“Le persone capitano per caso nella nostra vita, ma non a caso. Spesso ci riempiono la vita di insegnamenti. A volte ci fanno volare in alto, altre ci schiantano a terra insegnandoci il dolore… donandoci tutto, portandosi via il tutto, lasciandoci niente…
Alda Merini
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La signora Mida
“Settembre inoltrato. M’ero appena versata un bicchiere di vino,
cominciavo a rilassarmi, mentre la verdura cuoceva. Era quieta
la cucina, satura del suo stesso odore, il suo vapore
lieve imbiancava, le finestre. Una la aprii,
l’altra l’asciugai con la mano come una fronte.
Lui, sotto il pero, stava spezzando un ramoscello.
Il giardino era lungo, è vero, la visibilità scarsa, come se
l’oscurità del terreno bevesse la luce del cielo,
ma quel ramoscello era d’oro. Poi lui staccò
una pera dal ramo – noi coltiviamo le William –
e quella sul suo palmo sembrava una lampadina. Accesa.
Non starà addobbando l’albero? Mi chiesi.
Entrò in casa. Le maniglie luccicavano.
Abbassò le persiane. Avete intuito; mi vennero in mente
il Campo del Drappo d’Oro e la signorina Macready.
Sedette sulla sedia come un re su un trono rilucente.
Aveva un’aria strana, spiritata, vana. Dissi,
Santiddio, cosa succede? Si mise a ridere.
Servii la cena. Per antipasto, pannocchia di granturco.
Un attimo dopo si mise a sputare i denti dei ricchi.
Giocherellò col suo cucchiaio, poi col mio, con coltelli e forchette.
Chiese del vino. Versai col tremor nella mano
un bianco secco, fragrante, italiano; lo guardai
alzare il bicchiere, una coppa, un calice d’oro, bere.
Fu allora che mi misi a strillare. Cadde in ginocchio.
Ci calmammo, il vino lo finii da sola,
mentre lo ascoltavo. Lo feci sedere
in fondo alla stanza, mani sotto controllo.
Chiusi il gatto in cantina. Spostai il telefono.
Il cesso lo lascia stare. Non credevo alle mie orecchie:
Aveva espresso un desiderio. E chi non ne ha, vero?
Ma quale di questi si avvera davvero? Il suo. Avete presente l’oro?
Non sfama nessuno; aurum, malleabile, inossidabile; non sazia
la sete. Cercò di accendere una sigaretta; io guardavo, incantata,
mentre la fiamma bluastra danzava sul suo luteo stelo. Almeno,
dissi, smetterai di fumare per sempre.
Letti separati. Misi anche una sedia contro la porta,
ero quasi impietrita. Lui era giù, a trasformare la camera degli ospiti
nella tomba di Tutankhamun. Sì, perché eravamo appassionati allora,
in quei giorni felici; ci spogliavamo svelti, come si scarta
un regalo, o il fast food. Ma ora temevo il suo dolce abbraccio,
il bacio che delle mie labbra avrebbe fatto un’opera d’arte.
E, in fondo in fondo, chi può vivere
con un cuore d’oro? Quella notte sognai di dare
alla luce il suo bambino, le membra d’oro puro,
la piccola lingua un chiavistello prezioso, gli occhi d’ambra
che come mosche racchiudevano le pupille. Il latte del sogno
mi brucia nel petto. Mi svegliai col sole che m’inondava.
Dovette andarsene. Avevamo una roulotte
in aperta campagna, un terreno isolato. Ve lo portai
al calar della notte, seduto sul sedile posteriore.
E poi tornai a casa, la donna che aveva sposato il fesso
che voleva l’oro. All’inizio l’andavo a trovare, a ore strane,
lasciavo la macchina molto lontano, poi andavo a piedi.
Si capiva che si stava per arrivare. Trote d’oro
sull’erba. Un giorno, da un larice pendeva una lepre,
un bell’errore color limone. E poi le sue impronte,
che brillavano sul sentiero lungo il fiume. Era magro,
delirava; sentiva, diceva, la musica di Pan
provenire dal bosco. Credetemi. Fu l’ultima goccia.
Ciò che mi irrita ora non è l’idiozia né la cupidigia
ma il non aver pensato a me. Puro egoismo. Ho venduto
gli arredi della casa e mi sono trasferita qui.
Con una certa luce lo penso, all’alba, al tramonto,
e una ciotola di mele un giorno mi ha gelato il sangue. Più di tutto,
anche ora, mi mancano le sue mani, le sue mani calde, il tocco
sulla mia pelle.”
Carol Ann Duffy, “La signora Mida”
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René Magritte, “The False Mirror”,1928
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Tutto è importante
“Tutto è importante.
Che qualcuno accenda la luce,
raccolga la carta buttata a terra,
ascolti la storia ripetuta più volte,
pieghi la biancheria,
giochi secondo le regole,
dica le cose come stanno,
resista alle tentazioni,
pulisca il balcone,
aspetti a attraversare col giallo,
si congratuli per le vittorie,
accetti le conseguenze,
prenda le parti di qualcuno,
vada per primo,
vada per ultimo,
scelga il pezzo più piccolo,
stia vicino a chi muore,
conforti chi sta male,
tiri via una scheggia da un dito,
asciughi una lacrima,
dia indicazioni a chi si è perso,
tocchi chi è solo.
Le cose più belle
sono le meno riconosciute.”
Laura McBride, “Tutto è importante”
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Emilio Tadini, “Fiabe”
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Il signore nel cuore
“Le era entrato nel cuore.
Passando dalla strada degli occhi e delle orecchie le era entrato nel cuore.
E lì cosa faceva?
Stava.
Abitava il suo cuore come una casa.”
Vivian Lamarque
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Mojmir Jezek
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Il signore della buonanotte
“Da un letto lontano con tutta la migliore stessa buonanotte
gli augurava.
C’era la luna?
Oh sì la luna e anche le mille stelle, più le fronde degli alberi e le
addormentate acque, con tutto tutto buonanotte gli augurava.
E il signore sentiva?
Sì, il signore piano piano sentiva, mentre si addormentava.”
Vivian Lamarque
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Il signore sognato
“Splendidissima era la vita accanto a lui sognata.
Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava.
E nella realtà?
La realtà non c’era, era abdicata.
Splendidissima regnava la vita immaginata.”
Vivian Lamarque
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Il signore d’oro
“Era un signore d’oro. Un signore d’oro fino, zecchino.
Per il suo carattere duttile e malleabile, per il suo caldo dorato
colore, per il luccichio dei suoi occhi, era un signore molto
ricercato.
I corsi dei fiumi venivano deviati, i fondali scandagliati e setacciati,
ma i signori che affioravano brillavano poco, erano signori
pallidi, opachi, non erano d’oro vero, erano signori falsi.
Non avevano aurifere vene?
No, le loro lente vene scorrevano quasi del tutto essiccate in
direzione dei loro minuscoli cuori, a fatica.
E dov’era il signore d’oro vero?
Lontano, in una casa assolata, pigro e paziente, aspettando di
essere trovato, in un angolino, il signore d’oro luccicava.”
Vivian Lamarque
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Marc Chagall, “Sopra Vitebsk”, 1914
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Il signore nell’aria
“Alle ore venti ognuno tornava alla sua casa.
Non avevano una stessa casa?
No, ma nell’aria sì.
Nell’aria?
Sì, a destra e a sinistra nel mezzo dell’aria avevano una stessa
casa. Con le porte e le finestre gli uccelli le cene le voci e il riposo.
Non i colori?
Sì, colori splendenti erano appesi nei quadri nell’aria della casa.”
Vivian Lamarque
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La signora non gelosa
“Una signora che stava diventando gelosa non lo diventò.
Nemmeno un po’?
Sì, un po’ sì ma pochissimo, come un solletico al contrario che
invece di far ridere manca poco a piangere.”
Vivian Lamarque
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Larry Madrigal, “Lotta al solletico”
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Il signore puntino
“Non potendolo vedere sempre, quando infine poteva vederlo lo
guardava moltissimo, fino all’ultimo minuto, fino all’ultimo
secondo, e anche dopo si voltava indietro, si voltava indietro.
Il signore diventava sempre più piccolo, ormai era quasi del
tutto irriconoscibile, eppure lei lo riconosceva benissimo,
anche sottoforma di minuscolo puntino laggiù.”
Vivian Lamarque
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Francisco José de Goya y Lucientes, “Il Parasole”, 1777-1778
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La signora parasole
“Come nel famoso quadro, ma non lui a lei, lei a lui teneva il
verde parasole.
Era un parasole speciale.
Chi stava lì sotto era protetto da tutti i mali del mondo.
La signora stava ben attenta a coprire perfettamente tutto il
signore, a non lasciarne fuori, in pericolo, nemmeno un pezzetto.”
Vivian Lamarque
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Installazione di Joan Brossa
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Il Maestro
“Dimorava in se stesso
come un corvo in una torre senza tetto.
Per accostarlo dovevo inerpicarmi
a lungo su per bastioni deserti
senza battere ciglio o alzare gli occhi
per cercare degli occhi che scrutassero
dalla sua vedetta di clausura.
Deliberatamente disserrava
il suo libro di reticenze
una pagina alla volta e non era nulla
di arcano, solo vecchie regole
che tutti avevamo iscritto sulle nostre lavagne.
Ogni carattere bloccato sulla pergamena sicuro
nel suo volume e misura.
Ad ogni massima il suo spazio.
Dì il vero. Non temere.
Nozioni durevoli, ostinate,
come martelli di minatori e cunei saggiati
da un intransigente servizio.
Come la pietra della cimasa su cui ci si ristora
nel balsamo della fonte.
Che fragile mi sentivo scendendo
la scala senza ringhiera delle mura,
sentendomi sopra il battito d’ali
del proposito e del rischio.”
Seamus Heaney
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Il vecchio professore
“Gli ho chiesto di quei tempi,
quando ancora eravamo così giovani,
ingenui, impetuosi, sciocchi, sprovveduti.
È rimasto qualcosa, tranne la giovinezza
– mi ha risposto.
Gli ho chiesto se sa ancora di sicuro
cosa è bene e male per il genere umano.
È la più mortifera di tutte le illusioni
– mi ha risposto.
Gli ho chiesto del futuro,
se ancora lo vede luminoso.
Ho letto troppi libri di storia
– mi ha risposto.
Gli ho chiesto della foto,
quella in cornice sulla scrivania.
Erano, sono stati. Fratello, cugino, cognata,
moglie, figlioletta sulle sue ginocchia,
gatto in braccio alla figlioletta,
e il ciliegio in fiore, e sopra quel ciliegio
un uccello non identificato in volo
– mi ha risposto.
Gli ho chiesto se gli capita di essere felice.
Lavoro
– mi ha risposto.
Gli ho chiesto degli amici, se ne ha ancora.
Alcuni miei ex assistenti,
che ormai hanno anche loro ex assistenti,
la signora Ludmilla, che governa la casa,
qualcuno molto intimo, ma all’estero,
due signore della biblioteca, entrambe sorridenti,
il piccolo Jas che abita di fronte e Marco Aurelio
– mi ha risposto.
Gli ho chiesto della salute e del suo morale.
Mi vietano caffè, vodka e sigarette,
di portare oggetti e ricordi pesanti.
Devo far finta di non aver sentito
– mi ha risposto.
Gli ho chiesto del giardino e della sua panchina.
Quando la sera è tersa, osservo il cielo.
Non finisco mai di stupirmi,
tanti punti di vista ci sono lassù
– mi ha risposto.”
Wislawa Szymborska, “Il vecchio professore”, da “Due punti”, 2005
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Edward Hopper, “Gente al sole”, 1960
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L’infermiere dei feriti
“Vecchio e cadente, avanzo tra volti nuovi.
Risalgo il corso degli anni e ricordo per rispondere ai bimbi,
Vieni, raccontaci, vecchio, da parte di fanciulli, di fanciulli che amano,
(Irato, furioso avevo pensato di suonare l’allarme. di spingerli ad una guerra senza tregua.
Ma presto mi caddero le mani, curvai il voto e mi rassegnai.
Sedere presso i feriti ed alleviarne le pene, o In silenzio vegliare i morti;)
Tanti anni dopo queste scene, queste furiose passioni, queste occasioni,
Di eroi da nessuno mai superati, (si fu valorosi da una parte? dall’altra si fu valorosi ugualmente.)
Oggi testimonia di nuovo, descrivi le più possenti armate della terra.
Di quelle armate cosi rapide, cosi prodigiose. che hai mal veduto da poterci narrare?
Che ti è rimasto, estremo e più profondo? strani sgomenti,
Scontri accaniti, assedi terribili, che ti è rimasto più nel profondo?
Fanciulle, fanciulli che amo e che mi amate,
Ciò che voi mi chiedete dei miei giorni, i più strani e improvvisi che evocano le vostre parole.
Soldato vigile arrivo dopo una lunga marcia, coperto d sudore e polvere.
Arrivo in buon punto, mi tuffo nella mischia, ad alta voce urto nell’impeto della carica vittoriosa
Entro nella fortezza espugnata – ma osservate, come un rapido fiume svaniscono
Passano e sono scomparsi, svaniscono – io non mi attardo sui pericoli dei soldati,
(Gli uni e le altre ben li ricordo – molti i travagli, scarse le gioie, e tuttavia ne ero contento.)
Ma in silenzio, in visioni di sogno,
Mentre il mondo dei guadagni, delle apparenze, dell’allegria va per la sua strada.
Presto odiato ciò che oramai e trascorso, e intanto le onde cancellano le importe sulla sabbia.
Con snodate ginocchia tornando penetro nelle porte (allora tu, lassù.
Chiunque tu sia, seguimi senza rumore e sta saldo d cuore.)
Recando bende, l’acqua e la spugna.
Rapido mi dirigo verso i miei feriti,
Dove giacciono per terra, ivi portati dopo la battaglia.
Dove il loro sangue prezioso arrossa l’erba per terra,
O verso le file di giacigli nella tenda dell’ambulanza, o sotto il tetto d un ospedale.
Percorso le lunghe distese di brande da una parte e dall’altra,
A tutti, uno dopo l’altro, mi accosto, non ne tralascio nessuno.
Mi segue un infermiere con un vassoio e un secchio,
Che ben presto si riempirà di stracci cruenti, di sangue e, svuotato, non tarderà a riempirsi
Procedo, mi fermo.
Su snodate ginocchia, con mano sicura medico le ferite,
Sono risoluto con tutti, il dolore è intenso ma inevitabile.
Uno mi rivolge occhi supplici – povero regalo! non t’ho mai conosciuto.
Eppure penso che non saprei ricusare d morire in questo momento per te, se la mia morte potesse salvarti.
E continuo, procedo, (apritevi, porte del tempo! apritevi, porte dell’ospedale!)
Bendo la testa schiacciata (povera mano impazzita no, non strappare le bende).
Il collo che un cavalleggero che un proiettile ha passato da parte a parte, lo esamino
Rantola forte e con fatica, gli occhi sono già quasi vitrei, eppure la vita non cede, (Scendi, dolcissima morte! lasciati persuadere, o splendida morte!
Per pietà, scendi presto).
Dal moncherino cui venne amputata la mano,
Tolgo le bende coagulate, stacco una crosta, lavo il pus e il sangue,
Contro il cuscino si inarca il soldato, che torce il collo e volta la faccia dall’altro lato.
Ha gli occhi serrati, pallido il volto, e non osa guardare il suo moncherino.
Non l’ha ancora guardato.
Fascio una ferita nel fianco, molto profonda,
Ancora un giorno o due, giravate infatti come il corpo cede, non sa più reagire.
Osservate la tinta del volto, giallo-blu.
Bendo la spalla perforata, il piede trapassato da un colpo di fucile.
Pulisco quello roso da una putrida cancrena, che stomaca tanto ripugna,
Mentre l’infermiere mi segue, reggendo il vassoio e il secchio.
Sono costante, non cedo.
La coscia, il ginocchio spezzato, la ferita al ventre,
Queste e ben altro lo bendo con una mano impassibile (ma profondo nel petto un fuoco, una fiamma brucia).
Cosi in silenzio, in visioni di sogno,
Ritorno, rivivo, riprendo il mio giro per gli ospedali,
Con mano suasiva placo il ferito, l’offeso,
Trascorro la lunga notte nera presso gli insonni, alcuni sono tanto giovani,
Altri soffrono tanto, rivivo quel tempo di tanta dolcezza e mestizia,
(Il braccio affettuoso di più di un soldato sì è appoggiato, si è appeso a questo mio collo,
Il bacio di più di un soldato è rimasto impresso su queste mie labbra barbute.)”
Walt Whitman, da “Foglie d’erba”
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Giovanni Segantini, “Ave Maria a trasbordo”, 1886
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I pastori
“Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natia
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquio, calpestio, dolci romori.
Ah perché non son io cò miei pastori?”
Gabriele D’Annunzio, “I pastori”
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Il Poeta Pescatore
“Invecchiando percepisco
che la vita ha la coda in bocca
e gli altri poeti gli altri pittori
non significano più alcun genere di competizione
È il cielo a lanciare la sfida
il cielo ha bisogno di decifrare
anche se gli astronomi si sforzano di sentirlo
con le loro enormi orecchie elettriche
il cielo che ci sussurra costantemente
gli ultimi segreti dell’universo
il cielo che respira dentro e fuori
come fosse l’interno di una bocca
del cosmo
il cielo che è anche la sponda della terra
e anche quella del mare
il cielo con le sue molte voci e nessun dio
il cielo che racchiude un mare di suoni
e di echi che ci rimanda
come in un’onda contro la parete del mare
Poesie intere dizionari interi
arrotolati in un rombo di tuono
E ogni tramonto un action painting
e ogni nuvola un libro di ombre
attraverso le quali volano selvagge
le vocali degli uccelli che stanno per gridare
E il cielo è chiaro per il pescatore
anche se è coperto
Lo vede per quello che è:
uno specchio del mare sul punto di crollare su di lui
sulla barca di legno al cupo orizzonte
Dobbiamo pensarlo come poeta per sempre faccia a faccia con la vecchia realtà
dove gli uccelli non volano mai prima della tempesta
E lui sa quello che verrà giù
prima dell’alba
e lui è la sua migliore vedetta
ascoltando il suono dell’universo
e cantando le sue visioni
della terra dei vivi”
Lawrence Ferlinghetti
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Paul Signac, “Concarneau, Opus 221 (adagio)”, 1891
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Marilyn
“Del mondo antico e del mondo futuro
era rimasta solo la bellezza, e tu,
povera sorellina minore,
quella che corre dietro ai fratelli più grandi,
e ride e piange con loro, per imitarli,
e si mette addosso le loro sciarpette,
tocca non vista i loro libri, i loro coltellini,
tu sorellina più piccola,
quella bellezza l’avevi addosso umilmente,
e la tua anima di figlia di piccola gente,
non hai mai saputo di averla,
perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.
Sparì, come un pulviscolo d’oro.
Il mondo te l’ha insegnata.
Così la tua bellezza divenne sua.
Dello stupido mondo antico
e del feroce mondo futuro
era rimasta una bellezza che non si vergognava
di alludere ai piccoli seni di sorellina,
al piccolo ventre così facilmente nudo.
E per questo era bellezza, la stessa
che hanno le dolci mendicanti di colore,
le zingare, le figlie dei commercianti
vincitrici ai concorsi a Miami o a Roma
Sparì, come una colombella d’oro.
Il mondo te l’ha insegnata,
e così la tua bellezza non fu più bellezza.
Ma tu continuavi ad esser bambina,
sciocca come l’antichità, crudele come il futuro,
e fra te e la tua bellezza posseduta dal potere
si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente
te la portavi sempre dietro come un sorriso tra le lacrime
impudica per passività, indecente per obbedienza.
Sparì come una bianca ombra d’oro.
La tua bellezza sopravvissuta del mondo antico,
richiesta dal mondo futuro, posseduta
dal mondo presente, divenne così un male.
Ora i fratelli maggiori finalmente si voltano,
smettono per un momento i loro maledetti giochi,
escono dalla loro inesorabile distrazione,
e si chiedono: “È possibile che Marilyn,
la piccola Marilyn ci abbia indicato la strada?”
Ora sei tu, la prima, tu la sorella più piccola, quella
che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,
sei tu la prima oltre le porte del mondo
abbandonato al suo destino di morte”
Pier Paolo Pasolini
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Pablo Picasso, “I due saltimbanchi”, 1901
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Il saltimbanco
Aldo Palazzeschi, “Il saltimbanco”, da “Poemi”, 1909
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Il tredicesimo invitato
“Grazie – ma qui che aspetto?
Io qui non mi trovo. Io fra voi
sto come il tredicesimo invitato,
per cui viene aggiunto un panchetto
e mangia nel piatto scompagnato.
e fra tutti che parlano – lui ascolta.
Fra tante risa – cerca di sorridere.
Inetto, benché arda,
a sostenere quel peso di splendori,
si sente grato se qualcuno casualmente
lo guarda. Quando in cuore
si smarrisce atterrito «Sto per piangere!»
e all’improvviso capisce
che siede un’ombra al suo posto:
che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori.”
Fernanda Romagnoli, “Il tredicesimo invitato”
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Immagine sulla parete di un antico tempio
“Da mille… duemila.. forse tre ,quattromila anni.
Il flautista cieco sta sempre a mostrar se stesso sulla parete…
Qui e ci sorride spesso…
Col cuore guarda lontano e dalle dita leggere,
Dalle labbra genera la melodia d’un canto.
Mi chiedo A noi sorride o ci deride?
E la sua melodia… è un allegro canto
O è invece lutto e pianto?
Allora mi chiedo: se il suonatore cieco…
È come noi, cieco.”
Sayed Hegab, poeta egiziano
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Maggie, Milly, Molly e May
“Maggie e milly e molly e may
scesero alla spiaggia (a giocare un giorno)
e maggie trovò una conchiglia che cantava
così dolcemente che dimenticò i suoi guai;
e milly divenne amica di una stella arenata
i cui raggi erano cinque languide dita;
e molly fu inseguita da una cosa folle
che correva obliqua soffiando bolle;
e may tornò a casa con un ciottolo liscio e rotondo
grande come la solitudine e piccolo come un mondo.
Per tutto quello che perdiamo (come un tu o un me)
è sempre noi stessi che troviamo nel mare.”
Edward Estlin Cummings, “Maggie, Milly, Molly e May”, da “95 poesie”, 1958
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Il guardiano di greggi
“Sono un guardiano di greggi.
Il gregge è i miei pensieri.
E i miei pensieri sono tutti sensazioni.
Penso con gli occhi e con gli orecchi
e con le mani e i piedi
e con il naso e la bocca.
Pensare un fiore è vederlo e odorarlo
e mangiare un frutto è saperne il senso.
Perciò quando in un giorno di calura
sento la tristezza di goderlo tanto,
e mi corico tra l’erba
chiudendo gli occhi accaldati,
sento tutto il mio corpo immerso nella realtà,
so la verità e sono felice.”
Fernando Pessoa, “Sono un guardiano di greggi”
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Aleksej Georgievič von Javlenskij, “Il gobbo”, 1911
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Il gobbo
“Dalla solita sponda del mattino
io mi guadagno palmo a palmo il giorno:
il giorno dalle acque così grigie,
dall’espressione assente.
Il giorno io lo guadagno con fatica
tra le due sponde che non si risolvono,
insoluta io stessa per la vita
… e nessuno m’aiuta.
Mi viene a volte un gobbo sfaccendato,
un simbolo presago d’allegrezza
che ha il dono di una stana profezia.
E perché vada incontro alla promessa
lui mi traghetta sulle proprie spalle.”
Alda Merini, “Il gobbo”
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Pescatori
“La grande pesca:
Al sorgere del sole, gloriosa alba
è un grosso problema!
Una grande pesca di sardine!
Sulla spiaggia, è come una festa
ma nel mare, terranno
funerali
per le decine di migliaia di morti.”
Kaneko Misuzu (1903-1930), poetessa giapponese
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Illustrazione di Beata Puskarczyk (artista polacca)
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Henri Matisse, “Lezione di piano”, 1916
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Foto di Sonia Simbolo
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In evidenza: Foto di Sonia Simbolo