Pensieri

Un nemico invisibile, un pensiero possibile

22.05.2020

L’emergenza covid-19 ha obbligato il corpo a fermarsi. Perché non provare anche con la mente? Fermiamoci, proviamo ad esercitare la pazienza e ad ascoltare.

di Fiore Bello

 

Un nemico invisibile stravolge la vita di tutti gli esseri umani del pianeta, tiene in “… ostaggio la nostra libertà e ci costringe a fare il vuoto attorno a noi perché siamo noi i veicoli del virus’ (Mauro E., La Repubblica.it, 4 marzo, 2020). Non solo siamo in pericolo, ma siamo noi stessi il pericolo. Nessuna catastrofe precedente a quella del virus COVID-19 è stata così globale e trasversale, paradossalmente, neanche le guerre mondiali. All’inizio del contagio, in Europa pensavamo che fosse un problema transitorio e localizzato in Cina; un mese dopo, in Europa pensavano che fosse un problema italiano. Dopo due mesi, è diventato un problema sanitario, sociale ed economico globale che mette a dura prova una sanità pubblica ormai agonizzante, mietendo inesorabilmente molte vite umane, stravolgendo la vita sociale e imponendo distanze di sicurezza –il cosiddetto distanziamento sociale- perché l’altro è diventato un pericolo, un untore da evitare.

Il COVID-19 – che si propaga per contatto diretto tra esseri umani – genera sgomento e morte, produce un ribaltamento totale dei principi che governano la dimensione intersoggettiva (i modi di stare con l’altro), riduce la libertà di movimento e ridimensiona la vita frenetica e lo spazio del fare. Ci costringe ad ‘uscire dentro, ad entrare fuori’ (Rizzo, 2014), ad abitare spazi fisici compressi e a vivere come reclusi in una casa ormai diventata una prigione, nell’attesa spasmodica che il suo potere di morte si neutralizzi. “Spazi nei quali, novelli cacciatori-raccoglitori post-moderni e globali, non siamo più capaci di abitare (da habere) – e quindi essere abitati in reciprocità – ma riusciamo soltanto a vivere. Spazi nei quali non siamo più capaci di stare e ri-trovarci ma nei quali solo possiamo permanere con scarsa autonomia rispetto a un perderci che ci impone di ricorrere tosto a riempitivi di vario genere per non sentirci senza pubblico, soli come un’unica incandescente scintilla nel buio dello spazio infinito” (Caroppo, 2020).

Queste costrizioni possono generare euforia, depressione e paura; quest’ultima può diventare uno stato di angoscia generalizzato, che è in grado sfociare in gesti e comportamenti irrazionali generati dalla sola spinta a risolverla. Ci sono anche persone che sminuiscono o negano la portata di questo evento, forse perché, come sostiene Semi, “… non c’è stata né la costruzione interiore dell’idea di morte né quella di sofferenza. Da qui comportamenti inadeguati – e pericolosi per il prossimo oltre che per sé”  (Semi, 13 marzo 2020). Prima ancora che il governo italiano emanasse il decreto legge per istituire la zona rossa (isolamento totale) della Lombardia, la sera dell’8 marzo, centinaia di persone, devastate dal panico ed incapaci di pensare in modo critico, hanno preso d’assalto i treni per scappare in altre regioni, contribuendo a diffondere il contagio altrove.

Di fronte a qualcosa di eccezionale ed inatteso, una delle prime reazioni psicologiche è la negazione e, da un punto di vista clinico, è plausibile ipotizzare la comparsa di sintomi sovrapponibili a quelli scatenati da un trauma psicologico. Il trauma psicologico viene differenziato dal trauma complesso che fa riferimento ad esperienze traumatiche cumulative (Liotti e Farina, 2011) e si riferisce ad una minaccia alla vita o all’incolumità propria o altrui, anche nella forma indiretta della trascuratezza subita durante l’infanzia e delle forme più gravi di misattunement (mancata sincronizzazione dell’interazione comunicativa).

Emozioni veementi, perdita di controllo e sensazione di impotenza rientrano pienamente nella definizione di trauma psicologico (Liotti e Farina, 2011). Come risposta al trauma, la persona attiva in modo automatico meccanismi arcaici di difesa dalle minacce ambientali e sperimenta distacco dalla consueta esperienza di sé e del mondo esterno. Quando queste difese -fuga o attacco- falliscono, si può verificare un effetto sull’integrità della coscienza. Da una parte si avvera una sospensione immediata delle normali funzioni riflessive e metacognitive e dall’altra l’evento traumatico non viene integrato nella memoria e si perde la continuità del flusso di coscienza e della costruzione dei significati. Gli effetti costituiscono quelli che sono stati definiti sintomi dissociativi di distacco , che “… rimandano tutti, direttamente, all’esperienza di sentirsi alienati dalle proprie emozioni, dal proprio corpo, dal senso usuale della propria stessa identità, dal senso usuale di familiarità di realtà ambientali note” (Liotti e Farina, op. cit., pag. 44).

Il fare incessante, competitivo e faticoso che da molto tempo scandisce la vita quotidiana di ognuno, oggi si volatilizza e il sovrainvestimento narcisistico sugli oggetti precipita drasticamente con conseguente disorientamento e con un angosciante senso di vuoto. Fino a ieri anche il tempo libero veniva messo in agenda e persino la vacanza poteva diventare un calendario intenso, con l’imperativo inconsapevole di divertirsi o di conoscere e di vedere il più possibile. Quel fare senza limiti (a lavoro, nella vita privata, nelle relazioni) che ci ha fatto sentire onnipotenti nell’era della distrazione a tutti i costi, oggi è aggredito da un nemico invisibile che può essere dovunque e portato da chiunque. Si riducono tutti gli spazi fisici e sociali, quelli immaginati e desiderati (le vacanze, il cinema, il teatro, etc.) e quelli privati (le case), mentre si dilatano a dismisura quelli virtuali. In realtà, gli spazi intimi acquistano un valore insolito perché abitati obbligatoriamente e contemporaneamente da più persone che possono andare incontro a desideri e vissuti anche di segno opposto, come ad esempio, la fusionalità, l’euforia, le fobie, la rabbia persecutoria, l’isolamento, l’evitamernto.

La reale possibilità di contagiare o di essere contagiati induce, potenzia e giustifica comportamenti di evitamento e rituali di tipo ossessivo – siamo diventati tutti fobici e washers (variante del Disturbo ossessivo compulsivo, caratterizzata dalla paura del contagio che comporta rituali di lavaggio finalizzati a neutralizzare la minaccia di contaminazione: ad esempio lavaggio ripetuto delle mani, degli abiti o di oggetti, Le persone che ne soffrono hanno una preoccupazione intensa ed eccessiva circa la possibilità che loro stesse o un familiare possa ammalarsi entrando in contatto con qualche germe o sostanza tossica). Questa possibilità inoltre fa saltare la cosiddetta “distanza personale” (45-120 cm). Nel mondo occidentale, quest’ultima rappresenta la distanza ideale per buona parte delle interazioni e coincide con lo spazio necessario per una stretta di mano. Di contro prevale la cosiddetta “distanza pubblica” (oltre i 3 metri) in cui è praticamente impossibile interagire singolarmente.

In questi giorni di quarantena siamo costretti a stare “troppo vicino e per troppo tempo” con il partner, i figli, i familiari, senza grosse alternative di fuga o di svago fuori dalle mura domestiche. Certo, i social, il telefono e persino i balconi e i terrazzi condominiali vengono in soccorso, illudendoci che “finirà presto e saremo ancora più forti di prima”. Ma basta tutto ciò per “evitare” depressione, paura ed angoscia? Il restringimento dello spazio sociale e la coabitazione forzata richiedono necessariamente una ridefinizione dei comportamenti quotidiani, delle relazioni e del concetto di intimità. Si rischia di sentirsi in gabbia ed è necessario imparare a conoscere meglio chi ci sta accanto: è vitale esplorare diversamente tutte le nostre relazioni. Anche chi non è in quarantena medica è obbligato, da giuste e sacrosante misure di contenimento del contagio, ad uscire dalle mura domestiche il meno possibile. Nelle case ognuno cerca un proprio sottospazio, una propria agibilità, per non sovrapporsi o scontrarsi con analoghi bisogni del suo o dei suoi compagni di sventura. Tuttavia, nonostante tutte le misure di cautela adottate per non sovrapporsi all’altro nel medesimo spazio, possono affiorare con prepotenza conflitti intrapsichici e relazionali “rimossi” e lo “scontro” rischia di diventare altamente probabile. Da giorni sui social circolano senza sosta vignette e video umoristici di persone che parlano o ballano da sole, o tentano di animare gli oggetti di casa, che si nascondono alla vista dei figli, che si chiamano al telefono per darsi appuntamento in corridoio o in sala. La prima risposta alle limitazioni imposte dal virus è stata di tipo “euforico” e rappresenta un inconsapevole desiderio di riprodurre virtualmente quello che non è più possibile nella realtà. (Quali saranno gli effetti dell’inevitabile e conseguente fase “depressiva”?). Ci si incontra, ancora più di prima, in quello spazio virtuale che già da tempo “… ha eclissato i vecchi [spazi] guadagnandosi nuova fiducia nel futuro ed ha escogitato una cura quasi gratuita e domiciliare. In questo spazio però è difficile poter trovare quell’accoglimento capace di produrre nuovi processi di pensiero realmente trasformativi” (Marinelli, 2019, pag. 18). L’umorismo, ritenuto in psicologia un meccanismo di difesa evoluto, è oggi ancor più presente sui social e di fatto “… permette una certa espressione di affetti o desideri che sono coinvolti in un conflitto o in un fattore di stress.  Ogni volta che un conflitto o tensioni esterne bloccano la piena espressione degli affetti o la soddisfazione di desideri, l’umorismo permette una certa espressione simbolica di essi e dell’origine del conflitto. La frustrazione dovuta al conflitto è temporaneamente mitigata, in modo tale che sia il soggetto sia gli altri possano sorridere o ridere‘ (Lingiardi, 1994, pag. 191).

A tale proposito, in un bellissimo articolo dal titolo Dopo la peste torneremo a essere umani, pubblicato sul quotidiano “La Repubblica”, David Grossman, afferma: “E sia benedetto l’umorismo, il miglior modo di affrontare tutto questo. Quando riusciamo a ridere del COVID-19 proclamiamo, di fatto, che non siamo completamente paralizzat”’. Non si possono però affrontare il disorientamento, il vuoto, l’impotenza e la disperazione di questi giorni solo con umorismo e sarcasmo, né tantomeno basta affacciarsi alla finestra per cantare l’inno d’Italia, soprattutto quando il numero dei morti aumenta vertiginosamente di giorno in giorno. Forse è necessario rallentare, attraversare ed ascoltare il silenzio, il dolore, il lutto e quelle emozioni che abbiamo sfuggito o evitato per molto tempo. Fino a questo momento, abbiamo avuto l’impressione che le tragedie, la morte, le carestie, le migrazioni di massa appartenessero ad altri, così le abbiamo sistematicamente rimosse e collocate in luoghi lontani, perché noi europei ci sentivamo invincibili e protetti dal nostro benessere. Forse è arrivato il momento della ferma, del maggese, del guardarci dentro per provare a riflettere in modo critico sulla nostra esistenza e sui valori consumistici che hanno finora orientato il nostro stile di vita. Certamente è necessario imparare a convivere con chi abita con noi il piccolo spazio casalingo, ma forse dobbiamo accettare e vivere le nostre paure, la nostra angoscia di morte e ridimensionare l’onnipotenza che ci ha allontanato dal piacere delle piccole cose. Chi pratica la mindfulness sa quanto sia importante coltivare la capacità di guardare con rinnovata attenzione al momento presente in modo non giudicante e con spirito di accettazione (Hanh, 1989).

Lo scopo principale della paura (nel nostro caso, di un nemico invisibile) è, come già detto, quello di allertare l’organismo affinché possa prepararsi all’attacco o alla fuga. Nelle situazioni in cui sembra non esserci possibilità di salvezza, il nostro organismo va oltre generando una risposta di parziale o totale immobilizzazione, detta freezing (Liotti, 2005 ). L’angoscia della morte, se non è vissuta pienamente, ci porta ad essere eccitati, compulsivi, fobici e scontrosi. In questa emergenza globale, il corpo è obbligato a fermarsi, a rallentare la sua corsa, quindi perché non provare a rallentare anche la mente? Fermiamoci, proviamo ad esercitare la pazienza e ad abitare pienamente l’angoscia, la solitudine, il vuoto e l’impotenza. Riprendiamo a vivere con meno sovrastrutture e bisogni indotti, proviamo a fare una cosa alla volta e soprattutto ad ascoltare noi stessi e gli altri.

L’emergenza di questi ultimi mesi e forse dei prossimi anni, oltre allo spazio, ha modificato anche il tempo, che si allunga e rischia di diventare inutile ed infinito. Ci siamo abituati a viverlo in modo troppo veloce, nella nostra ansia di correre e di riempirlo di quanti più eventi possibili. Quante volte abbiamo detto o ascoltato la frase “oggi proprio non ho tempo”? Quante volte ci siamo trovati contemporaneamente a scrivere al computer, a rispondere al telefono e a parlare con qualcuno che stava di fronte a noi? Abbiamo usato il nostro tempo proiettandoci sempre in avanti, mentre facevamo una cosa ne pensavamo una successiva. Il tempo ci sfuggiva tra le dita e non siamo stati capaci di vivere sufficientemente il “qui ed ora” (questo concetto deriva dalla locuzione latina “hic et nunc”, un motto che riprende il principio del “carpe diem” di Orazio: vivere nel “qui ed ora”, significa vivere nel momento presente, non intrappolati nel passato e nel futuro. Sono però le culture orientali ad aver esplorato ed ampliato questo concetto).

Tra i quattro termini che gli antichi greci utilizzavano per indicare il tempo, due sono per noi molto significativi: Chronos e Kairos. Il primo indica il tempo in senso cronologico e sequenziale (minuti, ore, giorni, etc.), che può diventare quello che ci travolge, quello ripetitivo che non basta mai. Il secondo rappresenta il momento giusto per l’accadere di qualcosa, anche di speciale, per chi la sta sperimentando in quel preciso momento. Come mai ci siamo persi la capacità di vivere il momento in cui sta accadendo qualcosa? Se vivevamo qualcosa di bello, pensavamo che non lo fosse abbastanza o che ci sarebbe stato qualcosa di ancora più bello il giorno dopo e così via. Se vivevamo qualcosa di triste, pensavamo o cercavamo qualcosa che scacciasse questa emozione. E così facendo, prima di viverlo, il presente era già passato, anche se il futuro non era ancora arrivato e, quando sopraggiungeva diventando il nostro presente, ancora una volta   non esisteva perché la nostra mente era rivolta ad un nuovo ed illusorio futuro. Ci siamo impantanati, complice anche il potere dei media e del consumismo imperante, in un circolo vizioso senza fine, che solo una grande presa di coscienza collettiva o una catastrofe inattesa ed improvvisa possono interrompere. Oggi siamo obbligati a fermarci in questo presente, per quanto tragico e mostruoso possa essere ed abbiamo bisogno di pensare. Se ci fermiamo realmente, riusciremo a pensare e, se riusciremo a pensare, guadagneremo la capacità di sentire meglio quello che proviamo, anche se ci spaventa, ci annichilisce e ci sconcerta. Grossman (op. cit.) aggiunge:”La presa di coscienza della fragilità e della caducità della vita spronerà uomini e donne a fissare nuove priorità. A distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è futile. A capire che il tempo – e non il denaro- è la risorsa più preziosa. Ci sarà chi, per la prima volta, si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere‘. “ Non possiamo più scappare e non solo perché non ci sono luoghi alternativi; e allora se ci fermiamo, forse riusciremo a dare un senso a quello che stiamo vivendo adesso e a capire come (ri)costruire un nuovo futuro per noi e per i nostri figli. Non possiamo più rimandare e attendere che le cose cambino da sole, non possiamo aspettare che qualcun’altro pensi, parli o agisca per noi. E’ indispensabile per ognuno ri-pensare completamente il proprio essere nel mondo.

(Pubblicato su State of Mind.it)

(Foto di Sonia Simbolo)

Lascia un commento