa come una cenere di colombe fra i capelli e le guance,
e sento un’altra volta il soave andare delle pantofole che ti portai dal Cile.
E sto vedendo la lunghissima treccia che tu lasci libera
quando ti alzi, come un ricordo dei tuoi anni di ragazza.
Tu non lo sai, nonna, però in te finisce il tempo, la successione dei giorni e delle spiagge,
delle aule e dei pianti, dell’amore nei suoi mille specchi,
dell’uomo e del bambino che riconciliano le loro distanze nei tuoi occhi, oh paese della pace.
Ti vedo e sono piccolo e sono proprio io,
e niente impedisce che il piccolo e l’uomo ti diano lo stesso bacio e si rifugino nel tuo abbraccio.
Questi capelli che tu accarezzi e che pettinasti per la prima volta,
questa fronte che stai baciando e che lavasti dal sudore della nascita,
queste mani che vanno per il mondo palpando i suoi bei vuoti,
e che guidasti nel primo incontro con il cucchiaio e la palla,
tornano al posto del riposo, e non se ne vanno, nonna,
sebbene io viva alzato verso tante rotte, e non se ne vanno, nonna.
La nonna spunta con il giorno a visitare l’orto e le galline
spartisce l’acqua e il mais, ammira i pomodori e i loro progressi,
e gode del racemo che si inerpica, del lampadario delle prugne regine claudie,
e va per le profondità della casa distribuendo l’ordine.
A volte mi alzo, l’accompagno e, associato ai suoi riti,
do da mangiare agli uccelli e irrigo le veccie,
sento il tremito dell’acqua sui rampicanti che bucano i muri e che la ricevono crepitando
e si riempiono di scintille.
Ho dieci anni, vivo insieme ai bruchi e alle anatre, sono tenero e crudele,
ammazzo e proteggo, ordino come un re le cose del mio regno,
e sopra di me sta la nonna, le arrivo già all’altezza delle spalle, sulla punta dei piedi arrivo a baciarla,
e i nostri occhi si scoprono nell’allegria comune dei polli nati durante la notte.”
Julio Cortàzar, “La nonna”
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Giuseppe Möder, “Donne di Scanno”, 1955
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Mia madre
“Mia madre è seduta accanto a me dal dottore
Mia madre c’è e non c’è per davvero.
Le mancano pezzi.
Un giorno ha perso i denti, poi l’udito.
Ha perso un seno, un polmone, i capelli.
Mia madre ha perso i treni i bottoni e sua madre
e l’infanzia.
Un giorno mia madre ha perso un figlio
(altri li ha lasciati andare).
Mia madre ha in tasca il suo nome
che un tempo contava vessilli.
ha un paese mia madre e una casa
che trabocca farfalle.
Mia madre ha tre uccelli che tiene legati alla vita
con cordoni di vario colore.
Se il vento si alza le sbattono addosso
in azzardo di volo.
Mia madre ha barrette di strass e volute di fumo
tra i capelli d’amianto. Mia madre ha una piega sul viso
e un lucchetto. Mia madre ha un dolore e un rosario.
Un ramo piantato sul collo e un loculo vuoto
tra suo padre e sua madre.
Mia madre ha tre figlie
e versi più belli dei miei.
Mia madre è allo specchio e mi guarda negli occhi.”
Lucilla Trapazzo, da “Ossidiana”
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Henri Matisse, “Le due sorelle”, 1917
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Immagine in evidenza: Nell Campos, “Ritratto di famiglia”