“La popolazione per undici mesi all’anno amava la città che guai toccargliela: i grattacieli, i distributori di sigarette, i cinema a schermo panoramico, tutti motivi indiscutibili di continua attrattiva. L’unico abitante cui non si poteva attribuire questo sentimento con certezza era Marcovaldo; ma quel che pensava lui – primo – era difficile saperlo data la scarsa sua comunicativa, e – secondo – contava così poco che comunque era lo stesso.
A un certo punto dell’anno, cominciava il mese d’agosto. Ed ecco: s’assisteva a un cambiamento di sentimenti generale. Alla città non voleva bene più nessuno: gli stessi grattacieli e sottopassaggi pedonali e autoparcheggi fino a ieri tanto amati erano diventati antipatici e irritanti. La popolazione non desiderava altro che andarsene al più presto: e così a furia di riempire treni e ingorgare autostrade, al 15 del mese se ne erano andati proprio tutti. Tranne uno. Marcovaldo era l’unico abitante a non lasciare la città.
Uscì a camminare per il centro, la mattina. S’aprivano larghe e interminabili le vie, vuote di macchine e deserte; le facciate delle case, dalla siepe grigia delle saracinesche abbassate alle infinite stecche delle persiane, erano chiuse come spalti. Per tutto l’anno Marcovaldo aveva sognato di poter usare le strade come strade, cioè camminandoci nel mezzo: ora poteva farlo, e poteva anche passare i semafori col rosso, e attraversare in diagonale, e fermarsi nel centro delle piazze. Ma capì che il piacere non era tanto il fare queste cose insolite, quanto il vedere tutto in un altro modo: le vie come fondovalli, o letti di fiumi in secca, le case come blocchi di montagne scoscese, o pareti di scogliera.
Certo, la mancanza di qualcosa saltava agli occhi: ma non della fila di macchine parcheggiate, o dell’ingorgo ai crocevia, o del flusso di folla sulla porta del grande magazzino, o dell’isolotto di gente ferma in attesa del tram; ciò che mancava per colmare gli spazi vuoti e incurvare le superfici squadrate, era magari un’alluvione per lo scoppio delle condutture dell’acqua, o un’invasione di radici degli alberi del viale che spaccassero la pavimentazione. Lo sguardo di Marcovaldo scrutava intorno cercando l’affiorare d’una città diversa, una città di cortecce e squame e grumi e nervature sotto la città di vernice e catrame e vetro e intonaco. Ed ecco che il caseggiato davanti al quale passava tutti i giorni gli si rivelava essere in realtà una pietraia di grigia arenaria porosa; la staccionata d’un cantiere era d’assi di pino ancora fresco con nodi che parevano gemme; sull’insegna del grande negozio di tessuti riposava una schiera di farfalline di tarme, addormentate.
Si sarebbe detto che, appena disertata dagli uomini, la città fosse caduta in balia d’abitatori fino a ieri nascosti, che ora prendevano il sopravvento: la passeggiata di Marcovaldo seguiva per un poco l’itinerario d’una fila di formiche, poi si lasciava sviare dal volo d’uno scarabeo smarrito, poi indugiava accompagnando il sinuoso incedere d’un lombrico. Non erano solo gli animali a invadere il campo: Marcovaldo scopriva che alle edicole dei giornali, sul lato nord, si forma un sottile strato di muffa, che gli alberelli in vaso davanti ai ristoranti si sforzano di spingere le loro foglie fuori dalla cornice d’ombra del marciapiede. Ma esisteva ancora la città? Quell’agglomerato di materie sintetiche che rinserrava le giornate di Marcovaldo, ora si rivelava un mosaico di pietre disparate, ognuna ben distinta dalle altre alla vista e al contatto, per durezza e calore e consistenza.
Così, dimenticando la funzione dei marciapiedi e delle strisce bianche, Marcovaldo percorreva le vie con zig-zag da farfalla, quand’ecco che il radiatore d’una «spider» lanciata a cento all’ora gli arrivò a un millimetro da un’anca. Metà per lo spavento, metà per lo spostamento d’aria, Marcovaldo balzò su e ricadde tramortito.
La macchina, con un gran gnaulìo, frenò girando quasi su se stessa. Ne saltò fuori un gruppo di giovanotti scamiciati. «Qui mi prendono a botte, – pensò Marcovaldo, – perché camminavo in mezzo alla via!»
I giovanotti erano armati di strani arnesi. – Finalmente l’abbiamo trovato! Finalmente! – dicevano, circondando Marcovaldo. – Ecco dunque, – disse uno di loro reggendo un bastoncino color d’argento vicino alla bocca, – l’unico abitante rimasto in città il giorno di ferragosto. Mi scusi, signore, vuoi dire le sue impressioni ai telespettatori? – e gli cacciò il bastoncino argentato sotto il naso.
Era scoppiato un bagliore accecante, faceva caldo come in un forno, e Marcovaldo stava per svenire. Gli avevano puntato contro riflettori, «telecamere», microfoni. Balbettò qualcosa: a ogni tre sillabe che lui diceva, sopravveniva quel giovanotto, torcendo il microfono verso di sé: – Ah, dunque, lei vuoi dire… – e attaccava a parlare per dieci minuti.
Insomma, gli fecero l’intervista.
E adesso, posso andare?
Ma sì, certo, la ringraziamo moltissimo… Anzi, se lei non avesse altro da fare… e avesse voglia di guadagnare qualche biglietto da mille… non le dispiacerebbe restare qui a darci una mano?
Tutta la piazza era sottosopra: furgoni, carri attrezzi, macchine da presa col carrello, accumulatori, impianti di lampade, squadre di uomini in tuta che ciondolavano da una parte all’altra tutti sudati.
– Eccola, è arrivata! è arrivata! – Da una fuoriserie scoperta, scese una stella del cinema.
Sotto, ragazzi, possiamo cominciare la ripresa della fontana!
Il regista del «teleservizio» Follie di Ferragosto cominciò a dar ordini per riprendere il tuffo della famosa diva nella principale fontana cittadina.
Al manovale Marcovaldo avevano dato da spostare per la piazza un padellone di riflettore dal pesante piedestallo.
La gran piazza ora ronzava di macchinari e sfrigolii di lampade, risuonava di colpi di martello sulle improvvisate impalcature metalliche e d’ordini urlati… Agli occhi di Marcovaldo, accecato e stordito, la città di tutti i giorni aveva ripreso il posto di quell’altra intravista solo per un momento, o forse solamente sognata.”
Italo Calvino, da “Marcovaldo ovvero Le stagioni in città”
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Foto di Sonia Simbolo