Linguaggi

Topografie poetiche

17.12.2021

“Alcuni luoghi sono un enigma. Altri una spiegazione.”

Fabrizio Caramagna

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Indicazione
“Smettetela di tormentarvi.
Se volete incontrarmi,
cercatemi dove non mi trovo.
Non so indicarvi altro luogo.”
Giorgio Caproni

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Opera di Erzsébet Szilajka

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Oggi io vado ancora
“Oggi io vado ancora
Là, nella vita, nell’incanto, al mercato,
Porto un drappello di canzoni
Sfido a duello la risacca del mercato.”
Velimir Chlebnikov, da “Quarantasette poesie facili e una difficile”, 2009 – Traduzione di Paolo Nori

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Ἀνάγκη (Anànke)
“Non conosco le mappe né l’oriente,
né le porte del mare, né i rifugi
dove si riparano i nomadi.
E non mi smarrisco: in ogni luogo
è scritta la mia traccia prima del mio arrivo.
Come se quanto compio e quanto vivo,
non potesse salvarmi né perdermi.”
Ricardo Paseyro (poeta uruguayano), da “Scacchi”, 1997

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Foto di Jordan Hammond

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Topografie

“Ci sono luoghi che,
a forza di sognarli,
poco a poco si spostano,
fino al giorno in cui
appaiono altrove nello spazio.

Così il desiderio  – questo topografo zoppo –
disegna le sue mappe nell’oscurità
quando le case dormono,
e in ogni letto del mondo
lascia una croce con il suo nome,
affinché sempre resteremo lì
dove un altro ci sogna,
e mai qui
dove nessuno ci nomina.”

Alfonso Brezmes, “Topografie”, da “Ultramor”, 2017 – Traduzione di Mirta Amanda Barbonetti

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Canto (segrete stanze)

“E non sapremo mai
Da che segrete stanze
Scaturisca il canto
E da quali lontananze, paure, rabbia
Tenerezza
O rimpianto
E da quale nostalgia
Prenda voce e parta
Questa lunga scia
Che ancora adesso
E imprevedibilmente
Ci porta
Via”
Gianmaria Testa, “Canto (segrete stanze)”, da “Extra-muros”, 1996
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Il negozietto di caramelle

“Il negozietto di caramelle dietro la soprelevata
è lì che per la prima volta
mi innamorai
dell’irrealtà
Gelatine luccicavano nella penombra
di quel pomeriggio di settembre
Sul bancone un gatto si insinuava tra
bastoncini di liquirizia
e barrette al cioccolato
e cicche Oh Boy

Fuori le foglie morivano e cadevano
Il vento aveva spazzato via il sole

Una ragazza entrò di corsa
Aveva i capelli zuppi di pioggia
Il seno ansava nella stanzetta

Fuori le foglie cadevano
e piangendo dicevano
Troppo presto! troppo presto!”

Lawrence Ferlinghetti, “Il negozietto di caramelle”

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Gustave Caillebotte, “Le Jeux de Bezique”, 1880

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Mensa ufficiali
I
Frugo la stanza con tutta la mente,
Scrutando tra quegli occhi;
Perché smanio di trovare
Una testa con cui io possa intendermi.
Non mi considero troppo saggio,
Ma solo, e cammino
Per questo grande posto e mi meraviglio. ‒ No:
Non c’è nessuno, temo,
Solo come me, qui.
Quanto devono odiarmi! Sono uno sciocco:
Non so giocare a bridge, a biliardo faccio pena;
Non so canticchiare motivi comici;
Non so di commercio, né di slang;
Le mie battute sono brutte, lunghi i racconti;
La voce mi viene meno, spezzata o sospesa,
Non sibila acide parole d’irrisione
Perciò le mie battute sembrano assurde.
II
Ma s’iniziò il discorso: ho trovato
Altri tre o quattro con cui discutere.
Ho forzato loro il passo. Han mosso le loro noiose ragioni,
E sono andati
A tentoni per i corridoi del Pensiero.
Abbiamo preso a strattoni le parole altrui fino a strapparle.
Mi han chiesto la mia filosofia: ne ho tirato
Fuori dei frammenti e li ho deposti a terra.
Han riso, e allora ho preso i pezzi a calci,
Poi li ho messi in tasca a uno a uno ‒
Io, dispiaciuto di averli tirati fuori,
Loro, grati per il divertimento.
E dopo aver scaraventato le parole nel lerciume,
Come scarafaggi intorno a un muro,
Uno dopo l’altro siamo andati cupi a dormire.
Non c’era alcuna felicità
In quella breve discussione senza speranza
Mentre si sbadigliava per raggiungere il letto
Tra uomini che aspettano di esser morti.
Harold Monro, “Mensa ufficiali”, da “Elm Angel”

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Tabaccheria

 

“Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.

Finestre della mia stanza,
della stanza di uno dei milioni al mondo che nessuno sa chi è
(e se sapessero chi è, cosa saprebbero?),
vi affacciate sul mistero di una via costantemente attraversata da gente,
su una via inaccessibile a tutti i pensieri,
reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
con il mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri,
con la morte che porta umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
con il Destino che guida la carretta di tutto sulla via del nulla.

Oggi sono sconfitto, come se conoscessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
e non avessi altra fratellanza con le cose
che un commiato, e questa casa e questo lato della via diventassero
la fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata
da dentro la mia testa,
e una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell’avvio.

Oggi sono perplesso come chi ha pensato, trovato e dimenticato.
Oggi sono diviso tra la lealtà che devo
alla Tabaccheria dall’altra parte della strada, come cosa reale dal di fuori,
e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.

Sono fallito in tutto.
Ma visto che non avevo nessun proposito, forse tutto è stato niente.
Dall’insegnamento che mi hanno impartito,
sono sceso attraverso la finestra sul retro della casa.
Sono andato in campagna pieno di grandi propositi.
Ma là ho incontrato solo erba e alberi,
e quando c’era, la gente era uguale all’altra.
Mi scosto dalla finestra, siedo su una poltrona.
A che devo pensare?
Che so di cosa sarò, io che non so cosa sono?
Essere quel che penso? Ma penso di essere tante cose!
E in tanti pensano di essere la stessa cosa che non possono essercene così tanti!
Genio? In questo momento
centomila cervelli si concepiscono in sogno geni come me,
e la storia non ne rivelerà, chissà?, nemmeno uno,
non ci sarà altro che letame di tante conquiste future.
No, non credo in me.
In tutti i manicomi ci sono pazzi deliranti con tante certezze!
lo, che non possiedo nessuna certezza, sono più sano o meno sano?
No, neppure in me…
in quante mansarde e non-mansarde del mondo
non staranno sognando a quest’ora geni-per-se-stessi?
Quante aspirazioni alte, nobili e lucide -,
sì, veramente alte, nobili e lucide -,
e forse realizzabili,
non verranno mai alla luce del sole reale nè troveranno ascolto?

Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
e non di chi sogna di poterlo conquistare, anche se ha ragione.

Ho sognato di più di quanto Napoleone abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo.
Ho creato in segreto filosofie che nessun Kant ha scritto.
Ma sono, e forse sarò sempre, quello della mansarda,
anche se non ci abito;
sarò sempre quello che non è nato per questo;
sarò sempre soltanto quello che possedeva delle qualità;
sarò sempre quello che ha atteso che gli aprissero la porta davanti a una parete senza porta,
e ha cantato la canzone dell’Infinito in un pollaio,
e sentito la voce di Dio in un pozzo chiuso.
Credere in me?
No, né in niente.

Che la Natura sparga sulla mia testa scottante
il suo sole, la sua pioggia, il vento che trova i miei capelli,
e il resto venga pure se verrà o dovrà venire, altrimenti non venga.
Schiavi cardiaci delle stelle,
abbiamo conquistato tutto il mondo prima di alzarci dal letto;
ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
ci siamo alzati ed esso è estraneo,
siamo usciti di casa ed esso è la terra intera,
più il sistema solare, la Via Lattea e l’Indefinito.

Mangia cioccolatini, piccina; mangia cioccolatini!
Guarda che non c’è al mondo altra metafisica che i cioccolatini.
Guarda che tutte le religioni non insegnano altro che la pasticceria.
Mangia, bambina sporca, mangia!
Potessi io mangiare cioccolatini con la stessa concretezza con cui li mangi tu!
Ma io penso e, togliendo la carta argentata, che poi è di stagnola,
butto tutto per terra, come ho buttato la vita.
Ma almeno rimane dell’amarezza di ciò che mai sarà
la calligrafia rapida di questi versi,
portico crollato sull’Impossibile.
Ma almeno consacro a me stesso un disprezzo privo di lacrime,
nobile almeno nell’ampio gesto con cui scaravento
i panni sporchi che io sono, senza lista, nel corso delle cose,
e resto in casa senza camicia.

Tu, che consoli, che non esisti e perciò consoli,
Dea greca, concepita come una statua viva,
o patrizia romana, impossibilmente nobile e nefasta,
o principessa di trovatori, gentilissima e colorita,
o marchesa del Settecento, scollata e distante,
o celebre cocotte dell’epoca dei nostri padri,
o non so che di moderno – non capisco bene cosa -,
tutto questo, qualsiasi cosa tu sia, se può ispirare che ispiri!
Il mio cuore è un secchio svuotato.
Come quelli che invocano spiriti invoco
me stesso ma non trovo niente.

Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con assoluta nitidezza.
Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le vetture passare,
vedo gli esseri vivi vestiti che s’incrociano,
vedo i cani che anche loro esistono,
e tutto questo mi pesa come una condanna all’esilio,
e tutto questo è straniero, come ogni cosa.
Ho vissuto, studiato, amato, e persino creduto,
e oggi non c’è mendicante che io non invidi solo perché non è me.
Di ciascuno guardo i cenci e le piaghe e la menzogna,
e penso: magari non ho mai vissuto, né studiato, né amato, né creduto
(perché si può creare la realtà di tutto questo senza fare nulla di tutto questo);
magari sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda
e che è irrequietamente coda al di qua della lucertola.

Ho fatto di me ciò che non ho saputo,
e ciò che avrei potuto fare di me non l’ho fatto.
Il domino che ho indossato era sbagliato.
Mi hanno riconosciuto subito per quello che non ero e non ho smentito, e mi sono perso.
Quando ho voluto togliermi la maschera,
era incollata alla faccia.
Quando l’ho tolta e mi sono guardato allo specchio,
ero già invecchiato.
Ero ubriaco, non sapevo più indossare il domino che non mi ero tolto.
Ho gettato la maschera e dormito nel guardaroba
come un cane tollerato dall’amministrazione
perché inoffensivo
e scrivo questa storia per dimostrare di essere sublime.
Essenza musicale dei miei versi inutili,
magari potessi incontrarmi come una cosa fatta da me,
e non stessi sempre di fronte alla Tabaccheria qui di fronte,
calpestando la coscienza di esistere,
come un tappeto in cui un ubriaco inciampa
o uno stoino rubato dagli zingari che non valeva niente.

Ma il padrone della Tabaccheria s’è affacciato sulla porta e vi è rimasto.
Lo guardo con il fastidio della testa piegata male
e con il disagio dell’anima che sta intuendo.
Lui morirà ed io morirò.
Lui lascerà l’insegna, io lascerò dei versi.
A un certo momento morirà anche l’insegna, e anche i versi.
Dopo un po’ morirà la strada dove fu stata l’insegna,
E la lingua in cui furono scritti i versi.
Morirà poi il pianeta che gira in cui tutto ciò accadde.
In altri satelliti di altri sistemi qualcosa di simile alla gente
continuerà a fare cose simili a versi vivendo sotto cose simili a insegne,
sempre una cosa di fronte all’altra,
sempre una cosa inutile quanto l’altra,
sempre l’impossibile, stupido come il reale,
sempre il mistero del profondo certo come il sonno del mistero della superficie,
sempre questo o sempre qualche altra cosa o nè una cosa nè l’altra.

Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
e la realtà plausibile improvvisamente mi crolla addosso.
Mi rialzo energico, convinto, umano,
con l’intenzione di scrivere questi versi per dire il contrario.
Accendo una sigaretta mentre penso di scriverli
e assaporo nella sigaretta la liberazione da ogni pensiero.
Seguo il fumo come se avesse una propria rotta,
e mi godo, in un momento sensitivo e competente
la liberazione da tutte le speculazioni
e la consapevolezza che la metafisica è una conseguenza dell’essere indisposti.

Poi mi allungo sulla sedia
e continuo a fumare.
Finche il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.
(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
magari sarei felice.)
Considerato questo, mi alzo dalla sedia.
Vado alla finestra.
L’uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilando il resto nella tasca dei pantaloni?).
Ah, lo conosco: è Esteves senza metafisica.
(Il padrone della Tabaccheria s’è affacciato all’entrata.)
Come per un istinto divino Esteves s’è voltato e mi ha visto.
Mi ha salutato con un cenno, gli ho gridato Arrivederci Esteves!, e l’universo
mi si è ricostruito senza ideale né speranza, e il padrone della Tabaccheria ha sorriso.”

 

Fernando Pessoa, “Tabaccheria”

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Sala d’aspetto

 

“L’intero spazio della mia vita
fu una sala d’aspetto da soglia a soglia,
racchiusa da vetri con aria in cornici d’acciaio
sotto le picche incrociate
di lancette d’orologio.

Stare in ascolto. Sussurrare. Trattenere il respiro.
Attendere un qualche segnale.
Ritardo. E di nuovo.
Ancora un poco. Già domani. Ancora
un attimo di pazienza infinita.

Se sbattevo l’ala contro l’aria vitrea,
invece di infrangerla,
era l’aria a spezzare la mia ala.

Sono già trascorsi i miei secondi.

Non saprò aspettare. Ma confuso
come in un sogno apparve
attraverso i vetri sporchi,
quasi in uno specchio nella nebbia,
il mio volto riflesso.

Era il volto stesso dell’attesa,
giunto al punto di pietrificazione.

E ho capito, all’improvviso:
c’è sempre un’ultima scadenza
per infrangerlo col naso –
per smuovere quest’aria inchiodata.

Non arriverà più un treno da altri luoghi.
Non più.

Dovrò io stessa diventare
il fischio di un treno lontano,
e un ritmo affannoso
sempre più veloce, sempre più vicino,
sempre più qui.”

 

Blaga Dimitrova, “Sala d’aspetto”

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Oscar-Claude Monet, “La Gare Saint-Lazare”, 1877

 

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La stazione

 

“Il mio non arrivo nella città di N.
è avvenuto puntualmente.

Sei stato avvertito
con una lettera non spedita.

Hai fatto in tempo a non venire
all’ora prevista.

Il treno è arrivato sul terzo binario.
È scesa molta gente.

La mia persona, assente,
si è avviata all’uscita tra la folla.

Alcune donne mi hanno sostituito
frettolosamente
in quella fretta.

A una è corso incontro
qualcuno che non conoscevo,
ma lei lo ha riconosciuto
immediatamente.

Si sono scambiati
un bacio non nostro,
intanto si è perduta
una valigia non mia.

La stazione della città di N.
ha superato bene la prova
di esistenza oggettiva.

L’insieme restava al suo posto.
I particolari si muovevano
sui binari designati.

È avvenuto perfino
l’incontro fissato.

Fuori dalla portata
della nostra presenza.

Nel paradiso perduto
della probabilità.

Altrove.
Altrove.
Come risuona questa parolina.”

 

Wisława Szymborska, “La stazione”, da “Uno spasso”, 1967

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Museo
“Ci sono piatti, ma non appetito.
Fedi, ma non scambievole amore
da almeno trecento anni.
C’è il ventaglio e i rossori?
C’è la spada dov’è l’ira?
E il liuto, non un suono all’imbrunire.
In mancanza di eternità hanno ammassato
diecimila cose vecchie.
Un custode ammuffito dorme beato
con i baffi chini sulla vetrina.
Metalli, creta, una piuma d’uccello
trionfano in silenzio nel tempo.
Ride solo la spilla d’una egiziana ridarella.
La corona è durata più della testa.
La mano ha perso contro il guanto.
La scarpa destra ha sconfitto il piede.
Quanto a me, credete, sono viva.
La gara col vestito non si arresta.
E lui quanta tenacia mi dimostra!
Vorrebbe viver più della mia vita!”
Wisława Szymborska, “Museo”, da “Sale”, 1962

 

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© Vitra Design Museum / FotoLudger Paffrath

 

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La chiesa

 

“La chiesa era bella, tutta colma di peccati.
Sul sagrato, resti di risa.
Avevo, nella borsa, un lampadario acceso.
Era fatto di lacrime solide,
piccole gocce che sembravano di cristallo.
La spettronomia di massa ci rivelava, al loro interno,
minuscole api fossili, ricordo d’intenzioni operaie.
Quante volte, le avevo sentite lavorare,
col loro ronzare infinitesimamente piccolo,
intorno ai miei occhi, poco prima del pianto.
La chiesa era bella, tutta colma di fedeli.
Sul soffitto, sciami di preghiere.
fammi guarire, fammi morire, fammi dormire,
fammi ricco, fammi innamorare,
fallo tornare, fallo scappare, fallo guarire,
fallo morire, fallo per la Juve,
ti prego, mio Signore.
Avevo, nella borsa, anche un dromedario
e qualche spicciolo di luna.
Tu avevi gli occhi luminosi e ti hanno chiesto di spegnerli,
adombravi Dio.
Hai riso così forte, che il riso, per gli sposi,
non è bastato più.
Allora abbiamo spento, occhi e lampadario e, quieti,
siamo andati all’altro mondo.
Il nostro preferito.”

Cecilia Resio, “Gli infedeli e la spettronomia di massa”, da “L’odore dei leoni”

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                       Vincent Van Gogh, “Camera da letto”,1888 

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La stanza vuota

A Carlos Edmundo de Ory in memoriam

“Era uno dei tuoi giochi preferiti.
Cosa c’è in una stanza vuota?
domandavi. Noi restavamo in silenzio.
Cosa c’è in una stanza vuota?
Quelli che non conoscevano il gioco
dicevano magari: Niente, e tu dicevi: No.
Niente è niente, ho chiesto cosa.
Finché qualcuno diceva, ad esempio: Silenzio.
E tu dicevi: Sì.
E un altro diceva: Polvere.
E il gioco cominciava a decollare.
Orme di passi sopra il pavimento.
Un fantasma. Una presa. Il foro
d’un chiodo. La penombra.
Il quadrato che lascia sul muro
l’assenza di un quadro. Un filo.
Una lettera per terra.
L’impronta di una mano sulla parete.
Un raggio di sole che entra dalla finestra.
Una ragnatela. Un pezzetto
di carta. Un’unghia. Una formica smarrita.
La musica che arriva dalla strada
(c’è musica senza nessuno che la ascolti?).
Una macchia d’umidità o di fumo.
Scarabocchi o uccelli o nomi
o un disegno di Laura sulla parete.
E tu dicevi sì o no.
Tu lo sapevi. Eri l’inventore del gioco.
Tu già sapevi, Carlos, cosa c’è
nella stanza vuota dove sei appena entrato.
Era uno dei tuoi giochi preferiti.
– Cosa c’è in una stanza vuota?
– Un fantasma.
– L’hanno già detto.
– Sì, ma quello che dico io è un altro.”
Juan Vicente Piqueras, “La stanza vuota” 
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La stanza vuota
“Nella mia testa
c’è sempre stata una stanza vuota per te
quante volte ci ho portato dei fiori
quante volte l’ho difesa dai mostri
Adesso ci abito io
e i mostri sono entrati con me”
Michele Mari, “La stanza vuota”, da “Cento poesie d’amore a Ladyhawke”
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Torri

1.

Il potere che ha Pisa di piegare la testa di lato
dovrebbe essere invidiato dalla storia,
la quale può solo dirigerla in avanti –
e Babele viene certo lodata
in ogni libro (su ogni pagina)
per il modo che ha di slenticolare le nostre parole.

2.

Galileo lascia cadere mezzo chilo di piombo
e mezzo chilo di piume dalla vetta
uno ti colpisce sulla testa
ma quale –
(quale testa?) –
Ti fa pensare, impedendoti di farlo.

3.

Da queste parti ogni torre
ha costante bisogno di riparazioni
a causa della scaramantica abitudine
che ha di sporgersi
e sbirciare al tredicesimo piano
per assicurarsi che ancora non ci sia.

Bill Knott

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 Renato Guttuso, “Il Caffè Greco”, 1976

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Bar cosmopolita
“Arriviamo al bancone come una nave
che accosta al molo.
Il bar respira il fumo azzurro
di svariati tabacchi
e a mala pena riusciamo a scorgere
i gesti della cameriera.
Si parla di lunghi viaggi
e gli avventori più ubriachi
si guardano nei fantasmi che sorgono
dagli specchi rotti.
All’improvviso si apre una porta
a un colpo di vento
e tutti ci vediamo navigare
in un mare di tenebre
verso la più spaventosa ubriachezza.”
Marino Muñoz Lagos, da “I volti della pioggia”, 1970
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Ospedale

 

“Una giovane donna con il volto all’ombra di un albicocco prende
il sole nel giardino dell’ospedale, scopre le gambe pallide coperte
da una bianca vestaglia. Non c’è una farfalla e non c’è nessuno che
venga a trovare questa donna malata che soffre durante il
trascorrere di quella mezza giornata. Tra i rami dell’albicocco
indifferente non soffia neppure il vento.

Anche io sono giunto qui dopo aver sofferto per molto tempo un
ignoto dolore. Il mio vecchio dottore non conosce le malattie dei
giovani. Dice che non sono malato. Sono così stanco e affaticato
che ormai non posso provare rancore.

La donna si alza e sistema il vestito, coglie un mazzolino di
calendule dal prato fiorito, lo adagia sul petto e scompare nella sua
camera. Io spero che presto quella donna torni in salute e auguro
una guarigione rapida anche per me stesso. Ora provo a sdraiarmi
dove prima lei era sdraiata.”

Yun Dong Ju (poeta coreano morto nel 1945 in un carcere di Fukuoka, in Giappone, per motivi oscuri, forse a causa di esperimenti fatti sui detenuti), “Ospedale”, da “Vento blu”
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Vincent Van Gogh, “Corsia dell’ospedale di Arles”, 1889
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Code

 

“Non mi dispiace fare le code,
c’è tempo per pensare,
per guardare dentro la borsa,
dentro la tasca dell’auto,
tempo per programmare i giorni a venire
domani dopodomani,
per guardare negli occhi di quell’extra gentile
(che vetro scintillante mi ha fatto,
gli ho chiesto il sinistro domani il destro,
ogni giorno un pezzetto diverso)
tempo per guardare quel bel geranio al quarto piano,
sta bagnandolo una vecchina pulita, bellina,
tempo per leggere i titoli, il nome di una via,
tempo per cominciare questa poesia.”

Vivian Lamarque, “Code”
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Diario di un secondo
1.
Arrivo da un paese
che non si saprebbe
descrivere senza
lo sguardo del pellicano.
2.
Un paese
dove la notte è
eterna, come i suoi laghi
e le sue montagne.
3.
Un paese fatto di luce
e pane fresco,
di alberi
dal volto di colibrì.
4.
Arrivo da un paese dove
tutto è fragranza,
fruscio d’occhi
e vulcani
infuriati.
5.
Un paese che le mie mani
trasportano
come io
la vita
sui crocevia
dell’esilio.
6.
Un paese di fiori
e d’alberi
in fiamme.
Un paese
dove le onde
dell’oceano
magnetizzano il sole.
Patricio Sanchez-Rojas, “Diario di un secondo”, da “Le parapluie rouge”
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Henri de Toulouse-Lautrec, “Al salon di rue des Moulins”, 1894
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La casa della sgualdrina
“Avvertimmo il ritmo dei piedi danzanti,
passeggiando per la via illuminata dalla luna
e ci fermammo sotto la casa della sgualdrina.
Dentro, fra schiamazzi e baccano,
udimmo i musicisti suonare possenti
il “Treues Liebes Herz” di Strauss.
Come strane creature, grottesche e meccaniche,
intente a creare fantastici arabeschi,
le loro ombre si muovevano dietro le tende.
Ci trattenemmo a guardare i ballerini spettrali
che volteggiavano al suono del corno e del violino,
come fossero foglie nere vorticanti nel vento.
Come automi manovrati da fili,
snelli scheletri in silhouette
avanzavano tra la lenta quadriglia.
Si prendevano ciascuno per la mano
e danzavano una solenne sarabanda,
facendo echeggiare le loro risa stridule.
A volte un fantoccio meccanico stringeva
un amante fantasma al suo seno;
talvolta sembrava che provassero a cantare.
A volte un’orribile marionetta
usciva e fumava la sua sigaretta
sui gradini come cosa viva.
Allora, voltandomi al mio amore, dissi:
“I morti ballano con i morti,
La polvere gira con la polvere”.
Ma lei, udito il suono del violino,
si scostò da me ed entrò nella casa:
Amore era entrata nella casa della voluttà.
Improvvisamente la musica si smorzò,
i ballerini smisero di danzare il valzer,
le ombre smisero di volteggiare e roteare.
Lungo la strada ampia e silente,
l’alba, calzando sandali d’argento,
strisciò come fanciulla intimorita.”
Oscar Wilde, “La casa della sgualdrina”
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   Phil Lockwood, “Uffici di notte”
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In ufficio
“La luna guarda verso di noi,
vede me povero commesso
languire sotto lo sguardo severo
del mio principale.
Mi gratto confuso il collo.
Nella mia vita ancora non ho conosciuto
un sole durevole.
La mancanza è la mia sorte:
doversi grattare il collo
sotto lo sguardo del principale.
La luna è la ferita della notte,
gocce di sangue sono le stelle.
Se anche rimango lontano dalla felicità
per questo la mia indole è modesta.
La luna è la ferita della notte.”
Robert Walser
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Casa di riposo, primo piano

“Per quanto staranno così
separati dalla propria armonia
note volate via
dallo stesso spartito,
per quanto vivranno così,
le nuche sulla federa sudata
il silenzio negli occhi
lo strepito delle mani accasciate
c’è tanto silenzio, qui, padre
la vita si alza in silenzio, qui, padre,
respira salendo verso le tenebre
lo sforzo di un tronco strozzato dall’edera
e fuori sciama e chiama la gioventù fogliante
primavera mia
che ci sono finestre dove il sole
si affaccia come non desiderato
e azzurri che depongono
la loro azzurra dolcezza;
la speranza è nel gesto, papà,
senza radice e puro
dalla tua mano alla mia
dalla mia mano alla tua
lo splendore di un frutto maturo.

Pierluigi Cappello, “Casa di riposo, primo piano”

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         Edvard Munch, “Il fumo della locomotiva”, 1900

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Stazione
“Un treno è entrato in stazione. È fermo, vagone dopo vagone,
Ma nessuna porta si apre, nessuno scende o sale.
Ci sono veramente delle porte? Là dentro un brulichio
Di uomini rinchiusi che vanno su e giù.
E scrutano dai finestrini immobili.
Fuori lungo il treno cammina un uomo con un martello.
Urta le ruote che debolmente risuonano. Tranne qui.
Qui il rumore aumenta incomprensibilmente: un fulmine,
Il rintocco dell’orologio della cattedrale,
Il rumore della circumnavigazione del globo
Che solleva tutto il treno e le pietre umide dei dintorni.
Tutto canta. Ve lo ricorderete. Andate avanti.”
Tomas Transtromer, “Stazione”

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Qui, sempre qui
“Qui, è il luogo chiaro. Non è più l’alba,
È già la giornata dei desideri esprimibili.
Dei miraggi di un canto nel tuo sogno non resta
Che questo scintillio di pietre future.
Qui, e fino a sera. La rosa di ombre
Si girerà sopra i muri. La rosa di ore
Sfiorirà senza rumore. Le chiare lastre di pietra
Condurranno a lor grado questi passi invaghiti del giorno.
Qui, sempre qui. Pietra su pietra
Hanno costruito il paese dettato dal ricordo.
A malapena se il rumore dei semplici frutti che cadono
In te ancora infebbra il tempo che sta guarendo.”
Yves Bonnefoy, “Qui, sempre qui”
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Foto di Sonia Simbolo
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Il muro
“Il ragazzo disse che il muro della sua casa era
alto quanto due rondini.
(C’era un frutteto dall’altro lato del muro.)
Ma ciò che più attraeva la nostra attenzione
in modo particolare
Era l’altezza del muro
Ovvero quella di due rondini.
Poi il ragazzo spiegò:
Se il muro fosse stato alto due metri
qualsiasi ladro l’avrebbe saltato
Ma all’altezza di due rondini nessun ladro
poteva saltare.
Era così.”
Manoel de Barros, da “Poesie rupestri” (traduzione di Chiara De Luca), 2016
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Sotto il gelso
“Carta carbonizzata
innevava la strada
lanterne sghembe ondeggiavano ebbre
le finestre a inferriate
della scuola di mattoni
tenevano al sicuro in cantina quaranta bambini
le mura della città
andavano in cenere
di fronte alla scuola
c’era un albero di gelso
e un bambino
nei bagliori dell’incendio
si ingozzava la bocca
di dolci more
la scuola in mattoni
è bruciata per intero
le inferriate tennero bene
i quaranta presero fuoco
come libri urlanti
da ultime s’infiammarono
le braccia protese
il bambino
ha smesso di crescere
– uno scemo qualsiasi –
e mentre sulla cenere crescono le cipolle
lui continua
sotto l’albero di gelso
a ingozzarsi la bocca
di dolci more.”
Helga Maria Novak (poetessa islandese di lingua tedesca), da “Finché arrivano lettere d’amore. Poesie 1956-2004” – Traduzione di Paola Quadrelli
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Emil Claus, “Il vecchio giardiniere”, 1885
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Casa di riposo
“Sono un giardiniere in pensione,
conosco ancora
l’orario degli otto venti.
Le mie previsioni
su quando giungeranno le nuvole di pioggia,
sono degne di fiducia.
A parte la gotta e l’insaziabile desiderio
di un bicchierino di grappa,
non mi dà fastidio nulla.
I miei amici sono morti
e i nemici sono spariti.
Questo mondo, che non capisco più,
mi visita sotto forma di giornale
una volta alla settimana
e più volte ogni giorno
svolazza uno stormo di passeri davanti alla mia finestra.
Per avermi dato confidenza, li ho promossi
a fringuelli.”
Rainer Brambach (poeta svizzero), “Casa di riposo”
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L’appartamento
1
Passa, dicono, le giornate
con addosso un pigiama, una vestaglia. A chi
gli consiglia d’uscire, di muoversi, altrimenti
i muscoli, alla sua età, si atrofizzano, le giunture
si bloccano, risponde
con un dolce, lento sorriso.
2
Caverna, bunker, mucosa,
spolverati libri che nessuno
leggerà né scompiglia,
grande schermo millimetrato della concentrazione,
dell’introiezione – e dovrebbe
spegnerlo, vestirsi, arrischiare le ossa
nell’aria confusa, piena di pòlline?
3
Va piano piano alla finestra
a vedere se nevica ancora, se continua
nel buio luminoso, là fuori
l’infantile disastro del mondo.
Giovanni Raboni, da “Nel grave sogno”, 1982
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La foto in evidenza è di Sonia Simbolo

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