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La storia di Gaetano

28.01.2022

Con sforzo e con allegria forgiò il suo destino lontano dalla patria e oggi la sua storia è anche la nostra.” Così scrisse il quotidiano “El diario del Neuquén” nel gennaio 1987.

Parlava di mio zio Gaetano Russo, conosciuto anche come Don Cayetano. Viveva a Neuquén, grande città alle porte della Patagonia, destino vuole in una via chiamata Repubblica d’Italia. Qui, nel cuore del quartiere “Quattordici di settembre“, aveva aperto un chiosco che lo rese presto molto conosciuto. «I bambini lo amavano per i regali che faceva» spiega la figlia Filomena, che oggi vive nella sua casa di Repubblica d’Italia «e in occasione delle feste improvvisava spettacoli con i fuochi artificiali».

Gaetano era un “Tano”, soprannome che veniva dato agli italiani perché quando si chiedeva loro da dove venissero erano soliti rispondere «da lontano».
Nacque il 25 novembre del 1923 a Trebisacce, in provincia di Cosenza, «dove il mare e le montagne si incontrano». Trebisacce era conosciuta per la pesca e per le coltivazioni di mandarini, arance, ulivi e grano.

Dopo tre anni di scuola elementare, Gaetano iniziò a lavorare col padre: insieme al fratello Totonno guidava i carri a cavallo per vendere il pesce, attività che gli permise di conoscere la futura moglie Maria Violante. Esportava anche le famose sardicelle calabresi — e quelle arrivavano fino a Buenos Aires al ristorante Pedemonte.

Durante la Seconda guerra mondiale Gaetano si spostò nella marina a Genova. «Mi fecero prigioniero i tedeschi» spiega al giornale di Neuquén nel 1987 «scappai due volte, però mi rinchiusero di nuovo, così che l’ultima volta camminai per mesi prima di arrivare a Trebisacce. Avevo ventun anni, paura e ansia di arrivare». Fu il viaggio eterno in un paese distrutto dalla guerra che fece dormendo nei campi e scambiando utensili che incontrava durante il viaggio, soprattutto lamette, saponi e sigarette, in cambio di cibo. «Mi salvai per caso da un aereo da caccia che sparava colpi di mitragliatrice, ma tre compagni rimasero uccisi» racconta «Avevo così paura che mi proteggevo con una coperta come se avesse potuto fermare i proiettili».

I figli di Gaetano ricordano come parlava della fame, di cosa significava mangiare per mesi pane duro e acqua calda intinta con la suola delle scarpe perché il cuoio desse colore e gusto. «La guerra fu un trauma» racconta il figlio maggiore Pino «Papà diceva di aver visto cose brutte che lo perseguitavano in sogno. Raccontava la storia di un pilota americano che cascò in mare con l’aereo e lui dovette andare a prenderlo con la barca. Gli morì tra le braccia quando lo tirarono fuori dall’acqua».

Al ritorno a Trebisacce Gaetano aveva 23 anni e sposò Maria Violante, anche lei toccata dalla guerra, durante la quale dovette passare diverse notti nascosta nel fienile per non essere scoperta dagli eserciti. Uno zio da parte di lei, Vicente, era un alpino che dopo la guerra al fronte nel nord Italia si spostò in Argentina. La miseria, ma soprattutto il timore di una terza guerra mondiale spinsero prima Gaetano, poi Maria Violante con il figlio maggiore a raggiungerlo: era il 14 aprile del 1950. A Buenos Aires trovò lavoro nella fabbrica di cucine Volcan: «Lavoravo nove ore lì e poi altre quattro in una fabbrica di scope» racconta. Due anni dopo comprò un tabacchino. Iniziò vendendo centoventi giornali, terminò vendendone oltre cinquecento al giorno: “Sono virtù dei migranti la costanza e la forza di volontà, noi venivamo da un paese che ha sofferto molto la fame e questo ci dette un grande spirito di sacrificio.” Questo lavoro gli permise, nel 1957, di tornare in Italia, dove si fermò un anno ma senza trovare lavoro.

La moglie Maria era convinta che il futuro dei figli non fosse in Italia, fu una scelta difficile e ci volle un anno perché decidessero di tornare definitivamente in Argentina. «Fu una scelta sofferta da tutta la famiglia» spiega Domingo, figlio di Maria e Gaetano, «eravamo bambini e vivemmo il viaggio in Italia in maniera traumatica, ma poi in Italia ci trovammo bene perché per la prima volta vivevamo con una famiglia». Al ritorno in Argentina, ricorda Domingo, piangeva e non capiva il perché di tutti quegli spostamenti: «Dovetti ricominciare la scuola dal primo anno due o tre volte» afferma.

Furono molti i lavori che Gaetano fece per guadagnarsi da vivere: fabbricò frigoriferi anche se non sapeva nulla di elettrodomestica. «Avevo tanta voglia di imparare» racconta «imparai anche a costruire televisori». Alla fine si stabilì a Neuquén con la famiglia quando il figlio Pino cominciò a lavorare come medico e dovette farci la residenza. «Mi rendo conto oggi che il fatto che io abbia avuto la possibilità di diventare medico non fu un successo mio, ma lo devo tutto a mio padre», ammette.

La vita di Gaetano fu segnata dalla morte della madre quando aveva dieci anni e dal distacco dalla famiglia in Italia. Tutti i suoi ricordi, se non tutta la vita, sono condizionati da questi due avvenimenti. «Forse per questo aveva una voglia inarrestabile di unire la famiglia la domenica» afferma Filomena. Un desiderio di unire alle volte fin troppo forte, come ricordano ridendo i nipoti: «Se non ci presentavamo, lui si arrabbiava».

«Era una persona veramente buona» affermano i nipoti «Gli costava dirci “ti voglio bene” e cominciò a dircelo durante gli ultimi anni di vita, ma la verità è che ce lo dimostrava sempre: preparandoci da mangiare la pizza e gli strascinati, per esempio, o riunendo la famiglia».

Don Cayetano Russo morì il 16 agosto del 2015 all’età di 91 anni. Lasciò a Neuquén tre figli, sei nipoti e, oggi, otto pronipoti. «Cadde molte volte ma si rialzò» spiega Filomena. Gli ultimi anni di vita li trascorse pensando alla madre e all’Italia. “Si sedeva sulla sedia con lo schienale sulla pancia e, con la testa leggermente inclinata, guardava fuori dalla finestra ascoltando Andrea Bocelli.

Domingo, che nonostante sia nato in Argentina oggi afferma di sentirsi italiano, conclude: «Credo che a papà avrebbe fatto piacere trascorrere più tempo in Italia durante gli ultimi anni di vita. Quando tornammo nel 2000, si rammaricò di non esserci tornato per molto tempo. Si sentiva italiano ma aveva trascorso più tempo in Argentina. Capisco la sua sensazione di sentirsi “orfano di un’identità” e, in parte, credo di viverla anch’io oggi».

Luca De Marchi

Fonte: lenius.it

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