“Della rimessa non c’era rimasto quasi nulla. Il tetto era crollato come pure le due pareti: quella di dietro e la parete sinistra. Miracolosamente erano in parte scampate alla devastazione quella destra e la parete davanti, quella dov’era l’entrata. Rimanevano in quella devastazione annerite e consumate, fragili e precarie che un refolo di vento avrebbe potuto buttare giù in un solo momento, perché niente restasse, se non solo cenere, a testimoniare che là c’era stato qualcosa di importante per quella piccola comunità. Sulle pareti annerite, ingialliti, accartocciati, ma ancora appesi, c’erano alcuni disegni. Un albero, grande, maestoso, con i rami protesi al cielo come fossero mani. Anna, c’era scritto sotto con lettere ancora claudicanti e asimmetriche. Una casa sbilenca con porte enormi ed enormi finestre sotto un sole che rideva sornione facendo capolino tra due nuvole, Gennaro, c’era scritto con la stessa grafia ancora incerta che c’era sull’altro.
I ragazzi tenevano tanto a quella scuola e l’amavano perché avevano capito che solo così potevano riscattare se stessi dal giogo sotto cui per millenni avevano tenuto i loro antenati. Un uomo ignorante è più facile da assoggettare, è più fragile, più vulnerabile. E quei ragazzi e ragazze che la sera prima s’erano mobilitati per salvare quella rimessa, avevano scelto di non essere più vulnerabili. L’aveva letto nei loro sguardi angosciati sì, ma fieri, di poter far qualcosa finalmente per loro stessi. E aveva visto nelle loro espressioni il dolore e la rabbia per non essere riusciti a salvare la loro scuola e tutti i quaderni e disegni dalla furia incontenibile del fuoco che s’era mangiato ogni cosa. Carlo camminava tra le rovine, la pioggia provvidenziale di quella notte aveva reso il pavimento di terra battuta un mare di fanghiglia nera. Dei banchi che aveva fatto Giulio non vi era più alcuna traccia. Tutto bruciato, tutto in fumo. Che peccato! Tanto lavoro e tempo sprecato! Per ricostruirla ci sarebbe voluto tutto l’inverno, tenendo presente che d’ora in poi le giornate sarebbero state davvero impietose. A dispetto di tutto e di tutti però, i ragazzi non avrebbero perso un solo giorno di scuola: Giulio e Serena per il momento, avrebbero tenuto le lezioni in sala da pranzo, l’enorme tavolo sarebbe stato perfetto. Chissà se quei ragazzi, anzi, se tutta quella porzione d’umanità radunata in quella tenuta, e sparsa in quel piccolo borgo avrebbe compreso appieno quale grande fortuna fosse per loro vivere quel momento preciso. Un momento in cui la storia stessa chiama ognuno ad esserne protagonista, non semplice spettatore. Stava riattraversando il perimetro della rimessa per andarsene, quando qualcosa di famigliare attrasse la sua attenzione. Qualcosa che il fuoco aveva risparmiato. Si avvicinò e annuendo si chinò a raccoglierla. Quando rimontò sul calesse aveva un sorriso stranissimo. A vederlo avresti detto fosse quasi felice, e anche a sentirlo: canticchiava in sordina un’arietta bizzarra. Andando su in paese a ritmo sostenuto ogni tanto si toccava la tasca rigonfia della sua redingote e sorrideva sornione. A vederlo avresti giurato che tra le rovine della rimessa avesse trovato un tesoro.”
Grazia Mazzeo, da “Come una tempesta”, 2015
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Nella foto, un’aula della Scuola per la Pace del villaggio di “Neve Shalom Wahat al Salam” (Oasi di pace), distrutta dal fuoco il 31 agosto del 2020