Le settimane scorse sono passato per la terra dei Magi, nei pressi delle rovine di Sava, e tre giorni dopo sono giunto al castello degli adoratori del fuoco, a Galasaca. Ho visitato il tempio. Vi era una fonte a cisterna che i sacerdoti chiamavano probatica piscina. Sul fondo splende una fiamma perenne che tinge l’acqua di rosso. Non so quale sia il trucco. La leggenda dice che un tempo gli angeli venissero qui a sguazzare e che da allora l’acqua abbia il potere di guarire e ringiovanire. Avrei voluto provare ma non è permesso.
Ho proseguito per Crema, dai turchi chiamata Kirman, famosa per i turchesi, i falconi, l’estrazione dell’acciaio. E poi, per una piana, fino a Camandi, mura di argilla. Sui monti crescono i pistacchi selvatici; i boschi sono battuti dai cinghiali, di notte si avvicinano al campo grufolando. Nei giardini ho visto datteri e frutti del paradiso. Comincia a far freddo, ho dovuto coprirmi. Sono riuscito a passare indenne per le terre di Reobar, flagellate dai Caraunas, predoni tatuati. Sono risalito fino alla contrada di Milice, dove secoli fa si nascondeva il Vecchio della Montagna, capo degli Assassini, fumatori di hashish.
A sera, passando tra due montagne di eguale grandezza a sud di Mazandaran, sono entrato in una stretta valle, quasi una gola. Poco dopo mi sono trovato davanti alle rovine della fortezza di Alamut, che anticamente aveva fama d’imprendibilità. Da lì il Vecchio partiva per le sue scorribande. Nella lingua locale il Vecchio è chiamato Aloodyn, non so cosa voglia dire, non sono riuscito a farmelo spiegare.
Il giorno dopo sono arrivato a Balac, capitale dell’antico regno di Battriana, dove Alessandro prese in moglie Rossane, figlia del satrapo locale. Ben poco da vedere. Spingendomi avanti sono passato per le montagne del sale, e per la città di Balascam, famosa per il lapislazzuli. Procedendo verso tramontana e superato un deserto, sono arrivato a Karakorum, antica capitale mongola. Un tempo vi erano templi magnifici e idoli altissimi rivestiti d’oro: il loro luccichio si scorgeva, a quanto dicono, a due giornate di distanza. Ne restano in piedi pochi, senza più l’oro.
Mi sono seduto su un masso, davanti alle rovine, accanto a due monaci. Tenevano in mano una stringa con due o trecento grani, una specie di rosario. Ogni poco mormoravano: «On man baccam», che significa “Dio, tu lo sai”. Mi è stato spiegato che si aspettano una ricompensa da Dio per ogni volta che lo ricordano.
Ero accompagnato da un interprete.
«Chi sono i vostri dei?» ho domandato attraverso di lui, dopo essermi presentato e aver chiesto il permesso di interrogarli.
«Crediamo in un unico Dio» ha risposto uno dei due.
«E credete che questo Dio sia spirito o materia?».
«Spirito».
«Ha mai avuto natura umana?».
«Mai».
«Allora perché questi idoli? Perché lo raffigurate in forma umana?».
«Questi idoli non raffigurano il nostro Dio» mi ha risposto. «Raffigurano i nostri morti».
«Dunque queste statue sono fatte per compiacere gli uomini».
«No» ha risposto lui. «Per ricordarli». Poi ha aggiunto: «E il tuo Dio? Dove si trova? Non lo vedo».
«E dov’è la vostra anima?» ho ribattuto.
«Nel corpo» ha risposto.
«Eppure non si vede» ho detto. «Così è per Dio: è ovunque, anche se non si vede».
Ma non era convinto.
Avrei voluto continuare, ma l’interprete sembrava nervoso; mi ha fatto capire che era meglio andare.
«È qui che è nato Cinghis khan» mi ha detto più tardi, nella tenda, davanti a una minestra di montone. «Da qui partì l’espansione del suo impero. Il momento cruciale fu lo scontro con il Prete Gianni».
«Parlami del Prete Gianni» ho detto.
«All’inizio i mongoli abitavano più a nord, in Ciorcia. All’epoca erano tributari del Prete Gianni, signore del Cherai e di molte altre terre»…
Mio dio, quante zanzare! Dov’è il repellente?
Scusa, ora ho da fare.
Ti abbraccio.