Epistolario

Tre lettere di Giacomo Leopardi

22.01.2022

La lettera non è datata, ma dovrebbe essere stata scritta nell’estate del 1819, quando Giacomo Leopardi aveva progettato di fuggire da Recanati.
Due circostanze lo avevano indotto a questa decisione: la “noia” per l’ambiente angusto in cui viveva e che aveva definito “centro dell’inciviltà e dell’ignoranza europea”, e il suo incontro con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina del padre, della quale si era innamorato. Il suo primo, sfortunato amore.
Così Giacomo cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, grazie all’aiuto di un amico di famiglia, il conte Saverio Broglio d’Ajano.
Il padre Monaldo, però, scoprì il suo tentativo di fuga, che quindi andò a monte.

Recanati

Mio caro,

Parto di qua senz’avertene detto niente, prima perché tu non sia responsabile della mia partenza presso veruno; poi perchè il consiglio giova all’uomo irresoluto, ma al risoluto non può altro che nuocere: ed io sapeva che tu avresti disapprovata la mia risoluzione, e postomi in nuove angustie col cercare di distormene. Sono stanco della prudenza, che non ci poteva condurre se non a perdere la nostra gioventù, ch’è un bene che più non si racquista. Mi rivolgo all’ardire, e vedrò se da lui potrò cavare maggior vantaggio.
Tuttavia questa deliberazione non è repentina; benché fatta nel calore, ho lasciato passare molti giorni per maturarla; e non ho avuto mai motivo di pentirmene. Però la eseguisco. Era troppo evidente che se non volevamo durar sempre in questo stato che abborrivamo, ci conveniva prendere questo partito; e tutto il tempo ch’è scorso non è stato altro che mero indugio. Altro mezzo che questo non c’era: convenìa scegliere, e la scelta ben sapete che non poteva esser dubbiosa. Ora che la legge mi fa padrone di me stesso, non ho voluto più differire quello ch’era indispensabile secondo i nostri principii.
Due cagioni m’hanno determinato immediatamente, la noia orribile derivata dall’impossibilità dello studio, sola occupazione che mi potesse trattenere in questo paese; ed un altro motivo che non voglio esprimere, ma tu potrai facilmente indovinare. E questo secondo, che per le mie qualità sì mentali come fisiche, era capace di condurmi alle ultime disperazioni, e mi facea compiacere sovranamente nell’idea del suicidio, pensa tu se non dovea potermi portare ad abbandonarmi a occhi chiusi nelle mani della fortuna.
Sta bene, mio caro, e a riguardo mio sta lieto, ch’io fo quello che doveva fare da molto tempo, e che solo mi può condurre ad una vita se non contenta, almeno più riposata. Laonde se m’ami, ti devi rallegrare: e quando io non guadagnassi altro che d’esser pienamente infelice, sarei soddisfatto, perchè sai che la mediocrità non è per noi.
Porto con me le mie carte, ma potendo avvenire che fossero esaminate, non voglio compromettere me, e molto meno le persone che mi hanno scritto, col portarne qualcuna che sia sospetta. Ho separate tutte quelle di questo genere, sì mie, che altrui (cioè lettere scrittemi) e postele tutte insieme sul comò della nostra stanza. Ve ne sono anche di quelle che non ho voluto portare perché non mi servivano. Te le raccomando: abbine cura e difendile: sai che non ho cosa più preziosa che i parti della mia mente e del mio cuore, unico bene che la natura m’abbia concesso. Se verranno lettere del mio Giordani per me, aprile e rispondi, e salutalo per mio nome, e informalo della mia risoluzione.
Al Brighenti si debbono paoli 8 per la Cronica del Compagni, paoli 3 per le prose del Giordani, e baiocchi 16 di errore nella spedizione del danaro per l’Eusebio. In tutto 1 e 36. Produca che sia soddisfatto, e dimanda perdono a Paolina se i 3 paoli che mi diede pel Giordani, e i baiocchi 16, per l’uso detto di sopra, gli ho portati con me, sperando ch’ella non avrebbe negato quest’ultimo dono al suo fratello se glielo avesse chiesto.
Oh quanto avrei caro che il mio esempio servisse a illuminare i nostri genitori intorno a te ed agli altri nostri fratelli!
Certissimamente ho speranza che tu sarai meno infelice di me.
Addio, salutami Paolina e gli altri. Poco mi curo dell’opinione degli uomini, ma se ti si darà occasione, discolpami. Voglimi eternamente bene, che di me puoi esser sicuro sino alla morte mia. Quando mi trovi in luogo adattato a darti mie nuove, ti scriverò. Addio. Abbraccia questo sventurato. Non dubitare, non sarai tu così. Oh quanto meriti più di me! Che sono io? Un uomo proprio da nulla. Lo vedo e sento vivissimamente, e questo pure m’ha determinato a far quello che son per fare, affine di fuggire la considerazione di me stesso, che mi fa nausea. Finattantoché mi sono stimato, sono stato più cauto; ora che mi disprezzo, non trovo altro conforto che di gittarmi alla ventura, e cercar pericoli, come cosa di niun valore.
Consegna l’inclusa a mio padre. Domanda perdono a lui, domanda perdono a mia madre in mio nome. Fallo di cuore, che te ne prego, e così fo io collo spirito. Era meglio (umanamente parlando) per loro e per me, ch’io non fossi nato, o fossi morto assai prima d’ora. Così ha voluto la nostra disgrazia.

Addio, caro, addio

*****

Lettera al padre: anche questa da Recanati e priva di data, ma presumibilmente  inviata alla fine di luglio del  1819 (dopo il tentativo di fuga)

“Mio Signor Padre. Sebbene dopo aver saputo quello ch’io avrò fatto [il tentativo di fuga – Ndr.], questo foglio le possa parere indegno di esser letto, a ogni modo spero nella sua benignità che non vorrà ricusare  di sentire le prime e ultime voci di un figlio che l’ha sempre amata e l’ama, e si duole infinitamente di doverle dispiacere. Ella conosce me, e conosce la condotta ch’io ho tenuta fino ad ora, e forse, quando voglia spogliarsi d’ogni considerazione locale, vedrà che in tutta l’Italia, e sto per dire in tutta l’Europa, non si troverà altro giovane, che nella mia condizione, in età anche molto minore, forse anche con doni intellettuali competentemente inferiori ai miei, abbia usato la metà di quella prudenza, astinenza da ogni piacer giovanile, ubbidienza e sommissione ai suoi genitori, ch’ho usata io. Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio ch’Ella sa, e ch’io non debbo ripetere.
Ella non ignora che quanti hanno avuto notizia di me, ancor quelli che combinano perfettamente colle sue massime, hanno giudicato ch’io dovessi riuscir qualche cosa non affatto ordinaria, se mi fossero dati quei mezzi che nella presente costituzione del mondo, e in tutti gli altri tempi, sono stati indispensabili per fare riuscire un giovane che desse anche mediocri speranze di sé. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch’io vivessi tuttavia in questa città, e com’Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente.

Certamente non l’è ignoto che non solo in qualunque città alquanto viva, ma in questa medesima, non è quasi giovane di 17 anni che dai suoi genitori non sia preso di mira, affine di collocarlo in quel modo che più gli conviene: e taccio poi della libertà ch’essi « tutti » hanno in quell’età nella mia condizione, libertà di cui non era appena un terzo quella che mi s’accordava ai 21 anno. Ma lasciando questo, benché io avessi dato saggi di me, s’io non m’inganno, abbastanza rari e precoci, nondimeno solamente molto dopo l’età consueta, cominciai a manifestare il mio desiderio ch’Ella provvedesse al mio destino, e al bene della mia vita futura nel modo che le indicava la voce di tutti. Io vedeva parecchie famiglie di questa medesima città, molto, anzi senza paragone meno agiate della nostra, e sapeva poi d’infinite altre straniere, che per qualche leggero barlume d’ingegno veduto in qualche giovane loro individuo, non esitavano a far gravissimi sacrifici affine di collocarlo in maniera atta a farlo profittare de’ suoi talenti. Contuttoché si credesse da molti che il mio intelletto spargesse alquanto più che un barlume, Ella tuttavia mi giudicò indegno che un padre dovesse far sacrifizi per me, né le parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al suo piano di famiglia. Io vedeva i miei parenti scherzare cogl’impieghi che ottenevano dal sovrano, e sperando che avrebbero potuto impegnarsi con effetto anche per me, domandai che per lo meno mi si procacciasse qualche mezzo di vivere in maniera adattata alle mie circostanze, senza che perciò fossi a carico della mia famiglia. Fui accolto colle risa, ed Ella non credé che le sue relazioni, in somma le sue cure si dovessero neppur esse impiegare per uno stabilimento competente di questo suo figlio. Io sapeva bene che i progetti ch’Ella formava su di noi, e come per assicurare la felicità di una cosa ch’io non conosco, ma sento chiamar casa e famiglia, Ella esigeva da noi «due» il sacrifizio, non di roba né di cure, ma delle nostre inclinazioni, della gioventù, e di tutta la nostra vita. Il quale essendo io certo ch’Ella né da Carlo né da me avrebbe mai potuto ottenere, non mi restava nessuna considerazione a fare su questi progetti, e non potea prenderli per mia norma in verun modo.

Ella conosceva ancora la miserabilissima vita ch’io menava per le orribili malinconie, ed i tormenti di nuovo genere che mi procurava la mia strana immaginazione, e non poteva ignorare quello ch’era più ch’evidente, cioè che a questo, ed alla mia salute che ne soffriva visibilissimamente, e ne sofferse sino da quando mi si formò questa misera complessione, non v’era assolutamente altro rimedio che distrazioni potenti, e tutto quello che in Recanati non si poteva mai ritrovare. Contuttociò Ella lasciava per tanti anni un uomo del mio carattere, o a consumarsi affatto in istudi micidiali, o a seppellirsi nella più terribile noia, e per conseguenza, malinconia, derivata dalla necessaria solitudine, e dalla vita affatto disoccupata, come massimamente negli ultimi mesi. Non tardai molto ad avvedermi che qualunque possibile e immaginabile ragione era inutilissima a rimuoverla dal suo proposito, e che la fermezza straordinaria del suo carattere, coperta da una costantissima dissimulazione, e apparenza di cedere, era tale da non lasciar la minima ombra di speranza. Tutto questo, e le riflessioni fatte sulla natura degli uomini, mi persuasero, ch’io benché sprovveduto di tutto, non dovea confidare se non in me stesso.

Ed ora che la legge mi ha già fatto padrone di me, non ho voluto più tardare a incaricarmi della mia sorte. Io so che la felicità dell’uomo consiste nell’esser contento, e però più facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero. So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. E perché la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata dalla disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci così. Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi, tanto più che la noia, madre per me di mortifere malinconie, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo. I padri sogliono giudicare dei loro figli più favorevolmente degli altri, ma Ella per lo contrario ne giudica più sfavorevolmente d’ogni altra persona, e quindi non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande: forse anche non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli, e colle norme geometriche. Ma quanto a ciò molti sono d’altra opinione; quanto a noi, siccome il disperare di se stessi non può altro che nuocere, così non mi sono mai creduto fatto per vivere e morire come i miei antenati. Avendole reso quelle ragioni che ho saputo della mia risoluzione, resta ch’io le domandi perdono del disturbo che le vengo a recare con questa medesima e con quello ch’io porto meco.

Se la mia salute fosse stata meno incerta avrei voluto piuttosto andar mendicando di casa in casa che toccare una spilla del suo. Ma essendo così debole come io sono, e non potendo sperar più nulla da Lei, per l’espressioni ch’Ella si è lasciato a bella posta più volte uscire disinvoltamente di bocca in questo proposito, mi son veduto obbligato, per non espormi alla certezza di morire di disagio in mezzo al sentiero il secondo giorno, di portarmi nel modo che ho fatto. Me ne duole sovranamente, e questa è la sola cosa che mi turba nella mia deliberazione, pensando di far dispiacere a Lei, di cui conosco la somma bontà di cuore, e le premure datesi per farci viver soddisfatti nella nostra situazione. Alle quali io son grato sino all’estremo dell’anima, e mi pesa infinitamente di parere infetto di quel vizio che abborro quasi sopra tutti, cioè l’ingratitudine.

La sola differenza di principii, che non era in verun modo appianabile, e che dovea necessariamente condurmi o a morir qui di disperazione, o a questo passo ch’io fo, è stata cagione della mia disavventura. È piaciuto al cielo per nostro gastigo che i soli giovani di questa città che avessero pensieri alquanto più che Recanatesi, toccassero a Lei per esercizio di pazienza, e che il solo padre che riguardasse questi figli come una disgrazia, toccasse a noi. Quello che mi consola è il pensare che questa è l’ultima molestia ch’io le reco, e che serve a liberarla dal continuo fastidio della mia presenza [qui il poeta allude palesemente al primo tentativo di fuga da Recanati j, e dai tanti altri disturbi che la mia persona le ha recati, e molto più le recherebbe per l’avvenire.

Mio caro Signor Padre, se mi permette di chiamarla con questo nome, io m’inginocchio per pregarla di perdonare a questo infelice per natura e per circostanze. Vorrei che la mia infelicità fosse stata tutta mia, e nessuno avesse dovuto risentirsene, e così spero che sarà d’ora innanzi. Se la fortuna mi farà mai padrone di nulla, il mio primo pensiero sarà di rendere quello di cui ora la necessità mi costringe a servirmi. L’ultimo favore ch’io le domando, è che se mai le si desterà la ricordanza di questo figlio che l’ha sempre venerata ed amata, non la rigetti come odiosa, né la maledica; e se la sorte non ha voluto ch’Ella si possa lodare di lui, non ricusi di concedergli quella compassione che non si nega neanche ai malfattori”.

 

*****

Lettera a Pietro Brighenti, 21 aprile 1820
Rispondo che io come sarò sempre quello che mi piacerà, così voglio parere a tutti quello che sono; e di non esser costretto a fare altrimenti, sono sicuro per lo stesso motivo a un di presso, per cui Catone era sicuro in Utica della sua libertà. Ma io ho la fortuna di parere un coglione a tutti quelli che mi trattano giornalmente, e credono ch’io del mondo e degli uomini non conosca altro che i colori, e non sappia quello che fo, ma mi lasci condurre dalle persone ch’essi dicono, senza capire dove mi menano. Perciò stimano di dovermi illuminare e sorvegliare. E quanto alla illuminazione, li ringrazio cordialmente; quanto alla sorveglianza, li posso accertare che cavano acqua col crivello. (…)
Dai 10 ai 21 anno io mi sono ristretto meco stesso a meditare e scrivere e studiare i libri e le cose. Non solamente non ho mai chiesto un’ora di sollievo, ma gli stessi studi miei non ho domandato né ottenuto mai che avessero altro aiuto che la mia pazienza e il mio proprio travaglio. Il frutto delle mie fatiche è l’esser disprezzato in maniera straordinaria alla mia condizione, massimamente in un piccolo paese. Dopo che tutti mi hanno abbandonato, anche la salute ha preso piacere di seguirli. In 21 anno, avendo cominciato a pensare e soffrire da fanciullo, ho compito il corso delle disgrazie di una lunga vita, e sono moralmente vecchio, anzi decrepito, perché fino il sentimento e l’entusiasmo ch’era il compagno e l’alimento della mia vita, è dileguato per me in un modo che mi raccapriccia. È tempo di morire. È tempo di cedere alla fortuna; la più orrenda cosa che possa fare il giovane, ordinariamente pieno di belle speranze, ma il solo piacere che rimanga a chi dopo lunghi sforzi, finalmente s’accorga d’esser nato colla sacra e indelebile maledizione del destino.

Nell’immagine: Un ambiente di casa Leopardi a Recanati

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