Riflessioni

Giorgio Marincola, “il partigiano nero”

17.01.2022

Giorgio Marincola. Medaglia d’Oro al Valore Militare, conferitagli il 4 maggio 1945 da Alcide De Gasperi.
Oggi diventato celebre (o quasi) perché il 4 agosto, dopo le inevitabili polemiche, la giunta capitolina ha deciso di intitolargli la fermata della metro C di Via dell’Amba Aradam.
Tra tanti simboli del fascio a cielo aperto ed altrettanti “in pectore”, questa è davvero una boccata di ossigeno.
Peccato che, al di là della notizia, la figura e la personalità di Giorgio ne escano con i contorni sfocati di un fantasma. Sarà forse perché la sua storia, insieme a quella di tante altre vittime del nazifascismo, è rimasta “provvisoriamente  archiviata” per 45 anni in un armadio della Procura militare di Roma e fortunosamente ritrovata, nel 1994, dal procuratore Antonio Intelisano, impegnato a cercare la documentazione necessaria per chiedere all’Argentina l’estradizione di Erich Priebke.

La storia di Giorgio, il “partigiano nero“, comincia nel 1923 in Somalia, a Mehaddei Uen, un presidio militare italiano a pochi chilometri di distanza da Mogadiscio. Lui e la sorella Isabella sono figli del cosiddetto “madamato”, che fin dagli esordi del colonialismo italiano, incoraggiava i soldati ad intrattenere “relazioni more uxorio (leggi “stupri”) con le donne (leggi “bambine”) dei paesi colonizzati”. Abolito da un regio decreto del 1937, il madamato sarà recisamente condannato dal fascismo in nome “dell’integrità della razza”.
Stranamente, tutto questo sembra ignorato dai biografi di Giorgio. Qualcuno si azzarda a parlare di “meticciato”, come se la sostanza potesse migliorare…Ma, si sa, “le parole sono pietre”, scriveva Carlo Levi.

A Giorgio e a Isabella, però, non tocca la stessa sorte di tanti altri “figli del colonialismo”: il padre Giuseppe, un ufficiale di fanteria, li riconoscerà entrambi, perché “abbandonare i figli non è certo la lezione che vogliamo  impartire ai somali”. Anzi, quando sua moglie, Aschiro Hassan, rimane incinta di Isabella, Giuseppe manda Giorgio in Italia, nella sua Pizzo Calabro, affidandolo al fratello Carmelo “affinché possa crescere sano e ricevere l’educazione che merita“, come lui stesso scrive in una lettera. Giorgio raggiungerà suo padre solo quando quest’ultimo tornerà in Italia portando con sé Isabella.

È una nuova famiglia quella che vive a Roma, nel quartiere popolare di Casal Bertone, dove Giuseppe è andato ad abitare dopo il matrimonio con Elvira Floris, la sorella di un compagno d’armi, dalla quale avrà altri due figli. Ma certo questa non assomiglia molto alla bella-famigliola-felice delle favole.
Giorgio vive un’altra forma di sradicamento: prima da sua madre e dalla sua terra, ora dalla sua famiglia adottiva, dalla quale si era sentito accolto e amato.  Elvira non riuscirà mai ad accettare quei due “figli della colpa”, che, quindi, crescono subendo una doppia forma  di discriminazione, a casa e a scuola. E soprattutto per Isabella la situazione è dolorosamente paradossale: piccola com’è, non ricorda più il volto della sua vera madre. Per anni la identificherà con Elvira, soffrendo per il rifiuto da parte di quest’ultima. Per anni le faranno credere che la sua pelle “fosse più scura per via del sole di Mogadiscio“. E alla fine, quando riceverà la notizia della morte di suo fratello,  se ne andrà da quella casa in cui si è sempre sentita di troppo.

Giorgio incontra l’antifascismo grazie al suo insegnante di Storia e Filosofia, Pilo Albertelli, amatissimo dai suoi studenti che ha educato ai valori della democrazia, ma proprio per questo già da tempo nel mirino della polizia. Lo perderà nel ’44, il suo “maestro”, alle Fosse Ardeatine, quando anche la sua voce di libertà verrà falciata da una raffica di mitra.
Giorgio però ne raccoglie l’eredità spirituale, la custodisce nella mente e nel cuore, l’affida a pagine e pagine di appunti, di pensieri, di riflessioni che conserva gelosamente a casa sua. L’insegnamento del suo maestro diventa passione politica, che lo spinge ad iscriversi al Partito d’Azione, di cui Albertelli era stato uno dei fondatori.  Entra nella Resistenza quando è ancora uno studente di medicina.

Aggiorna quindici giorni dopo la liberazione di Roma (il 4 giugno 1944), complici alcuni compagni di partito,  si arruola tra gli agenti segreti dell’OAS (“Special Operations Executive“), voluti da Churchill per agire nelle retrovie nemiche collaborando con la Resistenza e mettendo a segno operazioni di disturbo contro i nazifascisti.
In realtà il suo reclutamento è tutt’altro che scontato: “Il ragazzo è di indubbia integrità, – si legge nella relazione dell’ufficiale che lo interroga – ma a causa del suo aspetto sarebbe molto riconoscibile al Nord“.
L’addestramento sarà durissimo, un vero e proprio corso di sopravvivenza.
Ma Giorgio ce la fa e diventa “Mercurio“: questo il suo nome di battaglia, mentre quella di “Renato Marino” sarebbe stata la sua nuova identità se mai fosse caduto in mani nemiche.
Diventa così uno degli agenti impiegati nell'”Operazione Bamon“. Paracadutati nel biellese, stabiliscono il loro quartier generale nel castello di Mongivetto. Il loro incarico iniziale è quello di effettuare operazioni di addestramento al sabotaggio e all’uso delle mine contro le autocolonne tedesche e le linee ferroviarie. Sono “operazioni nelle quali Mercurio è maestro, con viva soddisfazione dei partigiani” della Brigata GL (“Giustizia e Libertà“) Cattaneo, con la quale gli inglesi collaborano.
Il 15 settembre del ’44, la Bamon attacca una colonna di autoblindo tedeschi sulla strada verso Ivrea.
Vedo Mercurio gettarsi, con grandissimo coraggio e sangue freddo, all’assalto del corazzato con bombe a mano; – scrive Eugenio Bonvicini, suo compagno di partito e di lotta – lo seguo con l’intero reparto di Gl, e riusciamo a distruggerlo. Gli altri mezzi tedeschi restano sorpresi e ripiegano. Ci siamo liberati dall’accerchiamento, ma Mercurio è ferito abbastanza seriamente ad una gamba, ed io lievemente ad un piede. Nessun danno maggiore: l’addestramento era
stato valido e Mercurio dimostra di aver ben meritato il grado di tenente.
Il 17 novembre, la “Bamon” si unisce alla “Cherokee“, composta quasi esclusivamente da militari britannici e il “mulatto“, come Giorgio viene spesso chiamato,  contribuisce a mantenere i contatti con il Clnai.

Viene arrestato a Zimone il 17 gennaio del 1945, durante un rastrellamento, e portato a  Villa Schneider, dove la polizia militare tedesca, collegata alle SS di Torino, aveva impiantato la sua sede. Qui, al piano superiore della villa, i nazisti, con la collaborazione di alcuni fascisti locali e di due sacerdoti, avevano installato una stazione radio, “Radio Baita“, per trasmettere messaggi di propaganda antipartigiana e  diffondere false notizie, confezionate appositamente  per creare un clima di sospetto che, alle lunghe, avrebbe destabilizzato la Resistenza. E una delle strategie più insidiose usate dalle SS consisteva nel costringere i partigiani arrestati a parlare.
La regia era sempre la stessa: “Ecco al microfono un partigiano, invitato a dire cose e fatti che corrispondono al vero“.
Mi trovo con i partigiani al solo scopo di non lavorare per i tedeschi e non fare il soldato.”
I comandanti sono i primi a tagliare la corda e lasciano i partigiani con qualche povero fesso di vice-comandante che anche lui alla prima occasione si dà alla fuga.
Molti giovani vengono con noi per poter portare la rivoltella e sparare, ciò che potrebbero avere anche andando militari, ma con questi si dovrebbe sparare sul serio.
Villa Schneider non è la villa delle torture come ci hanno fatto credere. Questo è falso. Mi hanno dato da mangiare, da bere, da fumare, mi hanno 
trattato non come un partigiano, ma come un camerata. Amici, non esitate a presentarvi per il vostro bene e per l’onore della nostra Patria“.

In questo modo, nazisti e fascisti ottenevano il loro scopo: mettere in ridicolo le strutture organizzative del movimento, disinnescandone la portata d’urto.

Giorgio fece la stessa fine di molto altri, anche lui costretto a parlare a Radio Baita. “La radio fascista annuncia un’intervista di Mercurio-Giorgio, il nostro tenente Marincola. – Racconterà Bonvicini –  Mercurio dà le generalità, alterandole come convenuto, perché sapessimo che non avevano trovato i documenti avuti dal Clnai“.
A noi, a noi tutti pensasti. – Ricorderà Federico Bora nel suo articolo di commemorazione. – E soprattutto  il falso nome che declinasti alla radio lo volesti ripetere più volte“. Quella “triste sera di gennaio, la sua voce limpida, non emozionata, serena come la sua anima, parlò ai biellesi, parlò soprattutto ai nostri cuori tristi, disinvolta, sicura. E le sue frasi non saranno dimenticate. Il suo spirito stupì tutti, la sua parola franca e mordace ci fece sorridere fra le lagrime che non sapemmo trattenere […] Gli tesero mille tranelli, li eluse, non parlò, non denunciò nulla, nessuno; li giocò tutti, tedeschi e fascisti… riuscì a farsi passare per una staffetta, una occasionale staffetta dei partigiani“.
Quando gli chiedono – racconterà ancora Bonvicini – perché lui, un italo-somalo, combatta con gli inglesi, Giorgio, intelligentissimo, risponde pronto con
voce ferma e calma: ‘Sento la patria come una cultura e un sentimento di libertà, non come un colore qualsiasi sulla carta geografica… La patria non è identificabile con dittature simili a quella fascista. Patria significa libertà e giustizia per i Popoli del Mondo. Per questo combatto gli oppressori’. La trasmissione viene interrotta, con un atroce rumore di percosse. Poi  il silenzio.

Portato a Torino e forse anche nel carcere milanese di San Vittore, all’inizio di marzo Giorgio finisce nel campo di concentramento di Bolzano.
Viene liberato il 30 aprile del ’45, ma invece di rifugiarsi in Svizzera con una macchina della Croce Rossa,  preferisce continuare a combattere unendosi  ad una banda partigiana della Val di Fiemme, dove erano in molti ad aspettarsi le inevitabili rappresaglie da parte dell’esercito tedesco  in ritirata.
Infatti il 4 maggio un’autocolonna di SS,  dopo un violento scontro a fuoco, attacca il villaggio di Stramentizzo.

Giorgio muore qui, nell’ultima, terribile strage nazista.

Maddalena Vaiani

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