“C’è un umano per strada e sta guardando l’orologio” annunciò Segretario che sbirciava fuori. “È il poeta! Non c’è tempo da perdere!” Miagolò Zorba correndo a tutta velocità verso la finestra.
Le campane della chiesa di San Michele iniziarono a suonare i dodici rintocchi della mezzanotte e l’umano sussultò al rumore di vetri rotti. Il gatto nero grande e grosso cadde per strada in mezzo a una pioggia di schegge, ma si rialzò senza preoccuparsi per le ferite alla testa, e saltò di nuovo dentro la finestra dalla quale era uscito. L’umano si avvicinò nel preciso istante in cui una gabbiana veniva sollevata da vari gatti fino al davanzale. Dietro i gatti, uno scimpanzé si palpeggiava la faccia cercando di tapparsi occhi, orecchi e bocca allo stesso tempo. “Prendila! Che non si ferisca coi vetri“, miagolò Zorba. “Venite qua tutti e due“, disse l’umano prendendola in braccio. L’umano si allontanò in fretta dalla finestra del bazar. Sotto l’impermeabile aveva un gatto nero grande, e grosso e una gabbiana dalle piume d’argento. “Canaglie! Banditi! Me la pagherete!” Strillò lo scimpanzé. “Te la sei voluta. E sai cosa penserà Harry domani? Che sei stato tu a rompere il vetro“, ribatté Segretario. “Accidenti, anche stavolta è riuscito a togliermi i miagolii di bocca“, protestò Colonnello. “Per i denti della murena! Sul tetto! Vedremo volare la nostra Fortunata!” Miagolò Sopravento.
Il gatto nero grande e grosso e la gabbianella stavano ben comodi sotto l’impermeabile, al calduccio contro il corpo dell’umano che camminava con passi rapidi e sicuri. Sentivano i loro tre cuori battere con ritmi diversi, ma con la stessa intensità. “Gatto, sei ferito?” Chiese l’umano vedendo delle macchie di sangue sui risvolti dell’impermeabile. “Non importa. Dove andiamo?” Chiese Zorba. “Capisci l’umano?” Stridette Fortunata. “Sì. Ed è una brava persona che ti aiuterà a volare“, le assicurò Zorba. “Capisci la gabbiana?” Chiese l’umano. “Dimmi dove stiamo andando“, insisté Zorba. “Da nessuna parte, siamo arrivati“, rispose l’umano.
Zorba fece capolino. Erano davanti a un edificio alto. Sollevò gli occhi e riconobbe il campanile di San Michele illuminato da vari riflettori. I fasci di luce colpivano in pieno la sua struttura slanciata rivestita di lastre di rame che il tempo, la pioggia e i venti avevano coperto di una patina verde. “Le porte sono chiuse.” Miagolò Zorba. “Non tutte.” Disse l’umano. “Nelle notti di burrasca ho l’abitudine di venire qui a fumare e a riflettere in solitudine. Conosco un’entrata per noi“. Fecero un giro e si intrufolarono da una piccola porta laterale che l’umano aprì con l’aiuto di un coltello a serramanico. Poi tirò fuori di tasca una torcia e, guidati dal suo sottile fascio di luce, iniziarono a salire una scala a chiocciola che sembrava interminabile. “Ho paura“, stridette Fortunata. “Ma vuoi volare, vero?” Miagolò Zorba.
Dal campanile di San Michele si vedeva tutta la città. La pioggia avvolgeva la torre della televisione, e al porto le gru sembravano animali in riposo. “Guarda, si vede il bazar di Harry. I nostri amici sono laggiù“, miagolò Zorba. “Ho paura! Mamma!” Stridette Fortunata. Zorba saltò sulla balaustra che girava attorno al campanile. In basso le auto sembravano insetti dagli occhi brillanti. L’umano prese la gabbiana tra le mani. “No! Ho paura! Zorba! Zorba!” Stridette Fortunata beccando le mani dell’ umano. “Aspetta. Posala sulla balaustra“, miagolò Zorba. “Non avevo intenzione di buttarla giù“, disse l’umano. “Ora volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. È acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come una ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali.” Miagolò Zorba. La gabbianella spiegò le ali. I riflettori la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L’umano e il gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi. “La pioggia. L’acqua. Mi piace!” stridette. “Ora volerai“, miagolò Zorba. “Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono“, stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra. “Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo“, miagolò Zorba. “Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti” stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perché come dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli equilibristi.
“Vola!” miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola appena. Fortunata scomparve alla vista, e l’umano e il gatto temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele. Fortunata volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava battendo le ali con energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della chiesa. “Volo! Zorba! So volare!“, strideva euforica dal vasto cielo grigio.
L’umano accarezzò il dorso del gatto. “Bene, gatto. Ci siamo riusciti.” Disse sospirando. “Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante“, miagolò Zorba. “Ah sì? E cosa ha capito?” Chiese l’umano. “Che vola solo chi osa farlo“, miagolò Zorba. “Immagino che adesso tu preferisca rimanere solo. Ti aspetto giù“, lo salutò l’umano. Zorba rimase a contemplarla finché non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi gialli di gatto nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto.
Luis Sepulveda, da “Storia di gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”